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Memorie di un internato psichiatrico
[Volterra. Manicomio giudiziario]

Questo è uno degli estratti del libro “Memorie di un internato psichiatrico” edito da Fondazione Museo storico del Trentino, curato da Q. Antonelli e F. Ficco.

Trattasi di una raccolta di quaderni manoscritti da Antonio (nome di fantasia), internato psichiatrico dalla personalità «perversa» che narra la sua permanenza all’interno del manicomio.

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Amore Corbezzoli e lacrime

Già, a Pergine, quando il prof. Giancarlo Goldwurm decise di «liberalizzare» la vita del manicomio, aprendo, a molti ricoverati, le porte dei reparti, parve a gran parte dei degenti, e a molti infermieri, che fosse stata posta in atto una innovazione straordinaria.

E, in effetti, in molti manicomi italiani questa liberalizzazione è ancora di là da venire.

Ma ce ne sono certuni, – di manicomi – che questa «novità» hanno già in atto da una quarantina di anni.

E, Volterra, è uno di questi.

Molti degenti lavoratori e anche qualcuno, che lavoratore non era, ma era nelle «grazie» del direttore o del medico di reparto, poteva uscire tranquillamente dal suo reparto; e se ne aveva voglia, poteva anche andare in città.

Io non godevo, – ovviamente – di questo privilegio: prima di tutto non lavoravo; secondariamente, non ero nelle «grazie» né di medici né del direttore; e terzo punto, dopo quell’alzata di ingegno del 5 aprile 1940 mi ero posto in una luce ambigua, di fronte alle autorità manicomiali, le quali; anche se avessi fatto richiesta di essere rimesso a lavorare; ci avrebbero ripensato più volte, prima di acconsentire.

Non fu così, però, con A. B., che, figlio – come ho detto – di un medico di una certa fama, e, per giunta, con una fama di «ribelle», che lo accompagnava, e forse, per qualche intervento del padre, era riuscito a diventare, – come dire? – una specie di «factotum» del dottor Benvenuti, che era titolare del «Biffi».

Lo seguiva durante la visita al reparto e prendeva appunti su un notes, che, in quelle occasioni, aveva sempre in mano.

In più, sapeva usare la macchina da scrivere, e conosceva molto bene un paio di sistemi stenografici, (mi pare il Gabelsberger-Noe e il Cima), insomma conosceva un monte di cosette che – per l’assenza del personale qualificato – richiami alle armi, principalmente – in quel luogo e in quel tempo, se acconciamente utilizzate, potevano dimostrarsi preziose.

Io mi ero un po’ preoccupato, in un primo tempo, di queste mansioni affidate ad A., e che lo tenevano lontano da me, per un certo tempo, (anch’io avevo cominciato ad affezionarmi seriamente a quel ragazzo, che con me escluso il ringollo del cunnilinguo al quale non avevo ancora fatta l’abitudine, e che mi dava come un senso di colpa, ogni volta che A. lo poneva in atto con me), dicevo, era pieno di una squisita attenzione.

Mi ero preoccupato ancora maggiormente, quando il dott. Benvenuti aveva preso a farsi accompagnare anche in altri padiglioni, che erano di sua competenza.

Mi ero allarmato ancora in misura maggiore, quando A. aveva avuto il permesso di uscire, da solo, dal padiglione.

Quando seppi questo, restai addirittura sgomento.

Non so perché, ma dopo un certo periodo di «leadership» comune, nel quale le decisioni, circa, il fare o non fare una determinata cosa; il prendere, o non prendere una data iniziativa, le prendevamo assieme, piano, piano, ero riuscito a controllare, da solo, e personalmente, tutta la vita, specialmente affettiva, del ragazzo; in qualche occasione lo avevo anche un po’ tiranneggiato, per vedere fino a che punto fosse stato con me.

Un giorno avevo visto, in cortile, l’infermiere al quale avevo tirato la scodella in faccia, ed allora dissi ad A.:

«Quello, vedi, è l’infermiere al quale scaraventai la minestra sul muso».

