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Diario n°7: in fuga armati di scacciacani

Memorie di un internato psichiatrico
[Volterra. Manicomio giudiziario]

Questo è uno degli estratti del libro “Memorie di un internato psichiatrico” edito da Fondazione Museo storico del Trentino, curato da Q. Antonelli e F. Ficco.

Trattasi di una raccolta di quaderni manoscritti da Antonio (nome di fantasia), internato psichiatrico dalla personalità «perversa» che narra la sua permanenza all’interno del manicomio.

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In fuga armati di scacciacani (diario n°7)

«Quando ti coleran, marce, le gote tra i denti malfermi e, nelle occhiaie tue, fetenti e vuote brulicheranno i vermi…..».

Questo è uno squarcio del­ la «famosa» ode II canto dell’odio di Lorenzo Stecchetti alias Olindo Guerrini.

Eravamo d’accordo, che quando io avrei trovato appeso con un chiodo ad un albero determinato del giardino, questi macabri versi, avrei dovuto recarmi nel gabinetto nord, in cortile e lì mi sarebbero state date delle istruzioni.

Sembra cosa ridicola, in pieno secolo ventesimo, questa proce­dura da «Carboneria» risorgimentale; ma M.B., che, dopo la mia adesio­ne ai progetti di fuga dei due ragazzi, (il padovano A. non sapeva niente. Si era deciso – lo aveva voluto proprio B. – di tenerlo fuori dai nostri piani), aveva preso in mano la direzione dell’intera faccenda, aveva detto che dovevamo farci vedere, assieme, il meno possibile.

Che non dovevamo né parlarci, né salutarci, quando, a caso, ci si incontrava.

Più gli infermieri pensano che noi non avessimo nulla da spartirci reciprocamente, e più facilmente la sorpresa sarebbe riuscita.

Ed ora apro una breve parentesi, per parlare un po’ degli infermieri.

Molti, di costoro, che avevano prestato servizio fino allo scoppio della guerra, erano stati richiamati alle armi; a sostituirli, si era dovuto ricorrere, in gran parte, a quelli già in pensione, e, per il resto erano stati «arruolati» dei ragazzi di 17-18 anni; senza diploma, naturalmente, purché avessero buo­ne braccia e spalle robuste.

Quei ragazzi, messi ad un lavoro che, (forse speravano) li avrebbe esentati – a suo tempo – di andare alle armi questi ragazzi, dicevo, erano particolarmente «feroci».

Più che la cattiveria e lo zelo, penso, che a renderli tanto intrattabili, sia stata, in gran parte, la pau­ra.

Paura fisica; umana e giustificatissima paura.

Che cosa potevano fare infatti, quei ragazzi, di fronte ad un tipo come il polesano T., che aveva al suo attivo, cinque omicidi, ed era particolarmente riottoso, anche con gli infermieri che ben conosceva?

Che cosa potevano fare, – mi chiedo – quei ragazzi, se non saltargli addosso come cani rabbiosi, quando dovevano condurlo in qualche luogo?

L’ho già detto, io, – come persona civile e in grazia, nonostante tutto, al­l’educazione che mi era stata impartita, – io, dicevo, sono contrario alla brutalità gratuita e fine a se stessa, (né mi si venga a ricordare che anch’io, talvolta, ero stato violento e brutale.

Quelli però erano momenti nei quali non ero io; che agivo, ma il demonio che avevo indosso, il mio sangue «calliente» che mi toglieva la possibilità di ragionare normalmente).

Ero contrario alla violenza dunque; ma, – e chi non è mai passato, almeno per due giorni, in un manicomio giudiziario, non può rendersene conto, – di fronte ad individui che, di umano, avevano solo l’aspetto (e qualche volta quasi nemmeno quello) per non perdere l’iniziativa, – il che voleva anche dire, per non perdere la faccia e l’autorità, bisognava mettersi al loro livello e combatterli con le loro stesse armi; colpo per colpo.

Mi viene un po’ di insofferenza, in verità, quando vedo un dottor Di Marco e un dottor Masè, o un dottor Marabelli, parlare con certi tipi riottosi, che si ostinano a rifiu­tare la fleboclisi o la iniezione.

Lì, a mio parere, non c’è da discutere; il principio dell’autorità deve essere salvaguardato.

Il dott. Di Marco, a que­sto punto, mi direbbe che sono fascista.

Ma vorrei vedere, (è un’ipotesi molto remota, s’intende) vorrei vedere come farebbero, se l’individuo col quale si sono messi a parlamentare desse loro un pugno in faccia.

