Dal mondo dei pazzi (1901)
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Anno:
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Data di pubblicazione:8 Ottobre 1901
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Autore:Dottor Giulio Obici
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Testata giornalistica:Il Piccolo
Dal mondo dei pazzi
I lavori degli alienati — I manicomi di una volta e quelli di oggi. — I manicomi bastano a se stessi. – Scuole, chiese, teatri e bande — I misteri di un esposizione.
(Lettura particolare al “Piccolo”),
ANCONA. 5 ottobre.
Vi scrivo poco prima di lasciare questa ospitale città, ove ho assistito all’Xl congresso degli alienisti.
Più che dal correre che s’è fatto da un ricevimento ad un banchetto, da una serata di gala ad una gita in mare, e del riposarsi, fra un divertimento e l’altro, nelle comode poltrone delle sale del Consiglio provinciale discutendo di scienza, – desidero parlarvi di quello che hanno mostrato di saper fare gli alienati dei vari manicomi d’Italia, le cui opere erano messe in vist nell’Esposizione Freniatrica aperta all’Asilo Margherita.
Alla Mostra prendevano parte quasi tutti i manicomi del regno, sia con fotografie e piani di rilievo, sin con apparecchi o produzioni scientifiche, sia con numerosi campioni degli svariati lavori compiuti dai pazzi.
Bellissimi i prodotti della colonia agricola del manicomio di Macerata con le sue magnifiche ortaglie e le varie specie di polli e gli apiarii che producono circa trenta quintali all’anno di miele; e quelli della colonia industriale ove lavorano sarti, calzolai, stagnini, fabbri, falegnami, fabbricanti di laterizi, di stuoie, di paste, di cappelli.
Non meno laboriose si dimostrano le donne con le calze, le maglie ed i tessuti, di cui producono sopra cinquemila metri all’anno.
Notevoli le mattonelle in cemento e la lavorazione della paglia per cappelli del manicomio di Firenze; interessanti le vestimenta prodotte in quel di Ferrara, belli i ricami dei manicomi di Ancona e di Nocera Inferiore, artistici gli alabastri lavorati dai pazzi di Volterra.
Vi sono inoltre le concezioni geniali: quadri ad olio o a carbonello eseguiti da pazzi che non avevano mai studiato disegno.
Il manicomio di Alessandria, vicino ad una grande tavola che riproduce i tatuaggi di un alienato, espone un quadro ad olio: «La banda del manicomio», autore un alienato.
Girifalco ha mandato un mandolino costruito da capo a tondo da un pazzo, e Macerata espone molte stranissime terre cotte, nelle quali il genio artistico si fonde e degenera in curiose manifestazioni pazzesche.
Davanti a tante varietà di prodotti, dalle tele alle trecciuole di paglia, dai tessuti di lana alla pasta da minestra, dalle scarpe agli intagli di legno, il profano alla intima vita manicomiale deve per forza convincersi che i manicomi bene organizzati non sono poi quel triste carcere ove solo risuonano bestemmie e grida di ira e gemiti di dolore, e nei quali i poveri rinchiusi si aggirano nella cella disordinati e sudici come belve di un serraglio, o si agitano invano, come toturati negli stretti legami di una camicia di forza o delle fascie di contenzione.
Sono finite, almeno in gran parte, le folli paure e gli strani pregiudizi che facevano del povero pazzo un
essere invasato da spiriti malefici e del tutto inadatto ad ogni forma anche semplicissima del vivere sociale.
Al trattamento ferreo e crudele dei secoli scorsi è succeduta la terapia pietosa, illuminata e serena; e se purtroppo essa non può sempre ottenere la guarigione del malato, tende in ogni modo a ritardare il completo sfacelo psichico dell’infermo, a difenderne a brano a brano la personalità morale intellettiva e volitiva, a riunirne e a conservarne coll’esercizio e la rieducazione gli ultimi pochi elementi sani che alle fiere tempeste delle spirito fossero sopravvissute.
A questi nobili scopi, sovrani rimedii sono il lavoro e la sostituzione al trattamento quasi carcerario, ancora in uso purtroppo in alcuni manicomii, un trattamento più liberale e più fiducioso verso il povero malato.
Bisogna riconoscere che su questa strada in Italia si sono fatti in questi ultimi anni passi giganteschi.
L’istituire il lavoro su larga scala in un grande Manicomio non è certo opera facile, e richiede larga liberalità da parte degli amministratori, felice intuito, spirito di sacrifizio e raddoppiata vigilanza da parte dei medici e dei sorveglianti.
