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Dietro queste immagini un dramma e un problema (1955)

Dietro queste immagini un dramma e un problema (1955)
  • Data di pubblicazione:
    24 Febbraio 1955
  • Titolo:
    Dietro queste immagini un dramma e un problema (1955)
  • Autore:
    Alfredo Pigna
  • Fotografo:
    Franco Orlandi
  • Testata giornalistica:
    SETTIMO GIORNO

Dietro queste immagini un dramma e un problema

Dietro queste immagini un dramma e un problema - Due ricoverate "pericolose" dell'ospedale Psichiatrico di Volterra inveiscono contro il fotografo. È questa la prima volta che vengono eseguite fotografie nell'interno del reparto.
Due ricoverate “pericolose” dell’ospedale Psichiatrico di Volterra inveiscono contro il fotografo. È questa la prima volta che vengono eseguite fotografie nell’interno del reparto.

Un fotografo e un giornalista nella fossa dei serpenti

Per la prima volta l’obiettivo. ha fissato il vero volto del manicomio di Volterra. Le istantanee che riproduciamo, oltre ad essere un impressionante documento umano, riportano d’attualità il progetto di riforma dell’onorevole Ceravolo, cui il nostro giornale darà tutto il suo appoggio.

DAI NOSTRI INVIATI ALFREDO PIGNA E FRANCO ORLANDI

VOLTERRA, febbraio

L’OSPEDALE Psichiatrico di Volterra si trova alla periferia della città, nel vallone che è dominato dall’antico Castello.

Il posto è bello, c’è molto verde sulle colline che sfumano tutt’intorno sull’orizzonte, e un gran silenzio.

Gli edifici sono una dozzina, a due piani, di un colore grigio chiaro.

Il Padiglione Verga, quello destinato ai “pericolosi” è al centro di questi edifici, ma ne rimane completamente isolato da una sorveglianza molto rigorosa.

È come un Lazzaretto e conduce vita quasi autonoma.

Tutti i ricoverati temono l’ingresso in questo reparto.

Da qualche anno, dopo il film, lo chiamano la “fossa dei serpenti” componenti del personale di sorveglianza preferiscono essere destinati ad altri reparti.

La vita, al Padiglione Verga, è piuttosto varia.

A periodi di una certa calma ne seguono altri di grande eccitazione.

Le condizioni atmosferiche influiscono molto sul sistema nervoso delle ammalate.

Noi, ad esempio, siamo stati accolti dalle ricoverate quasi benevolmente.

C’era un bel sole e il profumo della campagna arrivava fin là.

Alcune delle alienate ci hanno persino sorriso.

Gli insulti sono venuti dopo, quando il fotografo Orlandi, per un eccesso di confidenza, ha lasciato scogere troppo chiaramente la macchina, esibendosi in quelle contorsioni tipiche dei fotoreporters che vogliono cogliere inquadrature particolarmente suggestive.

C’è una cosa che colpisce subito chi entra nel cortiletto dove, tempo permettendo, s’intrattengono le ricoverate, ed è una fettuccia che penzola al polso di ognuna di esse.

Queste strisce di stoffa permettono alle sorveglianti di afferrare le ricoverate in qualsiasi momento.

È il distintivo delle “pericolose”: una specie di tragico guinzaglio.

Le ammalate odiano quella fettuccia più di ogni altra cosa e, appena possono, cercano di rosicchiarla coi denti e di gettarla via.

Con le sorveglianti fingono disinvoltura e nascondono il braccio dietro la schiena.

Questo significa che sono riuscite a liberarsene.

Ma dura poco.

I pazzi mettono pena, ma anche soggezione.

Difficilmente sono illogici, e quasi mai cattivi.

Eccetto che nelle crisi.

Ma anche in questo caso sono pericolosi più per se stessi che. per gli altri.

Quando insultano, lo fanno con raziocinio: « Ficcanasi, vagabondi, tornatevene a casa vostra a fotografare…».

Questo gridavano al nostro indirizzo; ed in fondo avevano ragione.

Qualcuno aggiungeva il gesto osceno o la frase scurrile.

Ma erano pochi, e lo facevano quasi senza convinzione.

Elettrochoc e terapia del lavoro

Le giornate, al Padiglione Verga, trascorrono assai lentamente.

Di tanto in tanto qualcuna delle malate viene prelevata per una applicazione di elettrochoc.

Essa viene condotta in un piccolo locale dove un paio di suore, aiutate da robuste infermiere, l’immobilizzano su un lettino.

L’applicazione viene eseguita con uno speciale apparecchio, a forma di ferro di cavallo, che viene avvicinato alla testa della paziente, in modo che le tempie si trovino imprigionate tra il polo negativo e il polo positivo.