E non mi vengano a dire che non è possibile.

L’ho visto io, non moltissimo tempo fa, il dott. Perillo, buscarsi un pugno in un occhio, da un giovane tedesco, che egli aveva cercato di far ragionare.

Ancora due parole, poi riprendo la narrazione.

Se non si afferma il principio di autorità si rischia, qualche giorno, di trovarsi di fronte a qualche emulo di A. L., (l’ho già ricordato in queste memorie), che nel 1953 uccise due infermieri.

Nonostante i suoi atteggiamenti di ribellione, Antonio mostra, in più occasioni, di rico­noscere il valore dell’autorità. In una lettera del 1954 diretta al direttore dell’Ospedale psichiatrico di Pergine, scrive: «Mi si taccerà, forse, di anarchico o di nichilista. Io non sono anarchico, e pur ammirando quanti seguono quell’indirizzo politico, perché presup­pone il possesso, oltretutto, di una coscienza adamantina (si pensi a grandi uomini anarchici come Giovanni Bovio, o Pietro Gori, od anche Errico Malatesta) non mi sento di seguirli sul terreno dell’Idea, in quanto, pur ribellandomi all’autorità, quando questa vuole impormi dei soprusi, ne riconosco il valore, per così dire, legale, se agisce in conformità di una retta interpretazione del proprio mandato».

Un giorno, dunque, tre o quattro dopo che avevo parlato col giovane S., io vidi la mezza paginetta, attaccata all’albero che sapevo.

(Passavo tutti i giorni, in quei paraggi, proprio per questo motivo).

Piano piano, mi avviai verso il cesso, giuntovi trovai S. e B.: avevano precisamente l’aria di aspettare me.

Ci mettemmo tutti e tre sul vano di una finestra, (nel cesso c’era solo un povero scemo che seduto in un angolo pareva dormisse).

M. B., guardò furtivamente in cortile da vetri estremamente sudici; parve aspettare un po’, poi mise una mano in tasca e ne estrasse una rivoltella.

(Mi venne un sudor freddo, io non avevo previsto l’uso di armi del genere, non se n’era mai parlato, nelle altre riunioni, che avevamo fatte nei luoghi più disparati).

S. mi guardò, parve comprendere il mio turbamento e mi disse: «Ma va non ti spaventa­re; è solo una scacciacani».

Ed il B. la estrasse un’altra volta e, mettendosi defilato dalla finestra, per non essere visto dal cortile, me la mostrò sulla mano aperta.

Ma sì era una scacciacani (il tema della pistola, per inciso, fu ripreso da A.G., quando nel ’47 era nel manicomio giudiziario di Reggio Emilia, e c’ero anch’io; solo che, quella del G. era un’imitazione perfetta, in mollica di pane di una «Beretta» calibro 7.65).

[…]

Mi disse il B.

«N. sa già cosa fare, ora ascoltami tu. Stasera non spogliarti, quando vai a letto. Non ti levare nemmeno gli zoccoli. Ad una certa ora verrò io a chiamarti. Questo è tutto quanto devi sapere; al resto penso io».

Quella sera, dunque, cercando di non dare nell’occhio ai miei compagni di camera, mi infilai nel letto col vestito e tutto; (ordinariamente dei vestiti si doveva fare un fagotto, e portarlo in uno stanzino ad hoc, nel quale, poi si andava a ritirar­ lo la mattina successiva.

Quella sera, anche prima di andare a letto, mi avvicinai a E., e lo baciai, (sulla bocca come era nostra consuetudine).

Egli mi disse sottovoce:

«Vieni a trovarmi, stanotte?»

«No, – risposi io, – stanotte dormo sono molto stanco».

A letto, non mi potei addormentare, e le ore passarono lente.

(Devo dare una spiegazione, a questo punto: nei dormi­tori ogni ammalato, oltre al letto, aveva anche un vaso da notte, di allumi­nio quando, la notte, si aveva bisogno di fare pipì, ci si serviva del vaso; per le altre necessità, invece, si bussava alla porta, l’infermiere veniva ad aprire e si andava al cesso).

All’improvviso, (mi ero appisolato da poco) mi sentii toccare violentemen­te un braccio quasi avessi preso un pugno: mi alzai, di scatto, a sedere, nel letto, mi stropicciai rapidamente gli occhi, e vidi… la porta del dormitorio, spalancata, nel corridoio accanto ai due infermieri, che prestavano servi­ zio di notte, e che stavano con le braccia alzate, vicino al muro, M. B., con la faccia tesa e un tic, all’occhio sinistro che glielo faceva contrarre ad intervalli, che teneva puntato lo scacciacani contro di loro.

