Charcot di Narciso.h
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Titolo:
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Attori:Giorgia Perugi
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Autore:Narciso.h
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Regia:Tommaso Dei
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Riprese video:Tommaso Dei
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Anno:2022
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Tipologia:Video musicale
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Fotografia:Tommaso Dei
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Montaggio:Tommaso Dei
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Produzione:Stefano “Borrkia” Toncelli
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Studio di registrazione:
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Musiche:
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Durata:4:07 minuti
TAG:
Charcot di Narciso.h: contestualizzazione
Charcot di Narciso.h è nata in un pomeriggio dell’estate scorsa, da una voglia repentina di scrivere che già da un periodo mi tormentava ma che non aveva ancora trovato via di fuga.
L’idea iniziale era quella di scrivere un testo su una progressione di accordi a cui ne avevo attribuito già un altro in inglese che, però, non sentivo abbastanza vicino.
Volevo mettere per iscritto le emozioni che provavo in quel periodo e che forse solo grazie alla scrittura avrei potuto guardare in faccia.
Allo stesso tempo non me la sentivo di scrivere qualcosa che mi riguardasse direttamente e quindi mi sono concentrata sull’osservazione di ciò che mi circondava, in particolare su ciò che sembrava colpirmi, o meglio, prendersi una parte di me.
L’ex ospedale psichiatrico di Volterra ha sempre fatto parte della mia realtà.
Ricordo che facevo gli allenamenti dei primi anni di pattinaggio nella pista sottostante, anche se l’ingenuità di una bambina di 6 anni non mi permise allora di fare caso a quella struttura così “arcaica“.
Eppure, crescendo, capitava spesso che mia nonna, ex infermiera dell’ospedale, mi raccontasse della storia dei padiglioni e dei loro nomi; io ne rimanevo incuriosita.
Erano luoghi proibiti e in un certo senso non poterli “visitare” mi lasciava in bocca una certa amarezza, proprio perché, grazie alla testimonianza di mia nonna Ariella, non mi sentivo lontana dalle vicende che mi erano state raccontate, ma paradossalmente la distanza dai padiglioni Ferri e Charcot mi abbatteva.
La curiosità di capire in modo più trasparente il passato di quelle mura mi ha, in un certo senso, travolta.
Durante la stesura del testo ho trovato molta difficoltà nel cercare le parole che più si adattavano al mio modo di esprimere una storia come questa.
Non è stato affatto semplice; tra un “è superficiale e poco credibile” e un “no, non sei all’altezza” la vera domanda alla fine è stata:
“Giorgia, ma la vuoi fare l’artista o no?”
Il pormi davanti alla medesima scelta mi ha letteralmente devastato.
Poi, come se mi conoscesse da sempre, la mia coscienza ha continuato:
“Perché, se lo vuoi davvero, devi essere pronta a correre il rischio di esporti anche alle peggiori critiche.
Se vuoi fare l’artista devi essere degna di portare tale nome.
Devi scrivere cose che scaturiscano dubbi e polemiche, cose che scavino nelle persone… altrimenti puoi anche tornare alla tua normalità, a scrivere temi a scuola, a cantare una volta alla settimana solo durante l’ora di canto… Che a pensarci non è affatto male, soprattutto perché è semplice.
Se, lo vuoi davvero… Almeno ci devi provare. Mettiti al lavoro; ciò che vuoi davvero va oltre ad un giudizio negativo.”
Insomma la paura costante era quella di fare il passo più lungo della gamba; diciamocelo, quello che la gente veramente pensa è:
“Una ragazza di 16 anni non può trattare in modo dignitoso un argomento così socialmente forte, così sofferto.”
E forse la gente ha anche ragione.
Le parole, anche quelle più alte e raffinate, rischiano di cadere nel banale, di essere fraintese.
Le parole sono un mezzo inesatto, incompleto, che dà lo spunto per riflettere ma che alla fine lascia il pensiero libero di andare dove vuole.
Allo stesso tempo però la verità probabilmente è che abbiamo ancora il timore di affrontare tali argomenti e quindi cerchiamo di schivarli; in questo modo, rischiamo troppo spesso di diventare “occultatori della storia” e, a mio parere, è fondamentale che l’arte tenti di opporsi, usando tutti i mezzi che ha a disposizione.
