La terapia del lavoro nello spedale psichiatrico di Volterra (1933)
Al quale è annessa una sezione di manicomio giudiziario
La terapia del lavoro nello spedale psichiatrico di Volterra
Ho avuto l’onore di parlare sulla terapia del lavoro nei malati di mente in un congresso di alienisti, indetto in Roma nel dicembre 1929 dall’Associazione generale fascista del pubblico impiego. Ritorno, obiettivamente, oggi sull’ argomento, confortato da un esperimento, più che trentennale fortunato, e dimostrativo.
Non dirò cose nuove, né mi soffermerò a ripetere quali benefici effetti derivano dal lavoro e quale utilità ne possa trarre l’alienato quando l’ operosità sia intesa come un metodo di cura.
È questo oramai un concetto assiomatico. Ma della applicazione del metodo, cocciutamente, gli stranieri ce ne disputano ancora la priorità.
È ciò è doloroso perché proprio da questa nostra terra, dove la genialità è sfolgorante quanto il suo sole, si è sprigionata la prima scintilla che ha fatto divampare l’incendio della umana innovazione.
Non tesserò ricordi storici perchè d’ altro, in questo articolo,dovremo occuparci ; solo solennemente, e non per noi ma per gli stranieri, affermo ancora una volta, che CHIARUGI fu il precursore di PINEL.
Le date non si distruggono né si cancellano.
Le catene si spezzavano a Bicetre solo nel 1798, quando nel nuovo manicomio di Bonifazio, aperto il 19 maggio 1788 – 10 anni prima – i pazzi per volontà di CHIARUGI, (che con Leopoldo di Toscana aveva già dettato il monumentale Codice di Sapienza medico psicologica e di civile dottrina) passeggiavano liberi, tranquilli per i viali erbosi, vivendo vita libera,riposata, operosa, e contenta.
Ma ancora: CHIARUGI licenziava il suo Trattato della pazzia nel 1793, mentre PINEL licenziava Il trattato medico-filosofico solo nel 1801 dopo otto anni.
Il nostro buon seme ha però subito germogliato in terra straniera più che da noi; questo è doveroso riconoscerlo. Nel 1864 Carlo LIVI poteva scrivere a BRIERRE di BOASMONT, nella celebre e classica lettera: «Abbiamo il primato della riforma, ma in fatto di manicomi, oggi l’ Italia è rimasta addietro alla Francia ed a tutte le nazioni civili.»
È vero, ma eravamo un popolo in via di formazione e di assestamento. Oggi abbiamo fatto un grande cammino ascensionale; nei nostri manicomi non solo imperano le dottrine di CHIARUGI, ma si è raggiunto un grado tale di perfettività che anche gli stranieri più evoluti possono e devono invidiare.
Ed entriamo in argomento.
Se ho promesso che non dirò cose nuove mi sia permesso affermare che spero una sola novità apparisca manifesta dalla mia esposizione, quella cioè del metodo dell’applicazione del lavoro, della latitudine che, in ogni campo, vado ad esso concedendo, fatto sempre più sicuro ed audace dopo un esperimento di 32 anni, iniziatosi con 27 malati e culminato con oltre tremila.
Non esistono più per me in sensu stricturi le barriere della natura della malattia mentale, o lo stato di acuzie di essa; ho superata la concezione aprioristica del pericolo che può derivare a sé ed agli altri
in conseguenza del lavoro dell’alienato, arrivo fino al concetto dell’ industrializzazione e sento che se il lavoro è elevazione morale, questa è tanto maggiore quando il malato può venire incontro alla società che lo salvaguarda e lo cura; il parassitismo deve essere ridotto al minimo.
Io abborro la mostra di un’operosità in sessantaquattresimo fatta, ad es., in una piccola, tutta linda, ordinata officina.
Io penso che nella bottega del falegname, costruita con i criteri di necessità tecniche, devono stridere le seghe a nastro, le seghe circolari, le piallatrici, le fresatrici, ecc. come in quella del fabbro devono pulsare tutti gli ordegni meccanici pel trattamento del ferro da plasmare nella fucina ardente o sotto la fiamma ossidrica; io penso che nei nostri laboratori, in poche parole, si deve provvedere a tutto il fabbisogno dell’istituto.
Oggi considero possibile ogni ardimento; la vita con tutte le sue arti, con i suoi mestieri, in grande stile, può e deve penetrare negli asili. Si facciano ancora la treccia di paglia, si lavori lo sparto, si facciano
pure le scatole di cartone, si dia della distrazione a qualcuno, specialmente a chi possiede poche energie fisiche; ma queste categorie di occupati non entrino nel numero di quelle che stanno a rappresentare
la vera e feconda produzione e parimente non c’entrino tutti gli spolveratori, gli spazzatori, i lucidatori di vetri, i coltivatori di fiori. Funzioni buone, necessarie, siamo d’ accordo, ma funzioni poco conclusive, che troverebbero egualmente la loro espletazione; funzioni che, pare a me, vadano un po’ troppo impinguando le percentuali che si danno dei lavoratori.
E penso che – se occorre – la capacità lavorativa del pazzo deve essere adoperata a vantaggio della società in lavori extra-manicomiali. Non ho gettato una frase. Quando il contadino difendeva
nella grande guerra i confini della patria, ho mandato squadre di falciatori e di mietitori nei possedimenti altrui, facendo loro corrispondere la mercede senza atti di crumiraggio. Quale elevazione morale!
A fare degli scavi in terreno archeologico nella città di Volterra, ho mandato i pazzi con grande profitto perchè ingentissima sarebbe stata la spesa ed i mezzi economici difettavano. Sono state messe in luce cose magnifiche, illustrate dal prof. LEVI, il quale afferma di avere difficilmente visti operai più disciplinati, più docili, attenti.
Solo per I’ applicazione costante di un così vasto metodo di utilizzazione del malato di mente, in ogni ramo di lavoro, ha potuto sorgere l’ istituto che dirigo.
È cosa questa che credo non tanto facilmente avvenga o si ripeta, che malati di mente si siano giorno per giorno (32 anni) completamente costruita la loro casa; è stato un lavoro sottile, paziente, un esperimento probativo e pieno di soddisfazioni che ci ha concesso di vedere i 100 produrre per i 200 e questi per i 500 e quindi per i 1.000, per i 2.000, per i 3.000, senza nulla domandare ad alcuno.
Sarà gravato, come grava, sulle spalle dei sanitari dell’istituto un fardello non indifferente di responsabilità, ma abbiamo visto sorgere grande l’ opera della follia, e organica l’abbiamo vista posare su base granitica ed economicamente consolidata vivere, roteando un bilancio di 20 milioni, anche se le gazzette ufficiali ci abbiano sempre onorato di un silenzio significativo e certe cartine di demografia manicomiale del 1928, si ostinino ancora a classificarci fra i manicomi capaci di 200 o 300 presenze dimenticando così anche la paziente cesellatura del prof. Modena; e delle recenti pubblicazioni nostre scientifiche, serie, parlando dei servizi bellici, non ci degnino neppure di un cenno, quando nessun manicomio in Italia ha avuto in osservazione contemporaneamente 1.000 soldati alienati.
Portare però il lavoro a questo limite estremo credo sia solo possibile quando il manicomio abbia una conveniente ubicazione.
Poche parole : bisogna attenersi alle massime dei nostri vecchi: aria, grande tranquillità, lontananza dai rumori, area ed area sono gli elementi indispensabili perché possano prosperare istituti del genere. Scrive RUATA che il suo maestro KRAEPELIN critica vivacemente i manicomi costruiti distanti dalla città. Se questo egli ha affermato per distruggere il volgare pregiudizio della società che ritiene i pazzi solo dei pericolosi, degli antisociali, degli appestati che devono essere tenuti appartati, egli ha detto bene. Ma diversamente solo il manicomio ubicato lontano dai centri popolati, nella tranquillità di una campagna, può vivere veramente a porte aperte, può vivere nel così detto open door del quale, purtroppo, si abusa negli scritti.
Per la sua speciale ubicazione, nel mio ospedale non ci sono mura di cinta o limitazioni perimetrali con reti metalliche, le vie comunali e provinciali passano attraverso l’ istituto, ci sono così rapporti e contatti continui fra il ricoverato ed il mondo esterno; la chiesa parrocchiale con il suo convento, è piazzata nel cuore del manicomio e ad essa convergono sani e malati i quali cosi vivono una vita normale; essi non sono più degli isolati, degli allontanati, dei temuti, sono solo degli esseri che vivono in disciplina. Per parte mia di questi continui contatti non me ne dolgo, che anzi, quando posso, li moltiplico col mandare molti malati soli al caffè, ai divertimenti. Ho perfino dei maestri alienati che da anni ed anni insegnano a leggere e scrivere ai bambini dei contadini limitrofi.