E presso il mio letto N. S., che si dava da fare per farmi uscire dal letto, il più silenziosa­mente possibile.

Tenendo gli zoccoli in mano, (facevano troppo rumore a camminare) fui tosto al fianco di M. B.

Egli allora si chinò rapidamente, verso un certo numero di fascette, che giacevano arrotolate ai suoi piedi, e che io non avevo notato, ne prese una la gettò a S. che la colse al volo, e, avvicinato (il S.) ad uno dei due infermieri, – che erano lividi dall’emozio­ne – gli fece mettere le mani dietro la schiena e gliele legò saldamente; poi lo fece sedere a terra, con la schiena contro il muro, e gli legò anche le gambe e i piedi.

Lo stesso trattamento fu riservato anche all’altro infermie­re; dopo di che M. B. disse ai due poveracci:

«Non vi imbavaglio, ma dovete tacere cinque minuti, prima di dare l’allarme. Se vi sento gridare prima che siano passati ritorno qui e vi faccio fuori».

Tutto si svolse come se fosse stato programmato da un accorto regista.

Quando scoccarono i cinque minuti imposti dal B. ai due infermieri, noi eravamo già in discesa, sul colle che sovrasta la stazione.

Senza correre, con calma; B. aveva pre­ visto tutto: un nugolo di infermieri ed anche i carabinieri, ci avrebbero cercati sulle strade di Volterra, che si diramavano verso la pianura.

Noi, invece, ci eravamo fermati a due passi dal manicomio.

A chi sarebbe ve­nuta l’idea di cercarci proprio su una delle alte querce, proprio al di là della strada che costeggia il manicomio.

Avevamo provveduto anche alle vetto­vaglie: ci aveva pensato B., come al resto, ognuno di noi aveva 3 patate e due razioni di pane.

Non si potevano mangiare, però prima che fossero passate, 12 ore dall’evasione.

Le cose si svolsero così come avevamo previsto: ci eravamo appena sistemati, tra irami accoglienti della vecchia quer­cia, che la strada fu tutto un brulichio di infermieri.

C’era una falce di luna, in alto; poca cosa, ma sufficiente perché potessimo distinguere gli «sbirri» che erano stati sguinzagliati alla nostra ricerca.

Sentimmo anche i discorsi di due di loro, che si erano fermati proprio ai piedi del «nostro» albero.

Uno chiedeva all’altro, che elementi fossimo; l’altro – che non pervenni a riconoscere ma che mostrava di essere piuttosto informato sul nostro con­to – rispondeva che uno di noi – o forse due – aggiungeva – era armato di pistola.

Diceva, inoltre, che fra i tre ce n’era uno – che sarei stato io – che non era nuovo ad evasioni.

Proseguiva – quindi – l’infermiere, mentre tutti e due, si allontanavano, a passi lenti, dal nostro rifugio – proseguiva dicen­do che eravamo tutti e tre individui molto pericolosi.

Restammo sull’albe­ro tutta la notte, zitti ed infreddoliti; e, – ad una certa ora – ci fu il rumoroso passaggio, sulla strada, di un sidecar, con a bordo tre carabinieri.

Poi tutto tornò nel silenzio, ed una quiete solenne si distese sulla strada e intorno a noi, mentre la luna tramontava lentamente, dietro uno dei monti circo­ stanti.

Quando le prime luci, lattiginose, dell’alba, cominciarono a filtrare di tra le nubi alte e rade, che coprivano le punte degli Appennini circostan­ti, scendemmo dall’albero e, camminando paralleli alla strada ma ben addentro nelle campagne, e ci avviammo verso la direzione nella quale, – secondo B., il bresciano, che mostrava una certa conoscenza della zona – doveva esserci Monticiano, in provincia di Siena.

A Monticiano, – ci disse M. B., – egli aveva una zia, sorella di suo padre, che aveva sposato un grosso proprietario della zona; e la sua zia, ci diceva, ci avrebbe certamen­te aiutati.

Prima di porre in atto la nostra fuga, dal manicomio, avevamo stabilito che, appena fuori dal manicomio, ognuno di noi si sarebbe allon­tanato per conto proprio; ma «viribus unitis» avevamo poi convenuto di andare insieme tenendoci debitamente lontani dai casolari isolati, e dai centri, attraverso i quali si snodava la strada, fino alla fattoria della zia di M. B., dopo di che, rifocillati e mutati d’abito, avremmo ripreso la nostra indipendenza, per le strade del vasto mondo.

continua…

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