«Ah, si – fece A. – vuoi che vada a dargli un paio di cazzotti?»

«No no – mi affrettai a rispondere – prova invece a dirgli sul muso che egli è un imbecille cornuto».

Non avevo quasi finito di parlare, che A. si era già diretto verso il malcapitato.

«Purché non succeda nulla ad A.» pensai io.

Quando il ragazzo giunse ad un passo dall’infermiere, questi, accorgendosi della sua presenza lo guardò incuriosito.

A. si fermò, guardò a sua volta l’altro, poi gli disse:

«Non ho mai visto un individuo, più imbecille e cornuto di te».

Stette lì fermo ancora un momento, poi si volse e si diresse verso di me, mentre l’infermiere lo seguiva con lo sguardo, scrollando la testa.

Un’altra volta, che avevo messo alla prova il suo attaccamento, (o meglio la sua sottomissione) a me, c’era mancato un pelo che il mio giovane amico non fosse legato.

Così decisi di sospendere quel genere di «esperimenti» e mi dedicai esclusivamente a lui, come fece, d’altra parte, lui, con me.

O meglio come aveva fatto lui, da quando eravamo intrinseci.

Quando, dunque, seppi che poteva uscire da solo dal reparto, lo affrontai, e gli dissi:

«Ascolta bene, A., mi pare di poterti dare un consiglio, che potrebbe, si, giovare a me; ma che sarebbe utile anche per te».


Faccio, una, ma breve digressione: erano diversi mesi, che eravamo, tutt’uno, l’uno per l’altro, io, che, in un primo tempo, avevo considerato quella comunanza «di beni e di corpi», come una cosa passeggera, che non poteva avere un futuro; poi, piano piano, mi ero ricreduto ed ero entrato in un altro ordine di idee.

Dicevo, tra me e me:

«A. ha da fare ancora molti anni di manicomio. Ora è un gran bel ragazzo, è vero, ma come sarà fra cinque anni o sei anni? Sarò un po’ egoista, certamente, ma non posso non pensare al nostro futuro, senza tenere conto anche di questo fatto.

«E vero, io ho avuto due anni di manicomio, (non prevedevo, in quel tempo, le «proroghe» che sarebbero venute); fra non moltissimi mesi mi dimetteranno, e, per un paio d’anni, il fascino di A. rimarrà immutato.»

Poi «chi vivrà vedrà».

E qui chiudo la digressione.


Gli dissi, quindi, di lasciare ai suoi pazienti, il dott. Benvenuti, e di passare un po’ più di tempo, con me.

Egli mi stava guardando con un sorrisetto divertito, sulle labbra.

Quando ebbi finito di parlare, venne a sedersi sulle mie ginocchia, e mi parlò:

«Coccolone sciocco – mi disse – saresti per caso geloso del medico?»

E poiché io facevo l’atto di voler interloquire, egli mi agitò vivamente le mani sotto il naso, e continuò:

«Va bene, ho capito, va bene. Non andrò più col dottor Benvenuti; ti senti troppo solo, quando manco io; ti comprendo. Ma il resto»

– e qui la sua voce si fece carezzevole –

«il permesso di uscire dal reparto, me lo vuoi consentire; senti, ora siamo in autunno, ed è l’ora dei corbezzoli, – tacque un attimo – poi, cambiando tono, – non sai cosa sono i corbezzoli? Noi, toscani, li chiamiamo “le fragole di San Martino”».

Mi resi subito conto che, ove avessi insistito, lui non avrebbe ceduto, e, forse si sarebbe finito col litigare.

A me, d ’altronde, non importava un fico, la faccenda dei corbezzoli; ma la presi a pretesto per una «ritirata strategica».

Gli dissi, dunque:

«E va bene, vada per i corbezzoli; io non ne ho mai mangiato, (era vero), vedremo come sono».

Eravamo in un piccolo sgabuzzino, adiacente il cortile, nel quale, in tempi migliori, veniva distribuita la spesa settimanale.

A., – non appena finii di parlare, – con un guizzo mi fu addosso, stringendomi forte, e mi baciò sulla
bocca.