La scarica di corrente, comunicandosi dalla morsa elettrica direttamente al cervello, costringe il soggetto a contrarre di scatto tutti gli arti.

Subito dopo le scosse si ha un breve arresto della respirazione.

Le braccia e le gambe sono irrigidite, poi lentamente la paziente cade in letargo.

La contrazione si allenta; al risveglio l’ammalata non ricorda nulla.

L’elettrochoc conta su un numero elevato di sostenitori, ma molti l’avversano.

A volte ha provocato risultati sorprendenti, altre volte pressoché negativi.

La terapia del lavoro si è invece dimostrata praticamente inutile per tipi di malate che il Padiglione Verga ospita.

Esse perciò trascorrono le loro giornate seguendo liberamente i propri istinti.

Le ipocondriache si isolano e, a pochi metri dalle altre, è come se non esistessero, magari accosciate sul pavimento, con la testa fra le ginocchia.

Altre formano dei gruppetti e cicalecciano ininterrottamente, per ore.

Altre litigano tra l’indifferenza generale.

Qualcuna passeggia meccanicamente, su e giù, con in viso l’espressione contratta di un interminabile sorriso.

Di tanto in tanto qualcuna viene colta da una crisi.

Nella foto grande, che pubblichiamo alle pagine 2 e 3 [non disponibili al momento N.d.R.], si nota al centro del cortiletto, distesa sul pavimento, una delle ammalate, colta da attacco epilettico.

Ma c’è un’atmosfera strana ch’è uguale in tutti i giorni, al Padiglione Verga.

Si indovina l’isterismo anche quando non è espresso in forme clamorose; si avverte un senso indistinto, ma vivo, di perenne agitazione.

Nei volti della maggior parte delle malate si legge l’espressione di una aperta rivolta per un’intollerabile ingiustizia.

Molte di esse sono convinte di essere vittime di oscure macchinazioni ordite ai loro danni.

E man mano esse si creano, indagando con se stesse, delle idee precise; meditando piani di vendette fantastiche, che talvolta confidano alle loro compagne o addirittura alle infermiere.

Non sono frequenti i casi di miglioramento o di guarigione, nel Padiglione Verga.

Giornate, ore interminabili, estenuanti per le infermiere che, fianco a fianco, non possono perdere un solo movimento delle loro sorvegliate.

Quello del personale sanitario, e di sorveglianza, è un duro lavoro, pieno di rischi, che tuttavia potrebbe essere reso più agevole solo che l’auspicata riforma sulla legislazione psichiatrica (il cui disegno di legge proposto dall’on. Mario Ceravolo è stato illustrato nel n. 7 del 17 febbraio scorso dal nostro giornale), giungesse finalmente in porto.

Gli infermieri sono pochi, mal pagati e, non certo per colpa loro, non abbastanza attrezzati psicologicamente per compiere in modo adeguato la loro difficile missione.

Il sistema che viene seguito per la scelta del personale di sorveglianza presta il fianco a molte e fondate critiche.

E tuttavia è l’unico che, perdurando l’attuale situazione, possa essere seguito.

Questo criterio di cernita degli infermieri destinati alle case di cura è improntato soprattutto al principio della forza fisica, caratteristica che dovrebbe invece costituire solo un elemento, e non il più importante, per la delicata scelta.

Gli infermieri (e infermiere) sono dunque dotati di bicipiti rispettabili, sono regolarmente diplomati e devono superare anche un corso di perfezionamento.

Questi corsi di specializzazione sono molto brevi ed estremamente sommari.

In un certo senso ricordano lo studio del greco nel liceo.

È un po’ come se si pretendesse, conseguito il diploma liceale, di andare in Grecia, parlare la lingua ed esercitare un mestiere.

L’incubo degli infermieri

Molti infermieri, i più solerti, conoscono indubbiamente una serie piuttosto complessa di teorie, sanno anche che qualsiasi individuo, in qualsiasi momento, può varcare la triste “soglia di Lombroso” e penetrare nel mondo assurdo che vive la sua vita nella fossa dei serpenti; molti di essi, specie se guidati da buoni maestri (ne abbiamo parecchi in Italia) si propongono di mettere in atto quelle teorie che hanno appreso piuttosto sommariamente.

Ma in definitiva ogni buon proponimento viene cancellato dalla tragica realtà dei molti Padiglioni Verga.

Una realtà semplice, che si chiama paura.

Gli infermieri che per la prima volta mettono piede in una casa di cura hanno una sola preoccupazione, fondata e ragionevole: aver paura dei pazzi.

Questo avviene perché, di solito, loro non conoscono i pazzi se non per sentito dire.

Ma avviene anche perché due infermieri, soli, in una camerata o in un cortile, insieme ad una ventina di pazzi, hanno tutto il diritto di aver paura.

