Marina Abramovic, l’artista serba di fama internazionale, famosa per le sue performances, il 16 settembre 2001 mette in scena una delle sue esibizioni all’interno del padiglione Charcot.
Il titolo del progetto è “Mambo a Marienbad“, ovvio riferimento al film di Alain Resnais.
Tutto comincia con un paio di scarpe nere da indossare, apparentemente normali, ma niente è normale quando si parla di manicomio.
Avviandosi nel lungo corridoio ci si rende conto che il passo si fa pesante e scoordinato: le scarpe infatti hanno dei magneti che limitano il movimento, ancorandosi al pavimento ricoperto di lastre di metallo.
L’istinto naturale è quello di raggiungere il più velocemente possibile lo spazio aperto e luminoso in fondo al corridoio lasciandosi alle spalle le fatiscenti stanzette laterali ospitanti surreali presenze.
Giunti faticosamente nella grande sala luminosa un “Mambo italiano” si libra nell’aria.
Marina Abramovic, in vistoso e sensuale abito rosso acceso, anch’essa magneticamente ancorata, tenta innaturalmente di ballare.
Il contrasto tra la leggerezza della musica e la pesantezza del corpo.
La goffaggine, la mancanza di coordinazione e lo squilibrio, generano una visione disallineata della realtà, della “normalità” sin troppo riconducibile alle gesta dei “matti”.
Questo percorso/esperienza, l’atmosfera e le impercettibili sensazioni che il manicomio di Volterra ha insite in se richiamano ad un passato che fu di follia creativa, di un disagio soltanto immaginabile che l’artista, forse, ha voluto ricercare ed analizzare.
La foto è di Attilio Maranzano, rinomato fotografo in campo artistico
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