Qualcuno volò sul nido del dottor Packjanowskij
Remo Lenci nelle vesti del dottor Packjanowskij
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Autore:Remo Lenci
Qualcuno volò sul nido del dottor Packjanowskij
“Ma te non sei normale!”.
Vi sarà capitato qualche volta di sentire o pronunciare questa frase: se l’avete detta che cosa volevate intendere?
E se l’avete sentita, magari rivolta a voi stessi, l’avete presa come un’offesa o come un complimento?
O vi ha lasciati indifferenti?
Se conoscete la “figura” del Dr, Alberto “Packjanowskij” Pacchiani, e ciò che rappresenta, può risultare persino difficile rispondere a domande del genere e forse la lettura di questa testimonianza potrebbe offrire qualche utile spunto.
Così come mi era successo con Fernando NOF4 Nannetti, anche il Dr. Pacchiani, anzi Packjanowskij – come tutti lo chiamavano, per me è stato per lunghi anni più che altro una leggenda, un mito, forse addirittura un archetipo.
Con la grossa differenza che lui lo avevo visto davvero, con i miei occhi, le prime volte da adolescente, magari in via Guidi, in centro a Volterra, dopo l’uscita anticipata dal liceo del sabato mattina.
Chiunque lo avesse visto, anche solo una volta, non se lo sarebbe mai più scordato e la sua silhouette (*ci ritorneremo) gli sarebbe rimasta impressa dentro per sempre.
Sì lo ammetto, a prima vista faceva paura, poi una agghiacciante curiosità, poi addirittura ammirazione, o una specie di magia, fatto sta che ti restava stampato il suo nero profilo in testa come in una pellicola fotografica di qualche anno fa.
Sentivo dire le cose più assurde di lui, tipo che si era laureato in medicina e specializzato in psichiatria già da ricoverato in manicomio, oppure che fosse un medico che era stato poi internato, che viveva in manicomio assieme agli altri degenti, di giorno li curava e la notte ci dormiva insieme, tutte storie che poi ho scoperto essere non vere ma per quel che voglio dire qui non ha molta importanza, perché la “leggenda” comunque era lì, esisteva, entusiasmava, tutti potevano vederlo, alcuni ne vedevano la faccia, (pochi) ci parlavano, e per certi versi lo ammiravano, ne erano ancora più incuriositi, la potenza, anche simbolica, del personaggio era ancora più devastante per quelli che lo conoscevano da vicino.
Poi, molti anni dopo, abitavo in Valdera già da un po’, ero in vespa e improvvisamente lo rividi, era lui, cappotto, sciarpa a coprire totalmente il viso, cappello sugli occhi, guanti, ombrello, inconfondibile, sul vecchio ponte napoleonico di Pontedera…
“Ma che ci fa? È una visione?”
non sapevo fosse di Pontedera, anzi, realizzai che non sapevo proprio niente di lui, e fino a poco tempo fa mi andava bene così, una metafora è ancora più efficace quando è evocativa, quando richiama a molto altro, a mondi lontani, aperti e dai tratti in parte indefiniti.
Poi, grazie anche all’esperienza con Fernando NOF4 Nannetti ho potuto approfondire la conoscenza della realtà dell’ex manicomio di Volterra, dove il Dr. Pacchiani ha lavorato per molti anni, ed ho avuto modo di incontrare lo squisito Dottor Angelo Lippi, suo collega e affezionato amico, che forse in un atto di fiducia, dopo avermi parlato a lungo del Dottor Alberto Pacchiani, mi consegnò una copia di tutte le sue poesie, tutte firmate, numerate, datate e con introduzioni esplicative scritte in terza persona dallo stesso Dottor Pacchiani.
Tornai a casa, le lessi subito e subito ne rimasi folgorato, oltre a sganasciarmi dalle risate, intuii che c’era un potenziale enorme, che quelle poesie ironiche, e soprattutto autoironiche, con stile, metriche e rime perfette, aprivano nuovi mondi sul manicomio, sulla psichiatria, sulla “diversità”, sulla follia e quindi forse su tutti noi.
Anticipai subito al Dottor Lippi la mia idea di farne uno spettacolo e la sua garbata domanda mi colpì:
“Di quale aspetto del Dottor Pacchiani vorresti parlare?”
La domanda mi sembrò subito molto profonda e penetrante, meritevole di attenta e ponderata riflessione, invece risposi subito, di getto, senza pensarci un attimo: l’aspetto che mi appassionava di più era che fosse un medico, psichiatra, che si auto-definiva “Matto”, che era perfettamente consapevole della sua patologia psichiatrica (“schizofrenico simplex”) da un punto di vista scientifico.
A questo punto la storia del Dottor Alberto Pacchiani andava raccontata, per forza, era una vera e propria urgenza, e sempre a questo punto arriva la telefonata del mio amico Sandro Marzocchini chiedendomi se avessi qualche idea di spettacolo da fare al circolo ARCI il Botteghino de La Rotta, vicino a Pontedera (PI), ecco fatto, chiamatelo fato, destino o come vi pare ma raccontare la storia Packjanika ormai era diventato ineluttabile.
Già, ma per poter raccontare una storia prima bisogna conoscerla e così, con la mia complice Rosita Ambrosio (cofondatrice della “R&R”), iniziò l’intenso lavoro di ricerca e documentazione, al Botteghino conoscevano il Dottor Pacchiani per la sua fervente attività politica e ci raccontarono vari episodi su questo suo aspetto, ci misero in contatto con i suoi parenti (tra cui Carla Lanini e Alberto Puccinelli), con i quali parlammo e che, dolcissimi, ci raccontarono un sacco di cose, anche intime e personali, su Alberto Pacchiani, nato a Pontedera (PI) nel 1936 e morto nel 2019.