Un manicomio a porte aperte nel quale pulsi la vita in una atmosfera di serena familiarità, non è concepibile in un grande centro se non imponendo penose restrizioni, sacrificando il malato e mettendo ad esso delle pesanti catene morali. In caso di fuga l’alienato è perduto nel dedalo della grande città. Se poi egli è un criminaloide lucido, trova subito il suo covo nella società equivoca della quale spesso diventa strumento.
Nelle nostre grandi città portuali, per es., come sarebbe concepibile un manicomio a porte aperte? Negli istituti piazzati nelle silenti campagne, le fughe rivestono il carattere di un allontanamento temporaneo. Invero chi fugge dopo poche ore è ricondotto all’asilo; è raro il malato raggiunga l’obbiettivo per il non facile orientamento.
Ma del resto è veramente freno alle fughe la grande libertà che si concede, che permette di non sentire tanto fortemente il distacco dal consorzio civile. Dove c’è della libertà le fughe clamorose, premeditate, si può dire che non esistono; si tratta sempre di fughe banali, stupide di confusi, di disordinati e sono la conseguenza di un eccesso di familiarità che si viene a stabilire tra personale e malato; l’infermiere che fa a fidarsi rallenta la sorveglianza. lo paragono queste fughe al furto all’americana o colla patacca romana. Quasi sempre è il cosidetto bisogno corporale che mette in mezzo l’ingenuo e fidente infermiere.
Ma oltre a ciò nei manicomi costruiti nei grandi centri, o di questi alle porte, la vera operosità è sempre un pio desiderio e la retta di mantenimento è così sempre più elevata che altrove. In questi manicomi a nulla valgono volontà ed abilità di sanitari, né modernità di tecnica; bisogna forzatamente limitare la libertà, cautelarsi, e la terapia dell’occupazione si restringerà allora alla lavorazione delle stuoie, dello sparto, delle scatole; le officine resteranno silenti o solo qualcuno vi potrà lavorare sotto un giro di chiave. La conseguenza immediata di un tale stato di cose, conseguenza logica ed inevitabile, è quella che nella inattività e captività, più forte e rapido è il decadimento psichico; il muscolo che non compie un lavoro si atrofizza; la inattività mentale aumenta il torpore della psiche.
In questi istituti non solo aumenta la percentuale dei poveri tronchi vegetanti senza luce di senso e di ragione, degli apatici, dei vuoti nei quali solo vive l’istinto vorace, ma aumentano i malpropri, i sudici, i laceratori. Solo nei manicomi ubicati nell’ isolamento, lontani dai grossi centri, è possibile abbattere le mura di cinta, lasciare ogni pastoia, abbandonare il malato nei campi e nelle aperte officine ed è possibile creare un vero centro sui generis dove, in condizioni sia pure nuove di vita, le più differenti deviazioni della psiche trovano un incanalamento disciplinato da criteri scientifici, che permette, come resultato pratico, di correggere le deviazioni mentali o a salvarle dal naufragio. Si può creare un mondo sui generis,
dove gli abitanti in preda alle idee più strampalate, nella verbigerazione e nel mutismo, nel riso o nel pianto, sotto una disciplina terapeutica, un trattamento dolce ed umano, senza vera frattura dei rapporti di continuità col mondo esterno, coi sani, la vita pulsa regolare creatrice di ricordi e così di risveglio, incitatrice e così di stimolo a superare stati di torpore e di abulia, maestra e così rieducatrice, severa e perciò moderatrice, dolce e carezzevole e quindi consolatrice.
Tutte le norme per la organizzazione della occupazione in un ospedale psichiatrico, per quanto siano perfette, sono destinate a condurre a resultati negativi e pericolosi, se non saranno ottime la educazione e la preparazione del personale di custodia.
Gli infermieri, i quali vivono in contatto immediato e continuo col malato, sono degli attori di primo ordine nel gioco della organizzazione, dello sviluppo, del buon funzionamento delle attività.
Devono essere banditi gli infermieri piantoni che fumano la pipa e leggono il giornale assistendo beatamente alla fatica dei malati che lavorano anche per loro.
È necessario perciò creare in essi speciali attitudini mentali. L’odierna psichiatria esige da essi grande attività, iniziativa, rapidità di decisione, tatto, poichè sono proprio gli infermieri che fanno guarire il malato che il medico cura. L’infermiere «completa e prolunga l’influenza esercitata dal medico» scrive LADAME.
È l’infermiere che guidando e sorreggendo l’alienato, prendendo parte al suo lavoro lo indirizza a prepararsi alla vita libera e ad avere ancor una dignità di uomo nell’ interno dell’ istituto.
Gli ultimi successi della terapia della occupazione sono veramente legati alla educazione dell’infermiere che deve avere anche una certa attitudine e preparazione ai lavori.
E spetta proprio al medico educare il personale addetto ai lavori; dovrà egli impartire elementi di educazione generale, ma, sopratutto, cercherà di sviluppare nell’infermiere il senso della educazione morale e professionale Il medico inculcherà precise istruzioni di ordine, di disciplina, concedendo anche una certa larghezza alla iniziativa personale.
Perché questo compito educativo sia facilitato sono solito – ed i resultati sono stati sempre buoni – reclutare elementi che conoscano un mestiere; faccio loro frequentare la scuola infermieri nell’istituto e come tali, e con gli obblighi tutti inerenti agli altri, li destino principalmente ai molteplici lavori ai quali un giorno erano dediti. E così nei laboratori ho sempre lo stesso personale, con capacità tecniche, conoscitore dei suoi ammalati, educato alla scuola, sottoposto ad uno o più capi d’arte esterni (salariati fissi in pianta), che dirigono l’azienda e ne rispondono.
A questo riguardo si contempera la riserva di qualche alienista circa la posizione di un capo officina non infermiere. Infine se gli infermieri sono attori di primo ordine nel gioco delle attività, l’ispettore capo è la chiave di volta di tutto il sistema; è il vero tratto di unione fra medici e malati, fra questi e gli infermieri; è il consigliere fedele, l’uomo attento, attivissimo; prudente ed audace, buono, ma rigido col personale dipendente.
L’ispettore capo perciò sarà un uomo intelligentissimo; in caso diverso meglio è ritenere di non averlo e fare tutto da sé : saranno allora risparmiate delusioni e noie. Nelle audacie del nostro cammino è doveroso confessare che un tale uomo abbiamo incontrato che fu a tutti noi sanitari di provvido aiuto. L’istituto nacque con lui.
Accertato che l’occupazione rappresenta un grande ausilio della terapia e che, come più tardi vedremo, si devono spingere all’attività non solo gli stati demenziali ma anche tutte le categorie di malati non ancora dementi, inerti e talvolta catatonici, ed i malati all’ inizio della psicosi o in piena evoluzione della stessa allo scopo di riattivare o risvegliare attitudini che vanno affievolendosi o che semplicemente tacciono, è evidente che la organizzazione di tale occupazione è strettamente medica.
Solo il psichiatra trovasi nella condizione di saper organizzare e comporre dei gruppi di lavoratori; egli solo ha la conoscenza precisa del malato e la capacità di indirizzarlo ad un lavoro piuttosto che ad un altro, e di lasciarlo libero o affidarlo alla stretta sorveglianza dell’infermiere; egli solo può giudicare a quale sforzo può e deve essere sottoposto un alienato nell’occupazione e così determinare gli orari di lavoro. Solo l’autorità medica, con la collaborazione di un personale infermieri bene educato, può nella operosità creare un tutto omogeneo che inspiri tranquillità, sicurezza e che cammini con regolarità.
Solo al sanitario che sa valutare uno stato psichico e la natura della malattia mentale, è concesso incoraggiare, spingere, persuadere e, all’occorrenza, dolcemente rimproverare e sempre, ben si intende, per la finalità curativa che si propone. E ciò perchè talvolta è necessario vincere la inattività che molto spesso è compagna della malattia mentale. E bisogna allora farlo il più presto che sia possibile per salvare il dinamismo della capacità al lavoro. Perché bisogna non dimenticare che in certi casi di automatismo bisogna contrastare le tendenze dell’ alienato. Chi può fare questo all’infuori del medico? Solo lui potrà dire se l’automatismo si accompagna a circostanze tali da permetterne l’utilizzazione per un proficuo lavoro.
