Sul nido del cuculo (1976)
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Data di pubblicazione:3 Novembre 1976
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Titolo:Sul nido del cuculo (1976)
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Autore:Francesco Madera
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Testata giornalistica:EPOCA
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Tag:Centro Sociale, Clara Calamai, Danimarca, Eugenio Barba, Francesco Madera, Holstebrö, Infermieri, Jerzy Grotowski, La fossa dei serpenti, Libro delle danze, Mauro Galligani, Norvegia, Odin Teatret, Odino, Pazienti, San Girolamo, Tage Larsen, Teatro, teatro dentro l'ospedale, Tom Fjordefolk, Torgeir Wethal, Villa Mazzanta, Villa Rosselmini, zonizzazione
Sul nido del cuculo
Gli attori dell’Odin Teatret recitano fra i ricoverati dell’ospedale psichiatrico di Volterra.
Inviato Francesco Madera – Foto di Mauro Galligani
Lo spettacolo comincia tra i reparti dei malati
Nelle foto: gli attori dell’Odin Teatret fanno il loro ingresso nell’ospedale psichiatrico di Volterra.
Lo spettacolo, ideato dal regista Eugenio Barba e intitolato «Libro delle danze», comincia sulla strada e nei giardini, attraversa i reparti, infermieri e ricoverati si accodano.
È un’esplosiva antologia di canti, pantomime e giochi acrobatici, con lontane radici nella più pura tradizione della commedia dell’arte.
E nel gran finale cantano e ballano tutti insieme
«E adesso tocca a voi», con queste parole di Barba gli attori dell’Odin invitano i ricoverati
a invadere a invadere il sagrato.
Il teatro di Barba, basato essenzialmente su azioni mimiche, vuole coinvolgere il pubblico fino alla partecipazione totale, arrivando ad annullare ogni distinzione tra attori e spettatori.
È quello che il regista chiama il teatro del «baratto».
Sul nido del cuculo
Volterra. ottobre 1976
A l’inizio, piove.
Proprio quando tutto sta per cominciare, si mette a piovere.
Sembra una banale nota di cronaca, ma stavolta non è così.
All’ingresso dell’ospedale psichiatrico di Volterra, dove il viale accentua la discesa, su due pullmini Volvo e Ford, gli attori scandinavi dell’Odin Teatret si stanno preparando all’incontro coi malati.
Non deve piovere.
Loro non sono attori da palcoscenico al chiuso.
Per loro il teatro è una cosa che va per le strade, all’aperto.
Che va in mezzo alla gente, dentro la gente mentre vive e parla e cammina.
Non deve piovere.
Lassù, dove si vedono le mura antiche e la fortezza della città, il cielo è strappato.
Una speranza c’è.
Eugenio Barba, regista e inventore dell’Odin Teatret, pugliese d’emigrazione, sorride.
Ha un sorriso paziente, largo, chiaro. Insospettato. Capelli lunghi e crespi a ruota.
Un eskimo a giacca, pantaloni di velluto scuro che ballano a tubo stretto sulla caviglia, calze di righe sottili marroni e lilla in alti zoccoloni neri.
In mano un piccolo flauto di legno.
Dà qualche consiglio.
Gesti brevi.
Aiuta due attori che stanno allacciandosi i trampoli.
Fa un certo contrasto questo uomo del sud vicino ai lunghi e biondi profili dei suoi attori scandinavi.
Gli chiedo se lassù, in Norvegia e in Danimarca, ha mai avuto problemi come immigrato prima di arrivare dove è arrivato.
Piega la testa, riflette un attimo, spegne la sigaretta sotto gli zoccoli: « No. Non ho mai avuto problemi. Sono paesi abbastanza liberali, aperti ».
E sorride di nuovo.
Non gli sembra d’esser stato particolarmente sfortunato.
Anche se di fatica ne ha fatta.
È partito vent’anni fa da Lecce con la licenza liceale e basta.
A Oslo è stato cameriere, meccanico, scaricatore di porto, marinaio su un cargo norvegese.
Nomade sempre, quando poteva frequentava l’università (si laureerà in norvegese, francese, e religioni comparate), finché una sera gli capita d’assistere a uno spettacolo del polacco Jerzy Grotowski, teorico e apostolo di un teatro povero e nuovo.
Lo segue in Polonia, ci resta tre anni, poi va in India.
Nel ’64 torna in Norvegia, raccoglie dietro la porta dell’Accademia di Oslo un gruppo di aspiranti attori bocciati, e il primo ottobre fonda l’Odin Teatret.
