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Entrano uomini escono matti (1968)

Entrano uomini escono matti (L’articolo originale)
  • Data di pubblicazione:
    11 Agosto 1968
  • Autore:
    Mino Monicelli
  • Testata giornalistica:
    L’Espresso

Entrano uomini escono matti

Viaggio nell’Italia della violenza / 2. L’ospedale psichiatrico

Nelle “Fosse” del reparto “Verga” all’ospedale psichiatrico di Volterra, donne legate con lacci di canapa, o inchiodate nella camicia di contenzione, buttate per terra nei cortili e negli stanzoni ad aspettare la sera. Così vivono la loro giornata. Il non far niente le disintegra a poco a poco.

FIRENZE. « Pericoloso a sé e agli altri, oggetto di pubblico scandalo ». L’uomo in tuta blu mi mostra i documenti della sopraffazione a fin di bene, della violenza legalizzata, con tanto di timbro e carta da bollo, nella società civile.

Si chiama Aldo Bombaraso, è operaio saldatore alla SCAF.

Avete mai visto un uomo disintegrato legalmente?

Quest’uomo è stato 31 volte in manicomio; fuori e dentro, per anni e anni.

Quando non si sente a posto, è lui stesso che si presenta chiedendo di entrare in un Lager psichiatrico.

Ma non sono riusciti a disintegrarlo.

È un pezzo d’uomo grande e grosso e ha resistito.

È passato indenne, o quasi, attraverso quelle istituzioni della violenza, attraverso quegli “asili” descritti dal sociologo americano Erving Goffman, in cui la società dei “sani” confina i suoi figli “malati”, cioè scomodi.

La mente dell’operaio Bombaraso è rimasta vivace, la sua parola tagliente, il suo animo pieno di sarcasmo e di indignazione.

Ora mi mostra un documento in cui appare la definizione di demente. «Il demente sarei io» dice.

Ci troviamo in un tinello largo due metri e lungo tre, un terzo del quale è occupato dal “demente” in tuta
blu.

Negli altri due terzi entrano un tavolo, un sommier, io e l’aria per respirare.

Intravedo anche una stanza da letto, una minicucina e, nell’angolo, un televisore nuovo di zecca; quello di prima il Bombaraso l’ha sfasciato, a seggiolate, un giorno che non si sentiva a posto.

L’ultima volta è stato ricoverato il 31 maggio.

Sindrome depressiva, cosi documenti.

L’hanno dimesso il 14 luglio.

«Mi racconti come è andata»

«È andata che mi hanno portato a Santa Maria Nuova [Firenze N.D.R.] e lì gli infermieri mi hanno fatto subito una strozzina.
Ci sono vari tipi di strozzina. In certi posti ti stringono la gola nella morsa dell’avambraccio, altrove ti coprono la testa con un lenzuolo bagnato e te lo serrano intorno al collo finché cadi svenuto. A Santa Maria Nuova invece ti piantano i pollici nella gola e pigiano finché il sangue non arriva più al cervello e perdi i sensi.
Il giorno dopo, appena incontrai il professor Saccenti, glielo feci rilevare:

“Professore, e che maniera è?
Ho chiesto di essere mandato al San Salvi [Firenze N.D.R.] e quelli mi fanno subito una strozzina”
Sa cosa mi ha risposto Saccenti?
“Cosa vuole Bombaraso, lei è una pecora già bollata” »

Nell’inferno della sopraffazione psichiatrica esistono bolge che sia pur di poco, i dannati preferiscono ad altre.

Il manicomio provinciale San Salvi di Firenze sembra sia una di queste bolge predilette.

C’è stato un miglioramento negli ultimi tempi: ora i catatonici che si rifiutano di mangiare li mettono a letto e li nutrono con fleboclisi.

Fino a due o tre anni fa la terapia applicata era la seguente: uno straccio bagnato intorno al collo e stringere fino a fargli aprire la bocca per ingozzarli a forza.

«Ed eravamo di fare anche convinti di fare un’opera umanitaria», mi dice l’infermiere Donaro Cappelli.