In argomento un malinteso intervento amministrativo è assolutamente inconcepibile. L’inframmettenza amministrativa sarebbe causa di arresto della vita manicomiale perché il medico, e lo nota ben giustamente il VIDONI, è ostile a concedere il malato ad una attività grossolanamente empirica nella quale l’opera sanitaria passa in seconda linea quando non è trascurata del tutto.
E ciò è doloroso ed ingiusto quando si pensa che lo sviluppo del lavoro è una conquista medica raggiunta attraverso lo studio e la valutazione delle condizioni dell’alienato ed attraverso un aggravio di lavoro e di responsabilità del medico stesso.
Al riguardo io non loderò mai abbastanza le mie amministrazioni. In più di trenta anni di operosità si sono del tutto affidate al corpo sanitario assecondando ogni richiesta, ogni iniziativa. Esse si sono veramente occupate solo di amministrare fuori del manicomio: non ho avuto pastoie di impiegati ed il sanitario è stato l’arbitro lodato della sua ben intesa azione. Ed è stato questo il più grande incoraggiamento a fare; se tale concetto non fosse prevalso non avrei oggi un istituto tanto fiorente; ed ho potuto, con dolore, guardare alle miserie ed ai guai degli altri che si dibattevano e si dibattono in regolamenti per cercare protezione e liberazione.
Ogni scetticismo sulla importanza terapeutica della occupazione dell’alienato è, oggi, definitivamente caduto; perciò bisogna logicamente dedurre che la organizzazione del lavoro, il controllo dei lavoratori è affare del tutto medico e che è necessario che con le modificazioni alla legge 1904 la questione sia risoluta con estrema chiarezza. Il direttore, capo supremo dell’istituto, deve rivestire precise funzioni amministrative per poter fondere la sua capacità medica con le necessità di indole amministrativa, contemperando cosi le imprescindibili esigenze curative con quelle economiche.
E detto questo è doveroso, a parere mio, abbandonare certe idee ancora da alcuni, per la verità pochi, sostenute. Bisogna reagire, lasciare malintesi pregiudizi, abbandonare eccessivi sentimentalismi pericolosi.
È la pazzia la più grave delle sciagure umane per buona ventura giustamente valutata e sentita dalla odierna società. Non più l’abbandono o il rogo, non più molta acqua, poco pane e bastonate, ma l’asilo casa, l’asilo famiglia, l’asilo che ricorda la vita nella operosità e nello svago; la gabbia dorata di Verga. A tutto ciò ha provveduto, con atto doveroso ed umano, la collettività che volle provvedere addossandosi la cura del folle fino alla sua guarigione o al suo mantenimento per tutta la vita nella cronicità.
E poichè negli asili, mirabile conquista, è stato dai sanitari introdotto il lavoro come mezzo di cura, a vantaggio di chi deve essere adoperato quando questo riesca proficuo? Un giorno è stato risposto da molti : A tutto vantaggio dell’alienato. Da altri, che nulla si doveva dare agli ammalati perché compensandoli anche con facilitazioni supplementari di vitto ecc. si viene a togliere al lavoro il carattere che deve realmente ed essenzialmente avere di metodo di cura. Vedremo che anche in argomento la verità sta nel mezzo; certo la questione deve essere differentemente impostata.
Se il pazzo res nullius per la società, nella disciplina tecnica dell’asilo acquista attitudini al lavoro elevandosi così alla dignità di uomo; se il pazzo, legalmente minorato, ritenuto improduttivo diventa una capacità utile, ne viene che crescerà ancora più nella scala della elevazione morale quando con la sua operosità, che è stata ed è fine alla sua rinascita psichica, concorrerà in qualche modo a diminuire il sacrificio che per esso, e per tutta la vita, la società si è imposta.
Chi gratuitamente riceve cure mediche, asilo, vitto, vestiario, servizio, ricreazioni e potesse senza suo danno, senza sacrificio contribuire anche minimamente ad alleviare il peso che per esso altri sostengono e non lo facesse, sarebbe un perfetto parassita.
La società degli alienati non deve in alcun caso demeritare del bene che ad essa viene dalla collettività, anzi, quando può, è suo preciso dovere morale diminuire il sacrificio che altri si addossano per essa.
In fondo si tratta di rispettare il doveroso obbligo che incontra il debitore verso il creditore.
Con questa affermazione non è detto che tutto l’utile debba necessariamente andare a profitto delle amministrazioni e che ad es. il costo della retta debba di tanto diminuire di quanto è il rendimento dell’alienato.
Il lavoro, elemento di cura, bene inteso, armonico, disciplinato, è fonte di economie. Per il miglioramento delle condizioni economiche si devono offrire molte cose che esigenze amministrative non avrebbero altrimenti potuto concedere. Ed il beneficio deve farsi sentire per tutti e la vita conviviale – mi sia permessa l’espressione farsi più signorile, meno monotona. Non mancheranno nell’ istituto il cinematografo, la radio, il fonografo. Si daranno feste danzanti tanto care ai malati; le gite in campagna saranno più frequenti; per le donne ed i bambini si abbonderà in dolciumi ecc. e sarà questo un altro coefficiente di elevazione morale per il malato se riuscirà a provvedere al di più con la sua operosità.
Ma ancora quando il lavoro è produttivo deve essere ricompensato per ovvie ragioni morali, perché sia eliminata ogni parvenza di sfruttamento da parte delle amministrazioni, perché il malato possa persuadersi che si pensa alla sua salute, che lo si calcola un uomo, uguale a tutti gli altri e non è esso il recluso come alle volte egli pensa. La remunerazione invoglia alla occupazione curativa e non la fa parere forzata e pesante. Infine è umano e ragionevole che ogni operaio, il quale produce un determinato lavoro a vantaggio del capitale debba godere sia come salario, sia come dividendo, un frutto conveniente; è questa una legge fondamentale dell’economia politica, cioè che il salario è la giusta remunerazione del lavoro, la mercede pagata per servizi resi, né tale legge può essere messa da parte fra le amministrazioni pubbliche e gli operai alienati che lavorano negli asili. Ma è anche ovvio che per insuperabili ragioni di indole economica il compenso sarà relativo e non potrà ad es. neppure lontanamente, raggiungere il costo della retta perchè bisognerà pur sempre tener conto del lavoro più scarso e meno produttivo, delle spese giornaliere di vitto, ricovero, vestiti e cura. E parimenti si dovrà tener conto dei benefici che godono coloro che nulla producono e pur beneficiano del supertrattamento per la operosità degli altri. Nella applicazione di questo concetto non sia mai trascurata la giusta misura e non si pensi neppure alle tiranniche concezioni di coloro che rifiutano ogni e qualunque compenso per il fatto che considerano il lavoro come uno dei numerosi mezzi di cura dell’ alienato, che sono posti a disposizione del medico.
Il regolamento alla legge francese contempla la necessità di dare al lavoratore un aumento di vitto e la mercede. Perciò all’alienato deve essere assegnata la mercede sia pure essa modestissima anche perché per effetto della remunerazione del lavoro egli diventa una capacità pensante e libera di disporre del frutto dell’opera. Con il lavoro, il guadagno e la possibilità di disporre di esso, l’alienato viene a creare nell’asilo, sotto la disciplina e la cura, un nuovo centro di irradiazione dell’attività psichica di cui dispone; elevando così la monotonia dell’asilo alla dignità di un sistema in tutto simile a quello che si svolge nella vita ordinaria fra i non minorati.
Basterebbe questa sola conquista per diventare fautori del lavoro.
Qualche alienista propenso alla remunerazione si è domandato se questa dovrà essere data in generi di prima necessità o in danaro.
Rifiuto la prima forma di compenso. Poiché il ricoverato deve avere nell’asilo tutto quello che è necessario al suo bilancio nutritivo, l’aumento di vittuaria che gli si dà quando lavora è una cosa doverosa, non deve intendersi come una mercede, ma deve costituire parte integrante della alimentazione perchè non rappresenta che un compenso allo sforzo fisiologico da esso compiuto.
Nel bilancio delle amministrazioni sul capitolo alimentazioni, deve figurare la maggior spesa necessaria per sopperire al maggior numero di calorie che si devono dare a chi lavora. Diversamente l’alimentazione diventerebbe insufficiente. È chiaro quindi che, oltre a questo premio bisogna corrispondere una piccola mercede che può, per coloro che sanno economizzare, costituire una piccola scorta per quando lasciano l’istituto.
Dovrà questa essere data in danaro, o con monete gettoni aventi corso nell’istituto?