Una delle teorie da applicarsi in un manicomio, e che viene illustrata agli infermieri durante il corso, sarebbe quella di conoscere singolarmente i malati, diventare il loro amico, scrutare nel loro animo e riferire allo psichiatra.

E uno dei metodi più antichi ed è certo il più efficace.

Il pazzo è un uomo, e va considerato come tale; non quale facente parte di un gregge indocile.

È un uomo che un giorno ha varcato la “soglia di Lombroso” per una precisa ragione.

Ed è questa ragione che bisogna individuare, perché solo partendo da essa si può arrivare alla guarigione o comunque iniziare una cura razionale.

Questo è il compito dello psichiatra, il quale però nulla o poco può ottenere senza l’aiuto degli infermieri, di coloro cioè che trascorrono ogni ora del giorno in compagnia dei pazienti.

Questa collaborazione teoricamente validissima, di solito non si verifica.

Gli infermieri vivono si, tra i pazzi, giorno e notte, sempre a contatto di gomito; ma sono in due o tre a sorvegliarne venti, trenta.

Dopo i primi scrupoli, dopo alcuni infruttuosi tentativi avviene che gli infermieri, anche quelli dotati di maggiore buona volontà, si decidono a vincere la paura terrorizzando i pazzi con la loro forza fisica.

È la loro unica difesa.

Diventano gli involontari carcerieri, e spesso sono odiatissimi.

Gli episodi di violenza sono numerosi, ma quei pochi che raggiungono la notorietà ci danno la misura di questa lotta sorda e disperata che nasce tra gente la quale non ha in realtà alcuna ragione per odiarsi.

Un pazzo, nel Manicomio di Mombello, uccise due infermieri roteando una clava.

L’episodio è notissimo: il malato, poi, morì lui pure mentre era immobilizzato nella camicia di forza.

Fu aperta un’inchiesta.

Servì solo per accertare che il pazzo uccise i due perché li odiava: un odio ragionato, freddo, determinato dal comportamento dei due poveri infermieri, i quali, costretti a tenerlo a bada e preoccupati dalla sua enorme forza fisica, non avevano saputo trovare altro rimedio che. quello di opprimerlo con la “loro” forza fisica.

Una sfida tragica, conclusasi tragicamente, lo stato d’animo che più di frequente si determina in alcuni settori delle case di cura.

Un’impalcatura decrepita

È giusto precisare a questo punto che gli attuali direttori, i medici e tutto il personale, preso nel suo complesso, tutti coloro insomma che attualmente operano negli Ospedali Psichiatrici italiani, meritano il più vivo elogio per i risultati che riescono a conseguire malgrado la scarsità delle attrezzature e le disagiate condizioni cui solo parzialmente abbiamo potuto accennare.

È infatti, come sostiene l’on. Ceravolo, la struttura stessa di questa colossale ma decrepita impalcatura che scricchiola e minaccia di franare.

Non bastano gli sforzi di un professor Saporito che in tanti anni di oscuro lavoro e di lotte continue riuscì ad ottenere rinnovamento di locali e strappare qualche acro di terra al comune di Aversa; non bastano gli sforzi del suo successore professor Amati, e neppure lo spirito di abnegazione e la grande volontà di cui
danno giornalmente prova il professor Sarteschi, direttore dell’Istituto di Volterra, e i suoi collaboratori.

Magre consolazioni queste, che porterebbero alla solita sperimentata conclusione di tutti quei servizi giornalistici che trattano problemi di portata più o meno vasta.

È il cliché abituale: l’augurio che finalmente qualcosa si compia per sanare la “grande piaga”.

E, dall’altra parte, molto spesso, si adotta per la circostanza un altro cliché, quello su cui sono incise le promesse che «tutto verrà tentato e che una seria inchiesta è stata aperta dalle competenti autorità».

Ciò avviene ormai da mezzo secolo — in questo campo — perché sono ormai cinquant’anni che la situazione dei nostri manicomi (almeno da un punto di vista legislativo e di regolamentazione interna) è sempre la medesima.

In tre anni, per la seconda volta, l’on. Mario Ceravolo, un medico chirurgo calabrese, ha sottoscritto il disegno di legge che dovrebbe condurre alla totale riforma della legislazione psichiatrica.

È una voce debole quella dell’on. Ceravolo, che certo avrebbe meritato una eco più consistente.

È a lui che dedichiamo le tristi immagini che la Rolley [Rollei N.d.R.] del nostro fotoreporter è riuscita a scattare nel Padiglione Verga di Volterra; e l’augurio è che queste drammatiche sequenze, che nessun regista avrebbe potuto rendere più vive, possa portare un piccolo contributo alla sua causa.

Alfredo Pigna

L’articolo originale del 1955: Dietro queste immagini un dramma e un problema

Dietro queste immagini un dramma e un problema (1955)