La pubblicazione di un mio brano era davvero un sfida più grande di me.
“Ti farà stare male.”
L’ho pensato tante volte.
Ma se stare male vuol dire sentirsi vivi, allora sono disposta a farlo.
È questo ciò che succede quando si ha un sogno enorme tra le mani; ci si sente vivi.
E per quanto i sogni possano fare male, quando sono l’unica cosa che abbiamo, non c’è nulla che ci trattenga dall’inseguirli.
Questo è ciò che mi ha spinto a scrivere “Charcot”; la voglia di approfondire le mie conoscenze sulle storie di pazienti, padiglioni, medici e terapie, il bisogno di cercare di comprendere come io avrei reagito in un contesto simile, la ricerca di nuove sensibilità e il disperato tentativo di inseguire un sogno.
La prima cosa a cui ho dovuto fare fronte per la realizzazione è stata quella di trovare una forma adatta al tema trattato e coerente con tale contesto.
Per chi scrive, capita spesso di non voler spiegare con parole suntuose o termini sfarzosi le proprie idee ma di ricercare la semplicità in alcuni gesti quotidiani.
Nei giorni in cui ho scritto il pezzo avrei voluto al mio fianco un amico immaginario, pronto ad ascoltare le mie insicurezze; ho assecondato questa mia necessità facendo raccontare al personaggio stesso la sua storia, sottoforma di una lettera da spedire ad un amico che non esiste o che, anche se esistesse, non la riceverebbe comunque.
La “corrispondenza negata” è un tema ricorrente quando si tratta di questi argomenti; la mancanza della vicinanza al mondo esterno favoriva l’isolamento delle persone e evitava allo stesso modo di rivelare verità scomode, che tuttavia, forse, erano più note di quanto si pensasse.
Charcot di Narciso.h: analisi personale del testo e commento
Charcot di Narciso.h: strofa 1
La protagonista, che è riuscita a tornare nel luogo da cui ha desiderato angosciosamente di fuggire ma che rimane una “ferita invisibile” che la perseguita, rivive la sua storia, una delle tante, all’interno dello “Charcot”.
Il posto che ha lasciato molti anni prima, adesso è completamente diverso, talmente abbandonato a sé stesso che il verde incolto lascia intravedere a malapena la luce e così consumato che anche dell’emblematica scritta che primeggia sull’edificio, è rimasto ben poco, solo il senso di macabrezza.
La luce che c’è ma non si vede può essere metaforicamente interpretata come la creatività, la personalità e l’unicità del singolo che, quasi sempre, per comodità, veniva occultata e sommata a tutte quelle cose di cui, alla società, non importava niente.
I colori dei graffiti fanno da contrasto al colore del passato, il grigio, che sembra aver invecchiato anche il padiglione, un essere tecnicamente inanimato; i vetri delle finestre sono rotti e le inferriate arrugginite.
La trascuratezza del luogo sembra prendere volontariamente possesso della protagonista e del suo passato senza lasciarle alcuna possibilità di scappare da un incubo tale.
Ella sente ancora riecheggiare le grida e i suoi sforzi invani, che ormai si sono dispersi nella solitudine, insieme alle lettere e alle richieste di aiuto che rimangono tutt’oggi senza risposta.
Le sue scuse non sono provocatorie ma piuttosto disperate e hanno come unico intento quello di giustificarsi per aver disobbedito all’ordine di tenere il conto del suo malessere, e quindi di esser venuta meno a un adeguato autocontrollo.
Il gioco di parole che riguarda la camicia di forza ha il seguente significato: la “vera” forza non è quella che ci trattiene prepotentemente o che ci limita come nel caso della camicia, che deve essere invece definita violenza, ma quella interiore che ci spinge ad affrontare ogni tasto dolente della nostra esistenza.
La protagonista fino ad oggi non ha più trovato la forza di tornare in questo posto, o di dare un senso alla sua testimonianza; allo stesso tempo però non è riuscita a dimenticare e a disfarsi del suo dolore e per questo necessita di tornare sul luogo in cui è iniziato tutto, per cercare di fare chiarezza sul suo passato e metterci un punto fermo, dal momento che la sua “strada”, ovvero questa parte della sua vita, e inevitabilmente gran parte di essa, può terminare solo dove è cominciata.