Per l’uso della moneta corrente, per la verità, io non ho mai avuto inconvenienti. Molti malati provvedono personalmente a soddisfare ai loro desideri; certo il denaro viene loro dato a piccole dosi. Quasi tutti i ricoverati hanno un deposito; si stabilisce un vero conto corrente attivo e passivo; due volte la settimana si fa un prelevamento su indicazione sanitaria per fare la cosidetta spesa. Per ragioni di regolarità, di controllo contabile – e questo è il fastidio – una suora è destinata a questo penoso ufficio di carico e scarico che domanda un lavoro non indifferente specialmente nei manicomi molto popolati.
Ottimissimo – e sono tentato a metterlo in esecuzione – (già in vigore in qualche asilo della Svizzera) è l’uso del gettone che ha valore solo nell’interno dell’istituto. Questo sistema mette un freno ai malati che godono molta libertà, evita che qualche bevitore possa fare delle capatine nelle osterie dove il compiacente venditore non si perita, purtroppo, quantunque lo conosca alienato, a somministrargli del vino.
Il sistema del gettone mi rende solo perplesso per il fatto di dover fare funzionare nell’istituto un negozio fornito di articoli troppo vari e numerosi dove i malati possano fare gli acquisti e perché troppe volte rende necessario il cambio del gettone in danaro corrente per tutti coloro che vanno al caffè, al teatro, al cinematografo, fuori dell’istituto. D’altra parte consente la possibilità di economie delle quali può valersi il malato al momento dell’uscita.
I bilanci dei manicomi provvedono in modo vario alla remunerazione. Quando si imposta un capitolo per soli dolciumi, tabacco,divertimenti; quando una cifra in danaro da corrispondersi; quando si stabilisce addirittura una contabilità aperta del lavoro, e la ricompensa da darsi all’alienato è proporzionata. Quest’ultimo metodo, merita, a mio giudizio, di essere tenuto in seria considerazione. Nel nostro istituto sono assegnate al bilancio le voci per aumento di vittuaria, per compensi in tabacco, dolci, divertimenti, per compensi in danaro. È sempre il medico che regola la partita. Comunica all’amministrazione le necessità e pel compenso in danaro, ogni mese, fa lo specchio della mercede da assegnarsi ai singoli, mercede che varia in rapporto al lavoro al quale il ricoverato è adibito.
Abbiamo visto che oramai è unanime il coro delle voci osannanti alla terapia della occupazione. Se il lavoro è per il sano una inesorabile legge di natura, un bisogno prepotente ed inestinguibile, per l’alienato è ancora di più; è il mezzo per curare la sua malattia.
VERGA scrive: «quanti studi, quanti tentativi non si fecero per rendere meno rare, meno incomplete, meno instabili le guarigioni dei mentecatti!»
«Quanti rimedi, quanti metodi si sono provati specialmente in questo secolo! Camera nera, sedia rotatoria, ustioni, doccia, narcotici, ferruginosi, chinacei, premi, castighi, sorprese, ragionamenti… ebbene! sapete voi ciò che fu trovato di meno incerto? il lavoro!»
L’alienato può essere adibito in ogni e qualunque genere di lavoro, non sarebbe del resto conveniente adottare un solo genere di occupazione. Il ricoverato deve trovare nell’asilo tutte le condizioni per continuare, a preferenza, il suo mestiere. Agli operai alienati provenienti dai centri cittadini, a tempo opportuno, sarà assai vantaggioso far riprendere le antiche abitudini perché si ridesterà così il sentimento della loro personalità anche sentendo di essere ancora utili a sé ed agli altri. Ma è al lavoro campestre che bisognerà assolutamente dare la preferenza e una vastissima applicazione. Esso ha avuto il crisma dei più grandi alienisti di ogni nazione, anzi non pochi «con evidente esagerazione però» affermarono che esso rappresenta il solo trattamento delle malattie mentali. Una cosa però è per me, certa : che un manicomio senza terreno colturale è un non senso. Un asilo di tal genere non rappresenterà che una fabbrica a getto continuo di cronici, sarà il baratro del malato di mente. La curva demenziale anziché in anni, sarà percorsa, cateris paribus, rapidamente; la mortalità sarà in aumento per un più rapido e facile decadimento fisico di chi è destinato ad intristire nei cortili e nelle sale dei padiglioni; si eleverà la percentuale dei sudici, dei malpropri, dei laceratori. La rieducazione del demente sarà cosa difficile se non impossibile; il decadimento psichico di un agglomeramento umano inerte assumerà un aspetto penoso, quasi bestiale.
Preferenza quindi assoluta all’agricoltura, sia perchè la classe agricola è la più numerosa, sia perché questo genere di lavoro è meravigliosamente atto a distrarre la mente e a rinvigorire il corpo, sia perché, essendo di natura più facile ed attraente, molti individui, anche non contadini, ci possono partecipare, non escluse le donne.
Per l’Italia poi è veramente una necessità perché è un paese eminentemente agricolo ed anzi la sua sola ricchezza sono le fertili campagne e i colli verdeggianti di olivi, di gelsi, di aranci; la maggior parte quindi, e potremo dire tutta la popolazione della campagna, è, presso di noi, dedita all’agricoltura, alla pastorizia, alla boschicoltura ed anche il più gran numero degli alienati ricoverati negli asili è costituito dai coloni, contadini proletari e braccianti delle campagne.
Per l’applicazione del lavoro agricolo due concezioni sono in campo; nei numerosi congressi tenuti in Europa, in questi ultimi cento anni, la discussione è sempre stata vivissima. Si sostiene:
- Il manicomio deve essere circondato da terreno colturale;
- Il terreno deve essere staccato dal manicomio e costituire delle colonie agricole.
Esaminiamo dapprima la seconda tesi la quale, purtroppo, è stata confusa con la questione relativa alla istituzione di stabilimenti speciali per alienati cronici.
Invero c’è stato un tempo in cui si domandò la divisione netta fra manicomi per acuti curabili e manicomi per cronici incurabili.
A parte certe deduzioni di indole scientifica, appare manifesto che seguendo questo concetto si giungerebbe ad una soluzione unilaterale della complessa questione. I due tipi di manicomio avrebbero certo funzionato egualmente sotto l’impero di una perfetta tecnica, ed allora sotto questo punto di vista sarebbero stati poco dissimili; la sola differenza sarebbe consistita nella merce umana destinata a popolarli. Le amministrazioni si sarebbero trovate con due istituti sulle spalle, con duplici servizi, ed ammesso che fosse minore il costo dell’alienato cronico, la economia sarebbe stata assorbita dal maggior dispendio del malato acuto. Quindi economicamente la questione non regge.
E d’altra parte istituire un ricovero unicamente per cronici vorrebbe dire di confessare, troppo brutalmente e recisamente, la non curabilità o con maggior sincerità che il curare tanti infelici non è cosa necessaria.
Che se l’asserto rispondesse a verità il provvedimento sarebbe ingiusto e doloroso per i malati ed offensivo pei famigliari. E non si dimentichi che dei maestri di psichiatria sostengono che i cronici non dovrebbero neppure essere divisi dagli acuti, che anzi la fusione di questi due elementi è indispensabile tanto per i malati che per i medici. Non è assolutamente possibile pensare che ci siano dei malati dei quali si possa disinteressarsi dal punto di vista del trattamento a parte anche il fatto, che non ammette dubbi, acquisito alla scienza, che si avverano, non infrequentemente, delle guarigioni tardive o con difetto.
Quindi più opportunamente e scientificamente oggi si deve parlare unicamente di colonie agricole, cioè di sezioni in stretto rapporto col manicomio, dove sono ospitati a preferenza i cronici i quali vengono adibiti ai lavori campestri. A preferenza i cronici come quelli che devono favorire lo sfollamento dell’asilo e devono nel lavoro se non integrare la loro psiche, arrestarla dal fallimento o rieducare le poche energie rimaste, salvandosi dalla brutalità. In queste sezioni però, oltre i cronici, vi possono e vi debbono andare tutti i convalescenti che stanno per ritornare alla vita, tutti coloro pei quali la guarigione si protrae, tutti coloro nei quali, a giudizio del medico, c’è da ritenere che col soggiorno all’aperto, riattivando le energie, nella grande aria sotto il sole, con un miglioramento fisico rapido, si debba raggiungere un miglioramento psichico. La colonia quindi non deve più essere intesa la sentina dei cronici, ma bensì una sezione destinata preferibilmente ai cronici.