« Eravamo un gruppo di undici persone. Dopo due settimane siamo rimasti in cinque, e dopo un’altra settimana in quattro. Un anno di lavoro e nel ’65 avevamo pronto il primo spettacolo, Ornitofilene».
Da Volterra scende gente, e anche un autobus carico di bambini.
Non piove più.
Al centro del viale Tom Fjordefolk e Tage Larsen, i due attori coi trampoIi, duettano su violino e chitarra canzoni western.
S’inchinano ai primi spettatori, e suonando s’avviano verso i reparti.
Dai giardini alti, sulla destra, batte improvviso il tamburo di una piccola attrice in bianco abito da ninfa, fra le siepi e sull’erba a piedi nudi.
Sulla sinistra, oltre la rete, in un sentiero che passa fra gli orti e gli scavi di un cantiere, risponde il canto urlato di un attore che agita una grande bandiera blu e rossa a frange gialle.
Sullo stretto muro di mattoni a trafori romboidali passeggiano due giocolieri in vecchi frac con farfalla sparato e gilè, tenendosi per mano, danzando in fragili equilibri.
Davanti a tutti, piegato sulle ginocchia nelle vesti di un nano, l’attore che annuncia scampanellando il passaggio del corteo.
Lo spettacolo s’intitola Libro delle danze.
Ma non è uno spettacolo come s’intende di solito, mi dice Barba
«Noi usiamo il teatro, oltre il teatro. Vogliamo far scoppiare il teatro»
E questo teatro scoppia davvero.
Adesso il trampoliere in abito nero, quello col violino, scompare e ricompare in alto sulla terrazza del Centro sociale.
Sventola i lunghi trampoli in un balletto vertiginoso, da corvo impazzito, al limite della balaustra.
Agita il violino e la bacchetta, poi riprende a suonare e duetta, stavolta, col clarino di un abilissimo anziano paziente dell’ospedale.
Un altro attore volteggia appeso al gancio di una gru.
« Dottore, i matti sono loro », dice una ragazza paffuta e felice rivolgendosi a Mimmo Pellicanò [Carmelo Pellicanò N.D.R.], il direttore sanitario dello psichiatrico di Volterra.
Passando accanto ai reparti altri malati e infermieri si accodano.
Il viale principale è un grande fiume di teste, un muoversi ad onde intorno agli attori che improvvisano e coinvolgono i più vicini in uno sfrenato arabesco di gesti, di canti, di voci. di danze.
“Abbattere le celle per sconfiggere la paura”
« Lo spazio non esiste più.
Vedi, non ci sono limiti, barriere, impossibilità.
Questo è importante.
Abbattere il vecchio spazio, uscire dalla costrizione, dalla paura, dall’isolamento. »
Pellicanò mi. cammina a fianco e cerca di spiegarmi, di farmi capire non solo quello che sta succedendo sul viale sulla terrazza, nei giardini, sull’erba, lungo i muri.
Fuori, insomma.
Qualcosa in quel momento sta succedendo anche dentro, dentro alla gente, la « sua » gente.
Vorrebbe aggiungere altro, raccontarmi di più, ma non è possibile, l’onda ci separa.
Qualcuno che ne ha certo più diritto di me chiama la sua attenzione, la sua compagnia.
Mi lascia due fascicoli di « cronache giornalistiche »
«Qua dentro c’è tutto», mi dice.
Sono due raccolte di articoli che descrivono le ultime iniziative dell’ospedale psichiatrico di Volterra, da quando è diventato un ospedale «aperto» come quelli di Trieste, di Gorizia, Ferrara, di Perugia.
E dove si scopre, attraverso le testimonianze di alcuni pazienti, anche il rovescio della medaglia:
cos’era l’ospedale di Volterra una volta, e neppure tanto tempo fa, fino al 1974.
Un lager.
Con le celle, i letti di contenzione, le camicie di forza, corsie lugubri che sapevano di muffa i di sterco.
E la « fossa dei serpenti »: un cortile completamente chiuso da muri di cemento, con pavimento di cemento, con panchine di cemento fissate al suolo, dove i malati camminando in cerchio uno dietro l’altro subivano un’allucinante « terapia », e mancava poco che anche gli infermieri di guardia si mettessero a girare con loro.
E tutto questo a due passi da una città che è un riassunto di storia dell’arte, che ha il museo etrusco più ricco d’Italia, e dove in famiglia si coltiva basilico, prezzemolo e gerani in autentici vasi del V secolo.
Negli anni cinquanta, a Volterra, i sepolti vivi dello psichiatrico erano più di 4 mila, oggi sono circa 850, solo 24 sono nati dopo il ’50 e nessuno dopo il ’60.