Cappelli oggi non è più convinto di certi sistemi umanitari, anzi.

Ma migliaia di suoi colleghi lo sono tuttora.

Ad Aversa, fino a poco fa, in un reparto femminile la notte rimaneva un’infermiera sola e le colleghe, prima di andarsene, l’aiutavano a legare tutte le malate, anche le tranquille: “A fin di bene”.

Quanto ai frenastenici, si sa, dovrebbero essere ricoverati in istituti speciali: ma si preferisce adottare la terapia più semplice di dargli da mangiare poco: «Cosi sporcano meno».

Le cravattine del San Niccolò

BOLGE apparentemente lustre con le camerate linde.

I fiori nei vasi, tutto perbene, in ordine, nessuno che protesta o dà in smanie o viene legato o subisce strozzine eppure tutto è egualmente sopruso, sopraffazione, violenza,

«Ho visto cartelle cliniche di malati che hanno preso per 10 anni, tre volte al giorno, la stessa pasticca di Largactil.
Sa come tolgono la voglia di bere agli alcoolisti al San Salvi?
Gli danno una dose di Antabuse, il cui effetto è che quando bevono vanno in coma.
Nessuna ricerca delle motivazioni per cui bevono.
La sola terapia è incutere il terrore di andare in coma».

Cosi mi ha raccontato l’infermiere Donaro Cappelli.

«Ma se è cosi, perché lei, Bombaraso voleva essere mandato al San Salvi?»

«Per non finire al San Niccolò di Siena.
Ci sono stato cinque mesi, l’anno scorso, dal 1 marzo al 7 agosto.
Non può immaginare cosa sia.
Là le strozzine sono chiamate cravattine.
Ho visto un malato, un tipo assolutamente tranquillo, annientato della sua personalità.
L’hanno messo in una secreta di punizione del reparto Conolly perché aveva fabbricato una chiave di legno.
II Conolly lo chiamano il reparto criminale: 23 celle con bugliolo e due senza.
Nelle due senza i bisogni si fanno per terra, poi passa il solito malato-schiavo a pulire.
C’è sempre una ventina di ammalati costantemente legati giorno e notte.
Macché pericolosi.
Noiosi si, molesti, ma non pericolosi; pericolosi sono solo gli infermieri e i medici».

L’ospedale psichiatrico provinciale San Niccolò di Siena ha 1.800 malati e 10 medici.

Nel reparto geriatrico tre infermieri assistono 40 vecchi, tutti allenati.

Il pavimento è di mattoni, gl’infissi non chiudono, il riscaldamento è assicurato da due stufe a carbone, i servizi igienici da un gabinetto alla turca e un bagno.

Nel reparto “Morselli” ci sono sei rubinetti di acqua fredda per 170 ricoverati: le code sono di ore.

Quali sono i metodi terapeutici in vigore?

Diamo nuovamente la parola a Bombaraso.

«II “caporale” ha la mano libera anche in campo terapeutico: ti fa due o tre iniezioni al giorno senza alcun controllo medico.
Le pasticche di Letargin forte le porta nel taschino, sempre pronto a mettertele nel caffellatte.
I medici ti fanno coltivare l’orto o la vigna.
E gl’infermieri ti fanno fare il loro lavoro, spazzare, cucinare, lavare, i mestieri più umili.
Al San Salvi il compenso è di 120 lire al giorno, al S. Niccolò di mezzo sigaro, la domenica.
E questa la chiamano ergoterapia.
Le celle sono infestate dai topi.
Il bagno lo si fa ogni tre mesi.
La sera, a cena, ti danno due formaggini Bebè.

Un giorno dico al primario del reparto, il dottor Gasparoni:
“Dottore, quanto tempo devo stare in questa stamberga? Almeno ci fosse un po’ di svago, un ping-pong…”

Lui fa una risata e dice:
“Levatelo dalla testa il ping-pong, qui siamo a Siena non a Firenze. Comunque, dipende da che reato hai commesso, omicidio, violenza carnale, eccetera..
“Ma io non ho commesso nessun reato”

E lui:
“Io a quello che dice il malato non ci credo”

Per cinque mesi sono stato curato così»

Recentemente il lager psichiatrico che ha nome San Niccolò è stato visitato da un ispettore del ministero della Sanità.