Ma con l’istituzione di queste colonie è chiaro che non si deve assolutamente ed unicamente intendere di risolvere un problema economico: questo è doveroso non debba essere trascurato, ma in prima linea deve stare sempre il bene del malato e se la colonia fosse passiva dovrà egualmente funzionare per rispondere alla sua finalità prima, che è la curativa. Ed ora soffermiamoci sulla dibattuta questione se queste colonie devono far parte dell’area circunmanicomiale o se devono funzionare distaccate.
Il valore delle argomentazioni e degli uni e degli altri, anche in questo campo, è subordinato a questioni di ambiente, alla ubicazione del manicomio ed a diversità di concetti tecnici.
È chiaro però che esigere il funzionamento e l’esistenza di colonie rette con vero criterio di libertà e di operosità, nei sobborghi di una grande città, è un non senso, specialmente se esse faranno parte del terreno circunmanicomiale. Tali colonie sarebbero inopportune, l’occupazione del malato sarebbe relativa e la cronicità farebbe immense vittime.
Riferiamoci perciò ad un manicomio ben piazzato, lontano dai grossi centri, ricco di molti e molti ettari di terreno. Se questo farà parte dell’area manicomiale, evidentemente noi avremo, secondo il concetto moderno, un centro che costituirà il vero e proprio luogo di ricovero e cura degli alienati acuti, dei malati fisicamente, un altro centro o meglio delle sezioni prossimiori o largamente disseminate per i cronici, per i convalescenti, per coloro nei quali è ritardata la guarigione. Nel caso in cui i padiglioni destinati alle colonie sieno molto vicini alla centrale e facciano quasi corpo con essa, la visita medica sarà facilitata, ma si andrà incontro al grande disagio dello spostamento degli alienati per mandarli al lavoro, specialmente nei posti più distanti.
Che se le colonie si collocheranno nelle posizioni distanti ciò avverrà a tutto scapito della visita medica, che dovrebbe essere bi-quotidiana, e grande sarebbe il disagio del sanitario. Si ricordi che SELON TAGUET afferma che tutto il segreto di un buon funzionamento in linea curativa di un manicomio sta nelle due parole: «visita medica».
Quindi queste due forme di utilizzazione del terreno circunmanicomiale, quando è vasto, sono condannabili ed a parer mio sono consigliabili solo se si ricorra ad un diverso temperamento, istituendo per le colonie disseminate un servizio medico speciale.
Perciò, per me, la soluzione migliore ed incontrovertibilmente preferibile, è quella della sezione centrale per i nuovi ammessi, per gli infermi e che costituisca un tutto omogeneo, raccolto e colonie distaccate, viventi, per quanto possibile, vita autonoma, dipendenti dalla centrale, ma rette e condotte da personale sanitario esclusivamente ad esse destinato. Solo così il servizio medico non ne soffrirà ed il malato verrà a trovarsi nel centro della sua operosità. Colonie funzionanti dal lato psichiatrico coi criteri già esposti e che non devono cosi essere una raccolta di cronici, di finiti, ma anche di convalescenti, di acuti, di deboli, di rieducabili in cerca di salute e di vigoria. Colonie funzionanti quanto più è possibile di vita autonoma
e lasciate largamente alla iniziativa, di qualunque genere, del personale sanitario preposto. Evidentemente la sede del lavoro industriale propriamente detto non può trovarsi allora che alla centrale.
Nel nostro istituto è in atto la forma mista, infatti:
- Il nucleo centrale del manicomio è piazzato in mezzo a piccolissime colonie dell’estensione di due, tre ettari con fabbricati costruiti a distanza minima in guisa che il servizio medico si compie regolarmente e con facilità;
- Le grandi colonie, da 20 e 100 ettari per ognuna sono distaccate di 6, I0, 12 km. e nel punto più centrale di esse e in prossimità della più numerosa, è stata costruita una villa per il soggiorno permanente dei sanitari. Essa è collegata con telefoni a tutte le sezioni ed alla centrale. Il personale sanitario è fornito di mezzi di trasporto.
In ogni colonia esiste una piccola infermeria per i disturbi lievi, passeggeri; dopo la terza giornata di malattia, il paziente viene trasportato all’infermeria centrale. Parimenti in caso di stati di agitazione che si prolunghino, di recidive, si fa il trasferimento alla centrale. A queste sezioni distaccate si inviano solo i generi di prima necessità e che la terra non produce. Esse provvedono al servizio di cucina ed in gran parte di lavanderia; ogni mattina viene inviato alla centrale un rapporto dettagliato sull’andamento e per il fabbisogno. Non posso che lodarmi di queste colonie.
Concludendo, la lunga esperienza – e noi l’abbiamo fatta su parecchie centinaia di ettari di terreno – consiglia la colonia distaccata con servizio medico permanente e dove il malato vive isolato, in un centro di grande tranquillità dove è un libero, nel senso più classico della parola, e dove vive nelle migliori condizioni di igiene.
Non c’è alcuna ragione per escludere le donne dal lavoro agricolo; esse si impiegano con profitto nella vendemmia, nella macerazione della canape e del lino, nella sfogliatura del granturco, nel taglio delle erbe; nei campi devono essere educate all’allevamento dei polli, del fagiano, delle anitre, delle oche (animale fra tutti redditizio) dei conigli e dei maiali.
Ottimissime le donne nell’allevamento del baco da seta. Ho oggi in preparazione una colonia agricola che sarà esclusivamente condotta dalle donne; mi riprometto anche per questa un funzionamento perfetto.
L’esperienza poi ha dimostrato che gli uomini possono lavorare assieme alle donne (leggo che Reggio Emilia lo aveva tentato fino dal 1875); sotto la sorveglianza dell’ inserviente è difficile che avvengano da questi contatti disordini, anzi questa libertà viene utilizzata a favore della moralità stessa e della disciplina. Con tutto ciò non intendiamo arrivare all’odierno concetto americano che una gravidanza in un istituto non assurge a maggior gravità che nel mondo dei liberi.
Qualche puritano non vorrebbe la promiscuità fra infermieri e malati di differente sesso; ma la guerra al riguardo ci ha insegnato che le femmine hanno corrisposto benissimo nelle sezioni maschili. Io non ho avuto che da lodarmene. Oggi conservo le donne solo nelle colonie dove esercitano con efficacia grandissima e lodevolissima la vera e propria funzione della massaia; hanno tutto in custodia dal guardaroba alla vittuaria, alla cucina che conducono e sorvegliano.
Nessun alienista fa delle riserve circa il lavoro di prateria, di terreno, di orto, di giardino, di allevamento e cultura di bestiame. Ma qualcuno vuole la coltivazione del terreno sia fatta solo con la zappa e con la vanga, negando ai malati l’uso di strumenti pericolosi.
Non sono di questa opinione se non viene meno l’accortezza del medico nell’affidare gli strumenti più pericolosi al malato, se c’è una sorveglianza rigorosa fatta da infermieri scelti, amorosi, ben educati, capaci di comprendere un mutamento nel contegno di un lavoratore. Io ho una grande quantità di malati, ed alcuni liberissimi, armati di falci, di falcini, di accette, di roncole, di rastrelli, di coltelli ed in trenta anni non ho avuto il più piccolo incidente. I ricoverati guidano l’aratro, vanno con le locomobili, lavorano con le trebbiatrici, adoperano le falciatrici, affido ad essi, senza l’infermiere, carri agricoli, guidano cosi i bovi e pensano per loro conto al carico e scarico delle merci. Ho dei criminali che esercitano questa ultima funzione in modo impeccabile.
Su questa categoria di malati avrò occasione di riferire.
Oggi ricordo che è stata creata nell’istituto una sezione di manicomio giudiziario capace di 600 letti. Funziona da sei mesi e per ora con circa 300 ricoverati.
Nella sezione impera assolutamente la tecnica dei nostri manicomi per malati comuni. Anche per questi ricoverati la tecnica fondamentale è quella del lavoro.
Diversi internati sono già occupati nelle cucine e negli opifici della centrale; per la maggioranza nelle sezioni ho organizzato dei laboratori di falegnami, calzolai, sarti, fabbri, ecc.
Un fabbricato rispondente a tutte le esigenze tecniche modernissime per questa categoria di malati è in costruzione.
Per norma generale il lavoro non sarà mai imposto; solo il medico in qualche caso potrà, per vincere ‘inattività che spesso si accompagna alla malattia mentale, spingere il ricoverato al lavoro; egli solo avrà l’autorità di farlo, specialmente quando crederà di salvare il dinamismo della capacità al lavoro. Questo sarà sempre moderato, non porterà alla stanchezza e tanto meno all’esaurimento e non si dimenticherà mai che ci sono degli alienati lavoratori di una assiduità straordinaria, meravigliosa, che devono essere sempre frenati.