Senza questa grande presa di coraggio la sua storia sarebbe diventata l’ennesimo fiume senza foce.
“Charcot” di Narciso.h: strofa 2
Nello sconforto più totale, la protagonista del passato cercava di estraniarsi dall’alternarsi della monotonia e delle atrocità che scandivano i ritmi regolari dei reparti.
Si concentrava sull’idea di realizzare graffiti astratti, ciò che la massa, una volta concretizzati, avrebbe definito sprezzantemente “sgorbi” o “scarabocchi” e che rappresentavano terribilmente anche
la visione esterna di un malato mentale, la cui malattia, più che una condizione, era una condanna e un ulteriore motivo di scandalo e disagio pubblico.
Dopo questo flashback avviene la contemplazione del padiglione ai giorni nostri, criticato e sprezzato dai cittadini odierni per la mancanza di manutenzione, ma sicuramente più efficace e puro di come era in passato.
Oggi, infatti, c’è chi ha scritto per lei e ha reso i muri dell’ edificio perfette tele per i graffiti.
Per questo motivo non sono tanto i graffiti stessi che consumano ogni giorno di più la costruzione, ma il ricordo dolente del passato che non riusciamo ad accettare e superare; questo è il motivo per cui le urla risuonano ancora nelle stanze.
Presa da un momento di esile furore il mittente abbandona le speranze e prende coscienza del fatto che la lettera non verrà mai spedita né ricevuta, ma che allo stesso tempo può aiutarla nel convincersi di ciò che scrive.
Il tono diventa provocatorio.
L’unica scarica elettrica, intesa come unica scarica di adrenalina e di energia, risiedeva in ciò che dall’esterno si può solo immaginare: la creatività, gli scarabocchi, appunto.
A ciò succede un altro grande flashback sulla solitudine delle tante sere in cui era tenuta sveglia dalle sue paure e in cui l’unica consolazione era la significativa presenza di una bambola di pezza della quale lei era solita prendersi cura.
Soffiare sulle proprie vele significa avere la responsabilità di un viaggio, significa poter gestire l’intensità del vento e in casi estremi, essere in grado di scatenare una tempesta, anche a danno di noi stessi; significa poter decidere anche il male che ci facciamo.
Ora la protagonista può respirare la tanto bramata libertà che le spetta, anche se può goderne solo parzialmente; ella prova a fare qualche passo incerto ma sta ancora cercando la luce della città.
Charcot di Narciso.h: bridge
Il mittente si rivolge finalmente all’amico immaginario riguardo al loro rapporto; il personaggio esterno non sa di essere stato cercato così ripetutamente e può solo immaginare tutti i pensieri (gli aereoplani) che sono riusciti, a differenza delle lettere, a oltrepassare le mura dei padiglioni, volare via e forse anche a giungere a destinazione.
Nonostante la continua privazione di dignità e soprattutto di smeterializzazione di un processo che incide sulla realizzazione personale, la paziente ha sempre cercato di tenersi stretta la sua anima, la sua natura, la sua indole e le sue passioni.
Gli anni in manicomio, per lei, sono risultati essere talmente invadenti da diventare un mare senza riva, un orrendo soffocamento di fronte al quale, al solo pensiero, non può fare altro che sfociare in lacrime.
L’idea dei corridoi in ginocchio viene dalla testimonianza di un fatto realmente accaduto, da parte Ariella Galli, ex infermiera dell’ospedale psichiatrico, nonché mia nonna.
Intorno al 1972, presso il padiglione Livi, allora reparto osservazione, e sotto la responsabilità del Professor Imbecciatori (direttore) e del Dottor Mariani, era stata internata una donna che soleva percorrere ripetutamente lunghi corridoi in ginocchio recitando preghiere; questa è un’immagine che mi ha sempre colpita particolarmente e per questo ho ritenuto importante, in quanto testimonianza specifica, riportarla nel testo.