Sistemata anche questa piccola controversia, i giorni passarono lenti e monotoni.

A. mi portò un cestino di corbezzoli, (hanno la forma, la consistenza, e il colore delle fragole; e sono veramente molto buoni. Ma sapevo – per averlo sentito dire ancora al «Ferri», – che non bisognava abusarne. Se uno accusava, nei loro confronti, una, pur latente «insofferenza», potevano procurare delle fastidiose orticarie).

Tutto proseguiva, dunque, sui binari della più piatta normalità (se si volevano chiamare «normali» i nostri rapporti, – noti ormai a tutti, in reparto, che noi non cercavamo ormai più neanche di mascherare), quando, un giorno A. mi capitò innanzi, con una faccia strana.

Era sera, anzi, e, in refettorio, gli addetti, stavano già apparecchiando.

Ma qui devo fare un balzo indietro, e riferirmi a quanto detto al principio di questa decima parte.

A Volterra, dunque, erano molti coloro che potevano uscire dal reparto.

Costoro erano detti «sconsegnati».

Tra gli sconsegnati, naturalmente, c’erano anche delle donne

(A., un giorno, a proposito delle donne, mi aveva detto, con franchezza, che l’unica donna che aveva amato, – una dalla quale non era stato minimamente corrisposto, – era la sorella quella che egli aveva uccisa. Ed ormai, dopo quanto era accaduto tra lui e, appunto, la sorella, provava per le donne un orrore profondo).

Ero, dunque, tranquillo, sotto quel profilo, e non pensavo, nemmeno lontanamente che una donna potesse alienarsi il suo amore.

Ma, si sa, il diavolo fa le pentole, e i coperchi li dimentica sempre.

Un giorno infatti, venni a sapere, – da un infermiere che, bontà sua, considerava con indulgente ironia, (non pungente, però), la relazione intercorrente tra me e A. venni a sapere, dunque, che egli aveva, come si dice, una fiamma.

Io non dissi nulla, quel giorno, al ragazzo: e fu uno sbaglio: se, infatti, lo avessi affrontato, strapazzandolo a dovere, senza dubbio, egli si sarebbe ravveduto.

Comunque, feci finta di non sapere niente; del resto, i suoi baci, le sue carezze il suo solito ringollo, non erano mutati di intensità e di calore.

Fino al giorno, appunto, nel quale notai sulla faccia di A. un’espressione strana.

Noi avevamo l’abitudine, da tempo, di ritrovarci, tutte le sere, nella mia stanza, prima di andare a letto; e facevamo un monte di pazzie; ci tiravamo i cuscini e fingevamo di litigare,

(A. aveva una forza fisica di molto superiore alla mia; ma a volte, quando facevamo quei giochi, egli fingeva di essere sopraffatto da me, e si lasciava atterrare. Tutto finiva, naturalmente, nella solita maniera: baci, carezze, e abbracci, ai quali nessuno degli altri, che dividevano con me la stanza faceva più caso).

Ma, quella sera, aspettai a lungo l’arrivo del mio amico; non vedendolo apparire andai io, ad un certo punto, a cercarlo, nella sua stanza.

E lo vidi, seduto sulla sponda del suo letto, con i gomiti appoggiati ai ginocchi, e con la testa fra le mani (in refettorio non era venuto; comunque io non l’avevo visto).

Mi avvicinai silenzioso, poi, all’improvviso, – per burla naturalmente, – gli feci un urlo agli orecchi.

Mi immaginavo di vederlo trasalire, per poi scoppiare in una di quelle risate, che lo caratterizzavano, e che bene lo rendevano, ogni volta, maggiormente caro.

Invece, alzando lentamente la testa mi guardò e mi disse:

«T’avevo sentito arrivare».

Rimasi di stucco: egli sembrava un altro, non più la faccia sorridente che lo faceva somigliare alla «Primavera» del Botticelli.

Poi, con costernazione, mi accorsi, anche, che aveva gli occhi pieni di lacrime.