L’orario di lavoro è anche di spettanza medica. È subordinato alle stagioni ed al genere di occupazione. Cosi d’inverno, nei campi il lavoro è limitato a qualche ora del giorno, ma nell’estate domanda grande assiduità. Sarebbe, ad es. ridicolo e dannoso mandare al taglio delle messi i malati nelle ore canicolari. In questo caso l’attività comincia nelle primissime ore del mattino per arrestarsi verso le Io e per riprendere alle 16 fino a sera. Molto spesso le ore sono ridotte; è inutile tenersi strettamente alle otto ore.
La legge francese parla di otto ore all’inverno e nove all’estate Ma in realtà nei manicomi le ore della giornata sono due come otto a seconda della volontà del malato. Durante il lavoro devono sempre essere intercalati periodi di riposo.
Nel manicomio si può sottoporre il malato a qualunque lavoro industriale. Per me non ci sono limitazioni; possono trovare posto: il fabbro, il meccanico, l’elettricista, il falegname, lo stagnino, il trombaio, il lavoratore di cemento, il mugnaio, il pastaio, il fornaio, il muratore, ecc. ecc.; perfino il servizio di macellazione nell’istituto è affidato a due ex macellai che sono abilissimi.
Il lavoro industriale evidentemente è regolato con gli stessi criteri di quello agricolo. È esso anche utilissimo per il profitto che può averne il malato operaio, incapace dei lavori della terra; nella occupazione si ridestano le sue capacità individuali.
Si lavori nei campi, si lavori nelle officine, dovunque deve regnare la massima igiene. Sarà rispettato il coefficiente respiratorio non mancheranno i bagni, sarà curata scrupolosamente la pulizia delle mani dopo il lavoro, si adopereranno vestimenti di fatica; per i ricoverati che vanno ai campi ed ai servizi esterni si forniranno degli impermeabili; sono ottimi anche quelli della marina o quelli di semplice tela cerata, e perfino corrispondono bene i cappotti militari.
Le condizioni economiche, di agiatezza del ricoverato, non devono allontanarlo dal beneficio della vita attiva e fattiva nell’asilo. La lettura, lo studio, sono consigliabili a dosi omeopatiche per evitare la stanchezza psichica; è meglio, quando il malato non ne sia riluttante avviarlo a quella qualunque occupazione che più gli aggrada, per elezione, sia pure nei campi che daranno a lui ciò che la ricchezza e la neghittosità gli negheranno. In materia di cura non ci devono essere differenze fra poveri e ricchi.
Non ritengo conveniente l’impiego di ricoverati negli uffici della direzione sanitaria; ci sono troppe carte, troppi documenti che non è bene siano visti dal malato o comunque diffusi e domandano il segreto.
Si adoperano invece con grande profitto negli uffici tecnici; ho avuto infatti ottimi ingegneri, copiatori ed estensori precisi di progetti.
Sono ottimi nei magazzini e per tenere i registri di contabilità.
Ci sono degli istituti che addossano a qualche ricoverato delle funzioni di infermiere nelle sezioni; in qualche nazione ciò si fa per disposizioni regolamentari. L’esperimento non ha dato a me inconvenienti ma non sono un fautore del sistema perché non tutti i malati fanno buon viso all’autorità di un altro minorato. Credo invece convenientissimo l’uso di essi in aiuto dell’infermiere e per somministrare sotto la sua guida cibi e bevande, per curare la pulizia, per aiutare i malati che stanno a letto.
Quali ammalati di mente devono essere adibiti al lavoro? Siamo brevi, evitiamo i formalismi di una tecnica ristretta. Tutti i ricoverati affetti da gravi lesioni organiche, somatiche, quelli molto agitati, gli stati di gravissima confusione mentale, di ansia con tendenza al suicidio, quelli molto deperiti fisicamente non saranno evidentemente mandati al lavoro. Ma per tutte le altre forme non c’è limitazione giustificata e penso con WARLUER che con prudenza si possano mandare al lavoro i maniaci acuti.
Non bisogna fare delle eccessive esclusioni e conviene pensare che la norma è dettata dal caso singolo e che bisogna persuadersi che c’è un fiuto speciale cui affidarsi nella scelta del malato.
Le psicosi acute, proprio appena si inizia un miglioramento o la convalescenza, devono essere incanalate verso una occupazione; il momento favorevole per inviare questi malati al lavoro è dovuto alla spiccata sensibilità clinica del sanitario. Nel manicomio di Salzburg il direttore manda al lavoro i malati dopo pochi giorni dalla ammissione nella percentuale del 70%.
L’alienista deve avere delle larghe vedute e senza usare imprudenze deve osare perché è dimostrato che le attitudini al lavoro si organizzano nell’uomo in guisa che, anche con una profonda compromissione di quelle facoltà mentali che ne permisero l’acquisizione, le capacità lavorative rimangono spesso integre.
I dementi sono i grandi lavoratori, anche in senso utilitario, del manicomio; per il lavoro fisico dormono bene, hanno buon appetito, la nutrizione è buona, i ricambi sono ottimi, il cuore funziona bene e come conseguenza abbiamo in essi il miglioramento del funzionamento degli elementi nervosi.
Molto spesso dei dementi hanno bisogno di rieducazione; è questo un dovere; si tratta di compiere un lavoro paziente ma sempre ricco di soddisfazioni; il lavoro manuale o psichico può creare nuove sensazioni, nuove idee e ridestare alla vita le cellule inattive ed educare quelle che ancora sono capaci di vita e di lavoro.
Difficilmente il demente perde i nuovi acquisti. C’è qualche demente che ha delle acquisizioni unilaterali, limitate; ma anche per questo preziose. Ne ricordo uno che diventò maestro nel fare la cernita, secondo grossezza, della ghiaia e nel vagliare la sabbia; egli compie l’operazione da anni con la regolarità del pendolo; se a lui non si apre la porta del padiglione, appena alzato, per il consueto lavoro, e qualunque sia il tempo, si eccita.
Anche i criminali sono proficuamente adoperati ed offrono un coefficiente di lavoro apprezzabile e ciò si comprende se siamo di fronte a della gente generalmente lucida nella quale, quasi in modo esclusivo, fa difetto il senso morale. La disciplina del lavoro (con la lontananza dall’alcool che rappresenta per essi, di solito intolleranti, il dannoso terribile veleno) li fa camminare correttamente.
Ricordo però che il medico deve avere sempre con loro dei contatti, dominarli, indirizzarli; deve anche conquistarli e questo purtroppo, va a scapito alle volte della disciplina e della eguaglianza che deve essere sovrana in un istituto. A loro bisogna fare delle concessioni; se un malato riceve un sigaro, a loro bisogna darne due. Anche il loro pranzo, la loro cena, sono più abbondanti; figurano sempre l’aggiunta di uova, di bistecche. Sarà un atto di debolezza e qualcuno potrà condannare questa tecnica, ma essa permette a noi di servirci in modo lodevolissimo dei criminali che sono tutti liberi affidando loro anche mansioni delicate. Per otto anni nella mia casa, a contatto con i miei bambini, ho avuto un criminale e non passionale.
Quando nei grandi istituti funzionano delle perfette officine di ogni genere, bene attrezzate, dove la potenzialità produttiva è superiore ai bisogni dell’istituto è assolutamente necessario, per un saggio concetto di amministrazione e per la continuazione del lavoro, correre ai ripari. Fino ad oggi, poiché siamo in continua evoluzione, non ho sentito bisogno di provvedimenti. Ho lavorato per gli altri solo per ragioni di opportunità e per un certo senso di orgoglio, di intima soddisfazione. Ho fatto cosi, offrendo il nostro tipo, tutte le serrature necessarie al manicomio di Mantova, come ho prodotto gli elegantissimi ferri battuti che ornano la farmacia degli ospedali di Pisa.
Ma, avvenuto l’assestamento, io penso che è dovere procurarsi del lavoro per non arrestare l’attività del malato che cerca proprio nel lavoro la cura. In questo caso, però, è evidente che l’utile che dovrà sentirne l’amministrazione è molto relativo; essa sarà rimborsata del costo delle materie prime, del consumo degli strumenti ecc. Il ricoverato in questo caso avrà una remunerazione più larga con la quale potrà provvedere, come previdenza, ai suoi bisogni se lascierà il manicomio. Si arriva cosi ad una vera industrializzazione dell’istituto che io credo fattibilissima.