S’ignora tuttora il risultato della visita.

Nella migliore delle ipotesi il risultato sarà una stufa a carbone o un gabinetto alla turca in più.

E la nostra buona coscienza di cittadini “sani” sarà salva.

Ho visto nelle “fosse” del reparto “Verga, all’ospedale psichiatrico di Volterra, donne legate con lacci di canapa, o inchiodate nella camicia di contenzione, buttate per terra nei cortili e negli stanzoni ad aspettare la sera.

Così vivono la loro giornata.

Il non far niente le disintegra a poco a poco.

La persona più normale deteriora in poche settimane in quelle condizioni.

Assume atteggiamenti che non sono effetto della malattia, ma dell’istituzione, la scienza dice che il malato di mente si comporta in un certo modo e il malato si comporta come dice la scienza.

I sovversivi di Cividale [Friuli N.D.R.]

«È lo stereotipo culturale della malattia che fa di loro del malati», dice Franco Basaglia, direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia.

Basaglia crede tanto poco alla pericolosità dei malati di mente che glieli portano legati a lui, come prima cosa, li slega.

«Qui a Gorizia la violenza non consiste più nel dar botte o nel legare; ma esiste lo stesso, è una violenza paternalistica, anche se il mio ospedale è aperto.
Come elimina la società le contraddizioni di un individuo?
O in modo manifesto, uccidendolo; oppure in modo subdolo, mettendolo in collegio, in riformatorio, in carcere, in manicomio.
Ma le contraddizioni si affrontano, si vivono; non si evitano legando il malato agitato o chiudendo il figlio “caratteriale” in collegio».

Vi sono più di 100 mila ricoverati negli ospedali psichiatrici italiani.

La maggior parte è costituita da vecchi di oltre 70 anni e da donne, cioè dagli esseri piu indifesi, sprovveduti e abbandonati.

Le terapie tradizionali sono l’insulinoterapia, l’elettroshok, la cura del sonno, gli psicofarmaci.

I medici si vedono raramente, i malati sono affidati agl’infermieri che passano gran parte del giorno giocando a carte o al bigliardo.

Molti reparti sono in realtà dei veri e propri cronicari in cui finiscono vecchi alcoolisti o arterioscierotici, abbandonati dalla famiglia.

Ma nelle “fosse” finiscono anche i giovanissimi: un ragazzo sedicenne figlio di contadini definito al solito «caratteriale», che aveva rubato 60 mila lire in casa, ora lavora tutti i giorni a Volterra dalle 9 alle 2 nell’orto del direttore (prende 120 lire alla settimana); una ragazza di 13 anni, «molto frivola», ricoverata perché «aveva la mania di vestirsi da donna fatta», è rimasta chiusa al San Salvi di Firenze fino a 22 anni, vestita di grigio, in compagnia di vecchiette lungodegenti e degradate.

Ogni individuo presenta contradizioni e problemi, nodi umani da sciogliere, difficoltà di carattere sociale o psicologico da superare.

Se non riesce a superarli la società non ha tempo da perdere con lui.

Essa copre le insufficienze e le contraddizioni del “sistema” escludendo il “malato” etichettandolo come «pericoloso a sé e agli altri», chiudendolo in quegli asili appositamente istituiti per gli individui scomodi, che si chiamano manicomi.

Ma allora non ci sono malati mentali?

La malattia mentale non esiste?

«No, non esiste», dice il professore Edelweiss Cotti.
«Esistono dei comportamenti sbagliati che vengono etichettati come malattia, Ci sono centomila schiavi da liberare in Italia»

Cotti prima lavorava a Villa Olimpia, a Bologna.

Dalla fine di febbraio dirige il reparto neuropsichiatrico dell’ospedale civile di Cividale del Friuli, a cui è stato chiamato per suggerimento del professor Basaglia.