A. che piangeva la cosa aveva dello straordinario, anche perché un giorno egli mi aveva detto che l’unica volta che aveva pianto da quando non era più bambino, era stato quando aveva visto la sorella, riversa sul divano con la gola squarciata dalle coltellate; ed aveva aggiunto che ormai non c’era più nulla che potesse strappargli le lacrime; escluso, aveva detto un mio eventuale «tradimento», però – aveva aggiunto – in quel caso avrebbe ammazzato anche me.

Lo aveva detto sorridendo, ma nei suoi occhi, mentre mi diceva quelle parole, mi era sembrato di vedere un lampo di minaccia.

Comunque, la sera che io entrai nella sua camera, per rendermi ragione della sua non avvenuta visita, lo avevo scoperto in lacrime.

Cercai affannosamente di indagare sui motivi di quello strano fatto; lo tempestai di domande; lo afferrai per le spalle e lo scossi.

Niente, non parlava, sembrava caduto in una apatia tetragona come la morte.

Infine, ero rimasto zitto; mi era venuto il pensiero che egli fosse ubriaco, (nel bar del manicomio vendevano anche vino; e di quello buono).

Mi voltai, dunque, sospirando, e mi avviai verso la porta; fu a questo punto che egli scattò in piedi e mi afferrò un braccio, fermandomi:

«Tu – disse – mi vorrai sempre bene, vero? Dimmelo dimmelo»,

disse – vedendo che io non rispondevo, considerando la cosa ormai assolutamente ovvia.

«Ma sì, – gli risposi, – ma si sciocchino lo sai bene».

Egli, allora, con lieve violenza, mi fece voltare, e, lentamente mi ricondusse accanto al suo letto; sul quale ci sedemmo entrambi.

E prese a narrarmi la sua «sventura» (perché era proprio una «sventura» senza mezzi termini).

Mi disse che aveva perso la testa per una certa Jolanda, (il cognome non lo ricordo) una ammalata «sconsegnata», e che, pochi giorni innanzi, si era unito carnalmente con lei.

«Ma fu solo un capriccio» – aggiunse – in fretta, perché probabilmente io avevo istintivamente aggrottato le sopracciglie.

Comunque, proseguì nel suo racconto, il ragazzo, lo aveva fatto unicamente perché la donna aveva insistito tanto.

(Del resto, questa Jolanda, che qualche volta, avevo visto, era una gran bella donna, formosa ed esuberante; che non mostrava affatto i segni della brutta malattia, che, A. lo scoprì troppo tardi, aveva nel sangue).

A., in breve, dopo tre o quattro giorni dal coito, si era accorto che il suo pene gli doleva, che sul glande gli si era formata una ulcera.

A conferma delle sue parole, egli lo estrasse e me lo fece vedere.

Io non ho una grande competenza in fatto di malattie veneree; conosco unicamente il modo con cui si presenta la blenorragia; non seppi quindi, che cosa dire al mio giovane amico.

Ad ogni modo lo consigliai di farsi vedere, il giorno dopo dal medico.

E tornai nel mio letto.

Il giorno dopo, A. fu visitato dal medico di reparto, che, come gli disse, poi, il caposala, gli aveva diagnosticato una forma di lue [sifilide N.D.R.] di non so quale genere.

A quei tempi la lue si curava principalmente col «Salvarsan» e col mercurio.

Comunque, A. tornato nella sua camera, poiché nessuno lo sorvegliava in quel momento, (egli come tutti quelli che potevano uscire dal reparto, da soli, veniva considerato, sbrigativamente, come persona sicura).

Mentre scrivo queste righe, su un fatto che si verificò più di 30 anni orsono, mi sento un groppo alla gola.

A., infatti tornato nella sua stanza, si impiccò.

E, quella volta, non ci fu il piantone dei carabinieri che lo salvasse all’ultimo momento.

Così finì, in m odo tanto drammatico, una storia, che era cominciata, col sorriso di un ragazzo ventenne, che non aveva saputo realizzarsi.

continua…

Diario n°4: Amore Corbezzoli e lacrime