Non mancano, però i compensi, poiché agli sforzi delle Amministrazioni rispondono le economie, che, a lavoro ben organizzato, è possibile introdurre nella gestione totale dell’Istituto, e alla vigile pazienza dei medici rispondono le aumentate e più rapide guarigioni, la maggiore tranquillità dei malati, e l’abbandono
di quella odiosa veste di carceriere e di gendarme, che era la poco dignitosa caratteristica degli antichi alienisti.
Nella grande massa dei pazzi, relativamente pochi sono coloro che non possono essere adibiti ad u qualche lavoro; bisogna, peraltro, che il Manicomio offra locali convenienti, adatti apparecchi, e numeroso personale di sorveglianza, e che i medici sappiano adattare ai vari malati la speciale occupazione, e indurli con pazienza e sottile accorgimento alla abitudine del lavoro.
La buona o cattiva organizzazione di un Manicomio si può oggidì misurare dalla percentuale di malati che sono adibiti ai lavori, e un Istituto ideale deve vivere quasi esclusivamente del lavoro dei propri ricoverati.
Gli antichi Manicomi, chiusi come Bastiglie da alte mura, da porte ferrate, da irruginiti cancelli e ferriate hanno a poco a poco distrutto tutti questi ostacoli al penetrare nelle fredde sale dei due grandi emblemi di libertà: l’aria e la luce: hanno sconfinato intorno, negli orti e nei campi, e si sono trasformati, per quanto era loro possibile, in ridenti e ricchi villaggi.
Dai campi traggono il grano che appositi molini, forni e macchine trasformano in pane e paste, traggono il vino, le frutta e le ortaglie; negli stessi campi sorgono abitazioni coloniche, stalle, caseifici, macello, e nel villaggio attorno alle costruzioni, più specialmente adibite ai pazzi agitati o fisicamente infermi, i laboratori ed offcine d’ogni specie.
Da esse si elevano il battere sonoro del martello sull’incudine, lo stridere monotono della sega, l’andare ritmico del telaio, e spesso il canto allegro e strano dei malati, che nella benefica attività del lavoro hanno ritrovata l’antica serenità dello spirito.
Non mancano le scuole, la chiesa, il teatro, ove i malati sono generalmente anche gli attori; e neppure manca in molti manicomi quella, che (purtroppo) non fa mai diletto in un villaggio che si rispetti, la sua brava banda.
Dall’Esposizione di Ancona si poteva facilmente constatare come tutti i manicomi espositori tendessero all’ideale di bastare, colla produzione di lavoro interno, a se stessi, e quanto a tale meta si avvicinassero, ma il profano non poteva neppure lontanamente intravedere quale fosse l’intima vita di quelle officine e colonie, e quanta pazienza e sapienza occorrano per tenere in freno quei bizzarri lavoratori.
Non narravano certo quelle povere calze esposte quante volte fossero volate per aria o sulla testa della infermiera in un impeto di eccessiva allegria o di ira della lavoratrice maniaca, come tacevano quei cuciti i sospiri e le lagrime che ad essi soli erano stati misteriosamente confidati da una taciturna e solitaria melanconica.
Non rivelavano le rozze scarpe che esse erano forse l’opera di un re e magari del padre eterno divenuto calzolaio per opera del medico; né l’osservatore superficiale, guardandole, si accorgeva di ciò che era realtà inconfutabile per il megalomanico artefice, che il corame cioè era di pelli tra le più preziose, lo spago di fili d’oro, i chiodi di costosissimi brillanti.
Il lavoro, pur coordinando le azioni del malato ad uno scopo utile, non sempre corregge la sua vita psichica disordinata, ed egli continua ad elaborare i suoi fantastici pensieri, infingendosi un mondo del tutto irreale, in strano contrasto col suo ordinato modo di agire.
Di tale stridente contraddizione ne ebbero un chiaro esempio quegli estranei che ci accompagnarono nella visita del bellissimo e nuovo manicomio di Ancona.
Un vecchio demente che è adibito ai lavori più umili e che ad essi attende con alacrità e costanza, ci accompagnava attraverso le sale ed i cortili, con mille strani discorsi, dei quali una cosa sola si riusciva a capire: che egli era il solo padrone del manicomio, e che Ancona doveva alla sua liberalità quel nuovo Istituto, opera altamente civile e degna di ogni lode.
Dott Giulio Obici