Sui muri del reparto, che ospita una trentina di malati, ho visto scritto: “La verità è rivoluzionaria”.

Cotti e i suoi collaboratori, tra cui il dottor Tesi di Gorizia e il dottor Antonucci di Firenze, sostengono che tutti finiscono in manicomio per sbaglio.

«I manicomi non dovrebbero esistere ».

Infatti il loro si chiama centro di relazioni umane.

Il metodo terapeutico è simile a quello di Basaglia a Gorizia: assemblee quotidiane e continue manifestazioni comunitarie, dibattiti, feste, gite.

Niente elettroshok, niente insulina, niente psicofarmaci.

«A volte somministriamo qualche sedativo, ma facendo ben presente al malato che la pasticca non è una cura, ma solo uno strumento. Il malato partecipa e collabora alla terapia, non ne è oggetto passivo»

Questi metodi eterodossi non potevano mancare di provocare allarme negli ambienti ultramoderati locali.

Dice Cotti: «Evidentemente i dirigenti dell’ospedale volevano due cose contraddittorie: metter su una cosa nuova nell’assoluto rispetto della tradizione ».

La tradizione in che consiste?

«Tenere chiusi i cancelli, limitare i permessi di uscita, assumere nel personale di assistenza le suore», dice Antonucci.

«Invece il reparto è aperto nei due sensi: non solo i malati possono uscire quando vogliono, ma quelli di fuori possono entrare e partecipare liberamente alla vita interna del reparto.
Ci considerano sovversivi, rivoluzionari.
Certo che lo siamo.
Siamo contro la gerarchizzazione, il medico che comanda e il degente che obbedisce.
Un degente, in assemblea, ha invitato il professor Cotti a farsi curare, visto che ha un quoziente d’intelligenza così scarso; un altro gli ha dato un pugno in testa.
E con ciò?
Se una catatonica arriva in un ospedale tradizionale la mettono subito in cella di isolamento e stabiliscono che è irrecuperabile.
Per noi è solo una persona in stato di ansia.
Cerchiamo di comunicare immediatamente con lei.
È venuta da noi una ragazza in questo stato, tre giorni dopo già parlava, dieci giorni dopo ha dato gli esami»

In assemblea si discutono problemi sociali, familiari e politici: il caso di una contadina che vive con 20 mila lire al mese; o Il caso di un alcoolista, il perché del suo comportamento.

Era inevitabile che tutto ciò destasse scandalo e preoccupazione in un ambiente tradizionalmente chiuso
a ogni innovazione.

In una zona di grave depressione economica e di forte emigrazione l’alcoolista ha una sua precisa ragione d’essere; ma alcuni dell’establishment locale preferiscono il bevitore all’individuo che tenta di capire perché beve.

Adeguarsi o perire

Io reperto pilota di Cottiè stato aperto il 18 febbraio.

Il 14 giugno è stato ordinato di chiudere.

Ne ho chiesto il perché al presidente dell’ospedale, professor Cantarutti.

Mi ha risposto:
«Perché il reparto non si adegua al resto dell’ambiente in una istituzione piccola come la nostra».

E non ha voluto aggiungere altro.

Basaglia, a Gorizia, è in guerra totale con la maggior parte dei dirigenti locali da 7 anni.

La guerra di Cotti è durata 4 mesi.

Qualcuno ha presentato un’interpellanza al parlamento sul Blitzkrieg di Cividale del Friuli; ma il governo non ha ancora risposto.

A Cividale, il figlio di un ras del luogo va dicendo in giro: «L’unica colpa di Cotti è di non essere democristiano».

Una cosa è certa: nell’inferno della violenza legalizzata, se qualcuno mette in atto riforme serie, radicali, e non si limita ai palliativi, agli alibi rischia di essere spazzato via nel giro di pochi mesi.

Il peccato vero di Cotti non è di non essere democristiano è non è nemmeno di aver slegato i matti: è di aver tolto loro il bavaglio.

In una società maccartista che si rispetti l’alcoolista è libero di bere, non di protestare.

Mino Monicelli

Entrano uomini escono matti (1968)