Una volta restituita la “libertà” ai pazienti, a seguito della legge Basaglia (180) del 13 maggio 1978, questi ultimi si sono trovati a gestire una situazione ormai del tutto estranea e il reinserimento nella società, che ancora non era abbastanza informata sulla malattia mentale e che dunque non voleva accettare il fatto di poter incontrare per la strada individui dichiarati pubblicamente “pericolosi”, nella maggior parte dei casi è risultata un’operazione quasi del tutto impossibile.
La situazione sopraccitata è metaforicamente rappresentata dalla tanto desiderata apertura di un cancello che in tale modo diventa un simbolo “neutro” per eccellenza.
Il doversi trovare ad affrontare un modo di vivere completamente diverso, autonomo e indipendente, ha lasciato tra i malati una grande confusione; chiunque in circostanze simili sarebbe rimasto spaesato.
L’atto di “raccattare” vuole ribadire la tragicità della storia; la protagonista si trova tormentata miseramente dall’idea di dover coercitivamente riacquistare qualcosa che ha smarrito, ma sapendo già di averla persa per sempre.
Viene quindi estremizzata e sottolineata l’impotenza di ogni singolo individuo davanti al suo passato.
Questo vuoto che enfatizza il concetto della solitudine si pone in posizione di contrasto col pieno delle novità che si pongono all’inizio di una nuova strada; la contrapposizione è così dolorosa e disorientante che probabilmente sarebbe stato più semplice finire la propria esistenza all’interno della struttura.
È presente un climax.
Nonostante sia il punto di maggiore tensione del testo, la musica cessa per pochi secondi; il silenzio ribadisce il vuoto, la scarsità quantitativa di parole, le quali prendono un ritmo secco, asciutto, ben cadenzato e quasi sincronizzato con le lancette di un orologio.
Charcot di Narciso.h: chorus
Vengono poste scuse intrinseche pregne di sarcasmo; la protagonista si giustifica per non essere abbastanza, per essere imperfetta, per essere debole, per essere triste e non riuscire a vedere la luce della città, ovvero la speranza.
Il bagliore a cui si fa riferimento è riconducibile al “paese della luce”, ovvero il soprannome attribuito al manicomio di Volterra da una paziente schizofrenica.
Secondo la sua opinione, la perdita di realtà poteva essere direttamente collegata a una tormentante visione di luce intensa e accecante, un’intollerabile e ossessionante privazione del buio.
A questa citazione è ispirato anche il videogioco “the town of light”.
Il non riuscire a vedere le luci della città invece vuole rimarcare la condizione di esclusione e isolamento dei pazienti dell’ex ospedale psichiatrico, posto in una zona periferica di Volterra, anche se all’epoca frequentata.
In questo testo ho cercato di unire la rabbia, la fragilità e la passione.
La paura infatti è presente solo come sentimento passato che afferma la sua presenza solo tramite i ricordi.
Il dolore è, in fondo, il risultato dell’alternanza dell’emozioni di ogni ex paziente.
Le inferriate, le finestre e le pareti bianche di enormi stanze sono simboli allegorici che descrivono la desolazione e la lontananza dalla vita “tradizionale” talmente desiderata.
Il gesto di “imbrattare” riprende sia la scorrettezza di fare azioni così spontanee e genuine, sia il tema dei graffiti, in modo provocatorio.
La sua vernice consiste nelle sue percezioni; l’idea è infatti quella di raccontare finalmente la sua storia tramite una lettera.
La frase finale è quella a cui sono più attaccata; la sua aggressività mi tocca nel profondo.
“Fare pace con la fantasia” significa spegnersi, svuotarsi di ciò che ci valorizza come singoli individui.
Anche ai nostri giorni, la massa tenta continuamente di far passare come messaggio ragionevole quello di smettere di sognare, di creare, di riflettere ed elaborare.
La fantasia rimane sempre l’unica cosa che ci salva, un appiglio indispensabile in momenti difficili.
La fantasia ha il compito di tormentare, di rimanere viva, di escogitare e di sfornare idee in continuazione.
Un artista non dovrebbe mai fare pace con la fantasia.
Nessuno dovrebbe mai fare pace con la fantasia.
Collaborazioni e ringraziamenti
Oserei definire l’incontro con Tommaso Dei una grande fortuna, proprio perché lui per primo mi ha proposto di fare questa collaborazione e senza di lui adesso probabilmente “Charcot” sarebbe uno dei tanti fogli incompleti accatastati nel cassetto della mia scrivania.