Ho detto le ragioni per cui non la ho applicata su vasta scala, prima dovevo pensare a casa nostra, ma, ad es., il molino da anni funziona anche per il pubblico, tre palmenti girano continuamente, il pastificio produce per i privati, la fornace potrebbe centuplicare le rendite. La industrializzazione è il complemento più vero e maggiore di una operosità; è la dimostrazione classica che il piccolo mondo folle che si è creato è veramente un organismo pulsante e vivo.
Nel mio istituto se non si arrivasse a questo concetto bisognerebbe chiudere i battenti delle officine per mesi e mesi se si dovesse pensare alle sole manutenzioni. La fornace che getta ogni anno oltre mezzo milione di mattoni di ogni genere, dovrebbe essere spenta.
Le obiezioni contrarie a questo concetto sono puerili e non meritano considerazione.
Gli alienati nelle officine fra le macchine, nelle impalcature delle costruzioni, su i tetti, fra le macchine agricole, nei camions, nei molini ecc. corrono gli stessi pericoli dei sani e la legge ha per questi provveduto assicurandoli contro gli infortuni sul lavoro. La necessità di un simile provvedimento per i pazzi è stata sollevata da diverse nazioni ed in Italia, in modo particolare, dal nostro PIERACCINI, che ha pubblicato al riguardo ottimi lavori. In linea psichiatrica la questione ha già avuto la sua soluzione; non è perciò più il caso di spendere molte parole; è invece il momento di domandare ed esigere; una buona e rivendicatrice legge deve distruggere il tanto stolido preconcetto che il malato di mente possa più facil-
mente infortunarsi.
PIERACCINI con dati statistici ha dimostrato «che in realtà l’infortunio è sorprendentemente raro fra i ricoverati applicati al lavoro nei manicomi». E poiché così è, la legge deve riparare a vantaggio di infelici che hanno bene il diritto, come gli altri, di essere protetti nell’imprevisto.
Riteniamo infine che la terapia della occupazione debba avere una sanzione legale, ma sarà una sanzione inspirata a sani criteri tecnici, a larghezza di vedute, a libertà di azione, sopprimendo ogni aspetto di una uniformità micidiale.
Se norme di legge si dovranno dettare per disciplinare questa forma di tecnica e assistenza manicomiale, dovranno essere ispirate ad un grande senso di larghezza lasciando libera, autonoma ogni iniziativa individuale, ogni personale indirizzo; solo così la terapia della occupazione sarà certo applicata su larga scala anche perché la legge provvederà a salvaguardare il sanitario dall’imprevedibile, dall’impensabile, che può avverarsi nelle officine del grande mondo dei sani come in quelle del piccolo mondo dei malati.
Nella Svizzera l’autonomia è completa, non ci sono prescrizioni ufficiali, regolamenti che limitano l’iniziativa individuale.
Noi potremo accontentarci di restare al punto in cui siamo. Penso però — solo intese come una spinta a fare di più ed a dare tranquillità a tante anime dirigenti — che delle norme regolamentari sagge, con i criteri indicati sarebbero giovevoli.
Trentatrè anni or sono, quando licenziavo il Trattato di terapia delle malattie mentali scrivevo: «La parola di oggi deve suonare lavoro, il quale è, secondo EDWARD O’NEILL la chiave di volta del trattamento moderno della follia». Ora, con la sicurezza che a me deriva dall’esperimento, aggiungo: lavoro vero, in grande stile, lavoro che sia utile anzitutto al folle per ricuperare la sua salute mentale, lavoro che sia a lui utile in linea economica, e lavoro che permetta in qualche modo di diminuire il gravame al quale vanno incontro le amministrazioni. Non è questo il momento di dimostrazioni, né voglio allontanarmi dal tema, ma, solo perché bisogna quando si è affermato un principio anche documentarlo, mi permetto dare alcune cifre che dimostrano che cosa significa lavorare veramente e per sanzionare quale rendimento si può trarre dall’alienato.
Dal 1928 ad oggi, ad es., l’officina fabbri, a parte le quotidiane manutenzioni oltre quelle dei carri, degli autoveicoli, delle macchine agricole, delle ferrature bovi ecc. ecc., ha prodotto 1.100 letti, ne ha 1.000 in costruzione, ed ha provveduto al rifacimento completo di 1.200; ha dato le serrature e tutte le ferrature per oltre 1.500 infissi, per un valore valutato in perizia di L. 400.000.
Nella officina falegnami si sono costruite circa 1.500 fra porte e finestre per un costo di lire 500.000, si fecero 150 tavoli, 300 panche; 100 armadi, carri agricoli, carrette, barroccini ecc. Nella fornace si producono ogni anno circa mezzo milione di mattoni di ogni tipo. Il molino solo per nostro uso, oggi lavora 12.000 q.li di grano ed il pastificio produce 2.000 q.li di pasta. Nel laboratorio mattonelle in cemento per pavimentazione si producono oltre 300.000 pezzi.
Per i fabbricati fatti durante questo periodo furono scavati 30.000 metri cubi di sasso, 9.000 metri cubi di sabbia ed il lavoro di sterro per la preparazione del terreno dove costruire detti fabbricati ha domandato uno spostamento con carri ed una décauville di 35.000 metri cubi di terra. Ed abbiamo precisamente costruito un padiglione per 200 ricoverati, un padiglione per uso colonia per altri 200, un piccolo padiglione di 80 letti, due infermeria di 120 letti, la villa per il medico delle colonie, una stalla per 24 bovini con annessi, I4 appartamenti per infermieri, la casa per il direttore ed il valore di questi fabbricati è stato valutato per il fisco, oltre lire 500.000. Sono state costruite strade per le colonie per circa 3 km.
valutate in perizia lire 75.000 e si è dovuto nel farle, rimuovere 4.000 metri cubi di terra ed adoperare 3.000 metri cubi di sasso per la massicciata.
Altre strade nell’interno dell’istituto sono in costruzione per uno sviluppo di circa 3 km. con grande movimento di terra ed impiego di materiale.
Abbiamo fatto un acquedotto, opera magnifica, e per il quale è stata necessaria una galleria di metri 52; altro acquedotto è quasi ultimato e si stanno eseguendo i lavori per innalzamento acqua per una spesa prevista di lire 190.000; si sta gettando una linea elettrica di 7 km. per portare l’energia ad alcune colonie che ne mancano. La calzoleria dà in media ogni anno 4.000 paia di scarpe nuove ed oltre 5.000 grandi riparazioni; tralascio dal ricordare tutti i servizi di trasporto agli scali ferroviari, di lavanderia, guardaroba, panetteria, ecc. ecc.
Nei pollai le sole oche hanno fornito 25.000 lire di carne. Fecondo è stato il lavoro dei campi dai quali si ricavano, ogni anno, oltre 1.000 q.li di grano e 2.000 di fieno e dagli orti 20.000 lire di solo pomidoro.
Mi fermo, non voglio abusare in citazioni, solo mi si perdoni se ricordo l’apprezzamento che fa sui manicomi d’Italia un collega, ma mi spingono l’amore del vero e della difesa del nostro paese.
Scrive RUATA: «In tutti i manicomi tedeschi, inglesi, austriaci, svizzeri, che ho visitato, i malati dispongono di aree vastissime sia per colonie agricole, sia per i giardini annessi a ciascun padiglione, aree di cui in Italia non c’è la minima approssimazione.
Non posso, non ne ho infatti il diritto, muovere a lui rimprovero di non avere in tanta severità di educazione pratica, posto il piede su di un lembo della sua terra italica, là ove gli Etruschi insegnarono al mondo intero, perché egli avrebbe potuto ammirare il lavoro assiduo, ordinato, regolare, di qualche migliaio di pazzi sopra circa 500 ettari di terreno.
E rilevo che fra i paesi stranieri, solo la Francia ha dato grande sviluppo alle colonie agricole; una statistica che ho sotto gli occhi per 25 stabilimenti di quel paese segna che:
2 hanno colonie da 1 a 5 ettari
7 hanno colonie da 10 a 20 ettari
9 hanno colonie da 30 a 50 ettari
5 hanno colonie da 60 a 80 ettari
2 hanno colonie da 110 a 120 ettari
Se così è ci sentiamo orgogliosi di affermare che per estensione di terreno coloniale non ci sentiamo secondi neppure alla Francia perché, ripeto, da anni dissodiamo circa 500 ettari di terreno e ci sentiamo orgogliosi di possedere, noi italiani, qualche cosa di più di quello che RUATA non ha veduto da noi neppure minimamente approssimarsi, ma ancora ci sentiamo orgogliosi di potere affermare che per la nostra operosità bastiamo, si può dire, completamente a noi stessi nelle molteplici necessità.
