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Ricordi di una tirocinante (1978)

Ricordi di una tirocinante ©Anna Fazzari

Prossima alla laurea in Psicologia il docente dell’università di Roma, responsabile dei tirocini, propose ad un gruppo di laureandi una esperienza presso l’ospedale psichiatrico di Volterra.

Accettammo la proposta in cinque, 2 ragazzi e 3 ragazze, provenienti da varie regioni d’Italia (Calabria, Puglia, Sicilia, Abruzzo e Lazio).

Non sapevamo neppure dove fosse precisamente Volterra.

Io feci il biglietto del treno e dopo un lungo viaggio arrivai in un posto bellissimo che mi prese immediatamente.

Con le indicazioni della gente del luogo mi recai in ospedale.

Mi ricevette il direttore, il professor Pellicanò, serio, austero ed al contempo accogliente.

Eravamo cinque giovani, freschi di testi di psichiatria ed antipsichiatria, con molte nozioni e poca esperienza della malattia mentale.

Ci catapultò nella vita dell’ospedale, ci fece girare in lungo ed in largo fra i vari reparti, sempre accompagnati da personale specializzato che ci spiegava come fossero organizzati.

Ci fece alloggiare in una stanza posta accanto alle camerate dei pazienti (reparto femminile per noi ragazze e reparto maschile per i ragazzi).

Tutto il giorno impegnati nelle attività, mangiavano in sala mensa con i pazienti, cucinavano alcuni di loro stessi con la supervisione del personale ed altri pazienti ci servivano i pasti.

Ognuno di loro aveva una storia che, a volte, ci raccontavano in modo fantastico, altre volte, ci veniva raccontata dai medici.

Nel 1978 ci dissero che erano circa 1200 pazienti divisi fra le varie palazzine, ognuna con il nome di uno psichiatra famoso: Kraeplin, Charcot

Poi c’era la costruzione più temuta da noi giovani psicologi, quella con le sbarre, quella dove c’era il “manicomio criminale”.

Entrammo anche lì, con angoscia e paura, ma anche con curiosità e voglia di sapere.

C’era il detenuto politico che si era reso autore di un omicidio e dichiarato incapace d’intendere e volere, la moglie che, dopo un ennesimo tradimento, aveva accoltellato il marito infedele, il figlio di una ricca famiglia che aveva aggredito il fratello per questioni di eredità.

Tristi, trascurati nel corpo e nello spirito, con la voglia di raccontarci le loro storie.

Qualcuno tentava di aggredirci, credo perché ci vedessero come intrusi nella loro vita, ennesimi aguzzini.

Ma accanto a noi c’era sempre un infermiere che interveniva e bloccava ogni azione.

Ricordo un infermiere, un tipo alto, ben piazzato.

Il suo nome era Franco Gabellieri, soprannominato “Gambe”

Lui era il mio angelo custode: difendeva i miei capelli lunghissimi dalle tirate improvvise delle pazienti.

Mi disse che lui non poteva esserci sempre a proteggermi e che sarebbe stato meglio che girassi per i padiglioni con i capelli raccolti, prima di diventare una giovane dottoressa calva.

Poi le stanze si richiudevano, la porta in metallo e la piccola rete come fessura, fra il dentro (fatto di dolore) ed il fuori (fatto di persone in camice bianco e passi cadenzati con i ritmi della giornata).

Ricordo un paziente: diceva di essere Dio, mi fece una lezione di psicologia e sociologia insieme: “Voi venite qui per socializzarci, dovreste invece umanizzarci, perché dopo tanti anni trascorsi fra le sbarre del manicomio, non siamo più uomini”.

Ancora adesso dopo 45 anni trascorsi a lavorare in ospedale nella neuropsichiatria, ogni qualvolta ho davanti a me un paziente, mi risuonano le sue parole.

Ricordo che la notte era sempre in bianco, sentivamo i lamenti e le grida, poi la mattina c’era sempre qualche “novità” nei corridoi o nei bagni: escrementi, sangue mestruale…

l’infermiera ci diceva che era il “regalino” per noi, una provocazione da non cogliere.

C’era un ragazzo della nostra età che circolava fra i corridoi con un grembiulino troppo corto, che lasciava intravedere gli organi genitali.

Lui, quando aveva necessità, si metteva in un angolo e faceva i suoi bisogni.

Ci raccontarono che era un bimbo abbandonato, con ritardo mentale (a quei tempi il manicomio raccoglieva una varietà di persone) poi, non avendo famiglia, rimase per sempre lì.

Ricordo la storia di una paziente del nostro piano, chiamata Olivia per la sua magrezza.

Olivia aveva una storia d’amore con un paziente del piano di sotto, reparto degli uomini.

Si incontravano, quando tutti dormivano, al piano terra, dove era posto un grande frigo; e li, fra gelati e bibite, diedero vita ad una creatura amata e desiderata.

Il direttore decise di credere in loro: vennero sistemati in una casa famiglia (sorta da poco nel territorio vicino Livorno) con la supervisione di un operatore e la visita settimanale del medico e dell’infermiere per le medicine.

Anche noi andavamo fra quelle curve e vallate meravigliose, a fare il giro…

Quanto ho, abbiamo, imparato!

Una volta a settimana facevamo la riunione d’equipe per parlare dei pazienti, delle terapie, ma soprattutto di noi, delle nostre paure.

Ho conosciuto persone che hanno segnato la mia vita e la mia professione.

Ricordo del cimitero dei matti, posto a poca distanza, fra i vigneti.

Lì ci raccontavano dei suicidi avvenuti in corsia, di chi, non aveva retto, di chi, non aveva trovato una speranza.

Molti sono i ricordi, tante le emozioni.

Una volta a settimana il dottor Pellicanò, che mi disse di essere di Catanzaro come me, ci faceva andare in paese con alcuni ricoverati, al mercato, fra le bancarelle.

I cittadini ci vedevano giovani ed un po’ impacciati e ci dicevano sempre parole d’incoraggiamento.

In viaggio di nozze, dopo 3 anni dalla mia esperienza, sono ritornata a Volterra, per dare un segno di riconoscenza a quei luoghi ed a quelle persone.

Ora sono passati 42 anni e spesso dico a mio marito che vorrei ritornarci, per respirare la saggezza di chi ha lasciato un segno con la sua vita e che mi ha segnato.

Chissà…Se ci riuscirò.

Grazie a ciascuno di loro, sarò sempre riconoscente per i doni ricevuti.

Dottoressa Anna Fazzari

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