Tommaso si è dimostrato nella realizzazione di questo video un vero professionista, una persona appassionata, disponibile e determinata nell’intento di fare del proprio meglio, ma soprattutto si è rivelato un vero amico; ha messo a disposizione le sue abilità senza chiedere niente in cambio se non la possibilità di mostrare il suo valore e di palesare l’idea che non per forza servono mezzi di altissima qualità se si hanno buone idee.
Se l’occasione di ricoprire il ruolo di regista e videomaker di questo videoclip ha avuto un riscontro positivo è solo grazie al suo talento e alla sua umiltà.
Siamo davvero una bella squadra.
Per quanto riguarda la produzione mi sono fidata ciecamente di Stefano Toncelli detto Borrkia, che conoscevo già in quanto ex allieva di un corso di musica d’insieme tenuto da lui.
Stefano è riuscito a dare la carica necessaria al pezzo ma a dosarla in modo che non risultasse eccessiva, dando la sua impronta rock/pop ma attualizzando il brano; il suo arrangiamento è stato indispensabile.
Di fondamentale importanza sono stati anche i suggerimenti e i consigli pre-produzione di Natascia Naldini (insegnante di canto) e David Dainelli (insegnante di pianoforte e chitarra).
Un ringraziamento va soprattutto ad Andrea Trafeli e all’associazione “Inclusione Graffio e Parola Onlus” per averci permesso di girare il videoclip all’interno del padiglione Ramazzini e all’esterno dei padiglioni Charcot e Ferri.
La prima volta che, grazie all’associazione sopracitata, sono riuscita a entrare nella zona degli esterni dello Charcot e del Ferri (20/12/2021), e ancora di più quando io e Tommaso abbiamo girato gli interni del video nel padiglione Ramazzini (31/01/2022), sono rimasta folgorata dalla complessità di quei luoghi.
La voglia di vestirsi di empatia mi ha portato a narrare l’episodio, anche tentando qualche passo nell’ambito dell’arte figurativa, nel modo più sincero che potessi.
Poter entrare fisicamente dentro un padiglione è stata un’esperienza a dir poco da brividi, quella grazie a cui sono riuscita a rendere il pezzo completo dell’interpretazione che questa storia si merita.
Pensiero dal backstage
“31 gennaio 2021: fine delle riprese. Le porte di un padiglione si richiudono di nuovo, ma sul tetto, ora, ci sono ben 5 aeroplanini di carta, e nelle grandi stanze riecheggiano le note di una canzone. Possono bastare pochi ciak per toccare con mano quanto sia necessario indossare con dovuto rispetto e con pacata sensibilità i panni di chi la storia l’ha vissuta sulla pelle. Forse non si vede, ma adesso è parte di me quella 𝙛𝙚𝙧𝙞𝙩𝙖 𝙞𝙣𝙫𝙞𝙨𝙞𝙗𝙞𝙡𝙚, quell’emozionante progetto dal nome “Charcot”. Tutto ciò non sarebbe mai stato possibile se non avessi avuto l’appoggio dell’associazione “Inclusione Graffio e Parola” e la disponibilità dell’eccezionale Tommaso Dei.
Narciso.h
Sono Giorgia Perugi, in arte Narciso.h, ho 16 anni e vivo a Volterra. Suono la chitarra da quando avevo 9 anni e prendo lezioni di canto da circa 5 anni; la musica è sempre stata per me, non solo un rifugio, ma anche l’occasione di esprimermi e di potermi “amare”.In seconda media ho iniziato a mettere su carta i miei pensieri e così ho scoperto di avere una passione nascosta anche per la scrittura. Ho sempre avuto il desiderio di far conciliare queste due grandi passioni e quando ho capito di potercela fare è stata una soddisfazione ineguagliabile.
Più vado avanti e più cerco di conoscere e sperimentare l’arte a 360 gradi, non esclusivamente per una sfida personale, ma per poterne capire il senso quasi a pieno.
Sui social mi piace avere un contatto stretto con coloro che ritengo, prima che un “pubblico”, un gruppo di amici con cui condividere esperienze artistiche.