Per la messa in scena abbiamo scelto uno stile il più possibile asciutto per raccontare la sua storia, in modo quasi cronachistico, utilizzando articoli di stampa, trascrizioni di testimonianze dirette e, soprattutto, le sue poesie.
Sempre su impulso del Marzocchini è stato coinvolto Gianni Capecchi per le Musiche e Massimo Bernacchi per disegni e animazioni (partendo da illustrazioni e bozzetti dello stesso Dottor Pacchiani).
E così tutto è fluito subitaneo, intenso, ineluttabile appunto, come se questa storia avesse in sé l’urgenza di essere raccontata, per insegnarci qualcosa di necessario, ed ogni elemento dovesse combinarsi al meglio per far esplodere la “Packjianika” icona.
Così è nato lo spettacolo “Il Medico Matto” (titolo di una delle poesie in cui il Pack si fa degli esilaranti autoritratti in rima), e non è tanto di questo che vorrei parlare (se non lo avete visto e se vi capita, magari vedetelo… o anche se l’avete già visto, perché tanto lo cambiamo sempre) quanto semmai delle reazioni del pubblico, che, replica dopo replica, ci hanno particolarmente colpiti, facendoci riflettere ma soprattutto insegnandoci molto.
A parte il commento dei suoi parenti “ad Alberto sarebbe piaciuto” che ci ha fatto un piacere immenso, al limite della commozione, ci ha fatti crescere guardare stralunato divertimento, stupore (leggermente scandalizzato) e compassione negli occhi del pubblico.
Abbiamo visto tutti, ascoltato tutti, durante le repliche nei circoli arci in Valdera, al Cantiere San Bernardo di Pisa, dove lo abbiamo rappresentato in un fine settimana per diversamente normali dal titolo “Da Vicino Nessuno è normale”, con dibattito e testimonianze sul tema, a Volterra, al teatro di Carte Blanche, davanti al carcere e nel (direi molto) suggestivo Padiglione Ferri all’ex manicomio, abbiamo accolto tanti suggerimenti dagli spettatori (che però sentiamo in qualche modo contemporaneamente protagonisti) al punto che lo spettacolo cambia ogni volta, perché ogni volta è lui, con il pubblico, a cambiare noi.
Ora per esempio, col determinante impulso e talento di Gianni (Capecchi) abbiamo sentito il bisogno di sfruttare al meglio il potere da “amplificatore emotivo” della musica per entrare ancora più in profondità nel mondo packjaniko, in modo da cercare di renderlo ancora più detonante, ed ecco la musica dal vivo con Gianni Capecchi alla chitarra e Jacopo D’Arpino al contrabbasso.
Dopo una replica al Sanbernardo ci ha molto colpiti una brillante attrice che ha visto lo spettacolo e ci ha ringraziati per averle fatto conoscere questa storia…
Grazie? Perché? Cos’ha questa storia di così importante? Cosa ci insegna?
Per cominciare a tirare le fila riprenderei dalla cortese e rispettosa domanda di Angelo Lippi, nel tono della sua voce, al telefono, mi parve di intuire una sorta di gentile preoccupazione e per la prima volta è emersa la drammatica priorità del rispetto del dolore, della dignità, degli altri (tutti) e di noi stessi, ed ho come avuto un sentore della sofferenza che il Dottor Pacchiani e tanti (quanti?) come lui possono aver provato, o provare, in vita loro.
E poi, replica dopo replica, ho iniziato lentamente a capire meglio anche il senso della mia risposta: durante il colloquio con lo psichiatra, il personaggio interpretato da Jack Nicholson nel celeberrimo film di Milos Forman, il cui titolo è parafrasato qui in cima, si finge malato psichiatrico per non essere messo in carcere (…forse non conosceva bene la situazione dei manicomi) e chiede al medico cosa deve fare per essere considerato davvero “Matto”.
Bene, Packjanowskij fa molto, molto di più, avete presente lo “Stigma”? Il marchio, l’impronta, il “bollino” da affibbiare ai pazzi, ai folli, ai matti … ai diversi.
Il Pack da medico psichiatra ha il potere di metterlo agli altri questo bollino, con diagnosi (su cui pare fosse quasi infallibile) e cure adeguate, ma a lui non basta, da brillante scienziato, da lottatore politico, da uomo di cultura quasi sconfinata, con il suo dolore, la sua ironia, il suo acume e la sua sofferenza cosa fa?
Quel bollino se lo dà per sé, diventando così, per sua stessa scelta, ufficialmente, il Medico Matto, Packjanowskij, il Pack, l’Omo Nero, l’Uomo Invisibil (“che stragi minaccia”) ecc. ecc.
Pare che Walt Disney abbia detto che un personaggio dei fumetti o dei cartoni animati, funziona se è subito riconoscibile la sua silhouette (che si riferisca a Topolino Michele?), l’icona packianika è micidiale anche per questo, è detonante, esplosiva, un vero e proprio corto circuito, un paradosso che fa definitivamente saltare, anche in noi stessi che lo guardiamo, il già labile confine tra “normalità” e “diversità”, ed ho come l’impressione che questo ci faccia stare meglio, molto meglio.
Sicché grazie Dottor Pacchiani (Alberto), la tua lezione non finisce qui, anzi tante cose hai ancora da dirci, e noi ci siamo!
Remo Lenci – Qualcuno volò sul nido del dottor Packjanowskij