Il sogno di Pellicanò e dei suoi collaboratori è di riuscire a dimettere tutti.
Un lavoro lungo difficile, forse impossibile, certamente pieno di ostacoli e di incomprensioni.
La strada, comunque, sembra quella giusta.
Scomparse tutte le sbarre e i cancelli, abolite le vecchie distinzioni (violenti, suicidi, tranquilli), la nuova base di lavoro è diventato il territorio.
I reparti sono stati «zonizzati», si dice in termine tecnico, e ognuno corrisponde alla zona d’origine dei ricoverati.
Si riforma così un embrione di comunità, si mantengono contatti con le organizzazioni sanitarie, sociali e politiche dei paesi di provenienza.
E soprattutto ci si riportano i malati a far le vacanze.
Già quest’estate l’esperimento s’è potuto realizzare positivamente per due « zone »: in luglio a Villa la Mazzanta (comprata per 120 milioni, un tempo proprietà dell’attrice Clara Calamai) nei pressi di Rosignano; in settembre a Villa Rosselmini, vicino Cascina.
Adesso il viale riprende a salire e piega verso destra, in un ampio spiazzo dietro la chiesa di San Girolamo.
Suonano a festa grande anche le campane.
L’antica commedia dell’arte nella fossa dei serpenti
Nella breve sosta gli attori sui trampoli giocano a rincorrersi tra gli alberi.
Poi, uno alla volta, si passa nello stretto varco del muro che circonda la chiesa, e tutti in cerchio ci si dispone sull’erba del sagrato.
A uscire si decide anche il sole, con una luce da tramonto che ha trasparenze rosa d’alabastro.
La festa è completa.
Gli attori si siedono su piccole casse ridipinte e a turno si lanciano in mezzo al cerchio con danze di un’esplosione fisica totale e liberatoria: l’ultima è quella di Torgeir Wethal, che entra in scena con il volto coperto da una maschera e se ne libera soltanto alla fine nella contorsione e nel gemito di una nuova nascita.
La maschera è quella di Odino, il dio della guerra, il grande guerriero infuriato da cui prende nome la compagnia di Barba, l’anima irrazionale e selvaggia che vive nel profondo di ognuno, che va riconosciuta e sconfitta.
« Noi abbiamo finito », dice Barba, « adesso tocca a voi. »
Secondo la tecnica del baratto, inventata dal regista italiano, gli incontri teatrali dell’Odin Teatret non devono avere distinzioni fra attori e spettatori, tutti devono essere insieme attori e spettatori in un completo rapporto di parità e di scambio.
La proposta piace.
C’è un’orchestra già pronta, con fisarmonica e clarino
alla guida.
Le «voci» si mettono in fila.
Valzer, tanghi e mazurche.
Qualche attimo di perplessità e d’incertezza, ma poi il cerchio scompare.
Ballano tutti o quasi.
Barba osserva e sorride, e batte il tempo col piede.
A giorni tornerà in Danimarca, a Holstebrö, nella stalla riassestata dove il governo danese ospita la sua compagnia dal 66, dopo i primi successi ottenuti in Norvegia.
Volterra è stata l’ultima tappa del suo giro di Toscana, per «luoghi non teatrali», come ama dire, della Garfagnana e della zona di Arezzo.
Mai su un palcoscenico.
Per strade e piazze dove proporre il baratto.
Come già l’anno scorso nella sua Puglia e in Sardegna alla ricerca di un polo opposto a quello scandinavo.
Tornerà in Italia a novembre, e verrà a Milano.
Sta mettendo a punto un nuovo spettacolo da scambiare, che in inglese s’intitola Come, and the day will be ours (Vieni, e il giorno sarà nostro).
Lassù, nella stalla di Holstebrö, continuerà le prove fino all’ossessione.
La perfezione tecnica e la completa padronanza del corpo da parte degli attori sono il suo mito.
La lezione della commedia dell’arte è la sua bibbia.
«L’attore della commedia dell’arte aveva una totale padronanza del suo corpo e delle sue espressioni: pantomima e danza, destrezza d’acrobata e di giocoliere.
Anche le improvvisazioni non crano mai il risultato di facili ispirazioni, ma di anni e anni di allenamenti e di studi.
Ogni esplosione visionaria deve essere controllata.
Per essere rivoluzionari bisogna saper maneggiare le proprie armi.
I dilettanti non mutano il corso della storia».
Così ha scritto in un saggio sulla rivista TTT (Teoria e tecnica del teatro).
E forse per questo l’hanno voluto a Volterra, perché qualcuno scendesse a combattere con le armi giuste nella fossa dei serpenti.
Francesco Madera