CONCLUSIONI
È assiomatico:
che la terapia dell’occupazione è la pietra angolare di ogni istituto destinato all’assistenza di alienati ed all’igiene mentale;
che il migliore indice di un ospedale psichiatrico è dato dallo sviluppo del lavoro manuale che vi sa imprimere il personale sanitario.
L’ubicazione di uno spedale psichiatrico a porte aperte, centro di operosità, deve essere seriamente e con criteri scientifici ponderata; essa rappresenta la condizione sine qua non per la realizzazione delle alte finalità che l’alienista di oggi si propone.
Negli ospedali psichiatrici ubicati in prossimità di centri molto popolati è ozioso parlare di porte veramente aperte; in essi la occupazione subisce necessariamente, incontrovertibilmente, una forzata limitazione; in essi esiste indubbia una restrizione della libertà individuale, rapido è il decadimento con aumento sensibile del vero caput mortuum di ogni asilo.
Solo negli ospedali psichiatrici, ubicati lontano dalle grandi città, nella quiete solenne dei campi è possibile abolire ogni muro di cinta, ogni pastoia ed istituire occupazioni feconde, serie, metodiche, a scopo di cura, rette da scientifici, razionali non più discutibili dogmi tecnico-sanitari e così creare un centro di nuove peculiari condizioni di vita particolarmente adatte al folle per la sua cura, per la sua rieducazione, per la sua protezione.
L’odierno istituto psichiatrico è un centro che dispone di sezioni tecnicamente perfette provviste di ogni ausilio per la buona terapia psichica e per il trattamento di ogni malattia fisica.
Ma oltre a ciò è un piccolo mondo, in miniatura, proporzionato alla popolazione da ospitare e nel quale la vita pulsa nella sua assoluta integrità; mondo manicomiale che sta a rappresentare la continuazione del vivere normale sotto una disciplina terapeutica che non ha del carcerario per la libertà imperante, per la dolcezza del trattamento, per la continuità dei rapporti con l’esteriore e dove le deviazioni psichiche, per la loro correzione, sono incanalate lungo i molteplici rivoli dell’operosità feconda, equilibratrice che, il più spesso, rappresenta una continuità di attitudini organizzate.
Ogni ospedale psichiatrico diversamente inteso è una condannabile accozzaglia di carne umana.
Non si parli di operosità negli ospedali psichiatrici se il personale non sia con razionalità perfettamente educato allo scopo. L’infermiere non sia un semplice sorvegliante, ma un esecutore, un consigliere, un avviatore. Ciò è necessario per la sicurezza, per il profitto da trarsi, per la estensione da darsi al lavoro, per la sua regolarità e per le finalità curative da raggiungere.
La terapia della occupazione del malato di mente è regolata da precisi criteri tecnico-sanitari.
La disciplina e la organizzazione della occupazione negli istituti psichiatrici sono di spettanza tassativamente medica.
Al medico la scelta dei malati, al medico la loro distribuzione dei lavori, al medico le attribuzioni del personale.
L’occupazione negli ospedali psichiatrici deve essere assolutamente ed unicamente intesa come un ausilio terapeutico.
Il lavoro dato dall’alienato non deve, neppure lontanamente, rivestire carattere speculativo.
La società provvede alle necessità dell’alienato in toto e per tutta la vita.
La dignità morale di esso viene elevata dal lavoro. Se nella disciplina e cura dell’asilo il pazzo diventa una capacità utile, la sua elevazione morale sarà maggiore se egli concorrerà a diminuire il sacrificio che la società per esso si è imposta.
Egli non sarà più per quanto involontario, un parassita; sublime elevazione.
Il vantaggio economico che si raggiunge per dato e fatto del lavoro, permette assai più largamente di quanto potrebbero consentire esigenze amministrative, un miglioramento in toto del benessere conviviale del malato (radio, cinematografo, fonografo, piano, scampagnate, feste danzanti, teatro, fumo, dolciumi). E questo un altro coefficiente di elevazione morale se si concorre a provvedere al di più con la propria operosità.
È doveroso somministrare al lavoratore una alimentazione più abbondante; essa rappresenta un compenso fisiologico allo sforzo in più fornito.
Il lavoro manuale, ma produttivo dell’alienato deve essere ricompensato per ovvie ragioni di elevazione morale. La misura del compenso è però relativa per insuperabili ragioni di indole economica ed è proporzionale a tutto ciò che si dà in più, sotto qualunque forma, a chi produce e non. Il compenso ancora deve sottostare ad altro concetto di relatività se, in ultima analisi, il costo per il mantenimento e la cura dell’alienato, anche per tutta la vita, sta rappresentare una mercede.
Al lavoro agricolo, non compresso e rinserrato in qualche ettaro di terreno, ma largamente esteso in vaste colonie, sia pure disseminate, quasi autonome, ma con servizio medico esclusivamente destinato ad esse, deve essere dato il più grande impulso.
Il lavoro nei campi è indubbiamente elettissimo elemento di cura, di benessere, di rendimento. È il no-restraint degli stati demenziali, dell’abbrutimento psichico, è l’ acceleratore del riordinamento mentale. La campestre deve essere l’occupazione di elezione sia perché la grande maggioranza dei frequentatori dei nostri asili è data da lavoratori della terra, sia perchè nei campi l’alienato trova le più favorevoli condizioni di ristabilimento fisico, sia perché il lavoro all’aperto è sempre da preferirsi a quello dell’officina anche tecnicamente ed igienicamente perfetta.
Ogni e qualunque genere di lavoro industriale può essere istituito nell’ospedale psichiatrico.
Il lavoro industriale è governato con gli stessi criteri di quello agricolo; rappresenta il più razionale e necessario avviamento alla operosità delle capacità individuali.
Il trinceramento teoretico, assiomatico, dietro la natura della malattia mentale, per l’avviamento del pazzo al lavoro, deve cadere; l’alienista, forte del suo criterio medico, deve essere di larghe vedute, e, senza imprudenze, osare perchè è dimostrato che le attitudini al lavoro si organizzano nell’uomo in guisa che, anche con una profonda compromissione di quelle facoltà mentali che ne permisero l’acquisizione, le capacità lavorative rimangono ben spesso integre.
I dementi sono dei preziosi lavoratori.
La rieducazione del demente è un dovere; il nichilismo psichico deve scomparire e tanto più se per effetto della rieducazione sia pure unilaterale, si vedono rivivere, ripresentarsi delle energie che non si sarebbero mai pensate.
Anche i malati acuti devono essere più presto che sia possibile avviati al lavoro.
Nella disciplina dell’asilo il criminale fornisce un coefficiente di lavoro veramente apprezzabile.
Questo suo rendimento però non va disgiunto da una diuturna azione morale curativa da parte dell’alienista.
Sempre senza la più piccola ombra di carattere speculativo si può tendere, negli ospedali psichiatrici, alla industrializzazione della produzione dei ricoverati. Il profitto della loro attività per conto di terzi, per tutto ciò insomma che esula dalle molteplici necessità manicomiali, deve essere quasi esclusivamente (materie prime, consumi esclusi) rivolto a loro vantaggio.
La lunghissima prova, la estensione data all’operosità in ogni e qualunque ramo di lavoro, autorizzano di affermare non solo la capacità lavorativa nell’alienato, ma anche la sua non maggiore vulnerabilità, rispetto al sano, per dato e fatto della sua malattia mentale.
E poiché indistruttibili dati statistici provano che anzi gli infortuni sul lavoro sono straordinariamente più rari fra gli alienati ospitalizzati che non fra i lavoranti liberi, è doveroso domandare che i malati adibiti ai lavori negli ospedali psichiatrici sieno assicurati contro gli infortuni sul lavoro. Una buona e rivendicatrice legge deve distruggere il tanto stolido preconcetto che il malato di mente possa più facilmente infortunarsi.
La terapia della occupazione sarà veramente efficace e verrà applicata su larga scala se non sarà compressa da ferree rigide, uniformi norme regolamentari.
Se leggi dovranno dettarsi per disciplinare questa forma di tecnica manicomiale, dovranno essere inspirate ad un grande senso di larghezza, lasciando libera, autonoma, ogni iniziativa individuale,
ogni personale virtuosità.
LUIGI SCABIA
Direttore dello spedale psichiatrico di Volterra