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Due ragazze nel convento di San Girolamo (1976)

Due ragazze nel convento di San Girolamo
  • Data di pubblicazione:
    1 Aprile 1976
  • Titolo:
    Due ragazze nel convento di San Girolamo (1976)
  • Autore:
    Carolina Bertini
  • Testata giornalistica:
    Volterra

Due ragazze nel convento di San Girolamo

Tutte le volte in cui sento parlare — ed è cosa assai frequente in questi tempi — di clero che deve modernizzarsi, che deve lasciare quella rigida mentalità tradizionale, che deve avvicinarsi con minor formalismo e più comprensione ai laici, non posso far a meno di ricordare alcuni frati che più di venti anni fa proprio a questo spirito avevano improntato la loro vita.

Eravamo nel 1944.

Ad accrescere le sofferenze della guerra, la politica della «razza» infuriava in tutta la sua crudeltà.

Come tante altre, anche la nostra famiglia viveva nell’angoscia, perché la mamma, già da tempo convertita alla religione cattolica, era di discendenza ebraica.

Non sapevamo che fare, dove nasconderla, come salvarla: il campo di concentramento in Germania ci stava sempre davanti in tutto il suo orrore.

Dopo mille difficoltà, gravissimi rischi nostri e di chi ci dava il suo aiuto proprio mentre la nostra casa di campagna, in cui allora vivevamo, veniva occupata dalle S.S. tedesche, noi riuscimmo di notte a fuggire a Volterra e a far tornare la Mamma nel manicomio quella città.

Il Babbo, anch’egli ricercato, trovò rifugio in un monastero di frati lì presso e mia sorella ed io fummo ospitate dalle Suore dello stesso Ospedale Psichiatrico.

Ma dopo pochi giorni, sempre per la questione razziale, noi due ragazze fummo costrette a lasciare il convento delle Suore all’improvviso.

Così una sera, mentre già si udiva il rombo del cannone — Pomarance e Larderello stavano ormai per cadere in mano agli americani — noi ci trovammo sole per la strada, senza saper dove andare.

Eravamo due ragazze vissute sempre in famiglia, abituate ad aver in tutto la guida dei genitori e trovarci così sole in quei momenti spaventosi, senza aver un luogo dove rifugiarci almeno per quella notte, ci detto un senso orribile di sgomento.

Fu proprio allora, quando più ci sentivamo perdute, che il Signore ci soccorse in un modo insperato e impensabile, offrendoci il Suo aiuto attraverso le anime vibranti di bontà di tre fratelli.

Erano costoro i religiosi che ospitavano nel loro convento il nostro Babbo che già avevano dimostrato nei suoi riguardi quant’era grande il loro cuore.

Quando ci videro spaventate ed affrante — noi eravamo corse dal Babbo a chiedere aiuto, colla cieca fiducia dei figli nel padre, pur sapendo che egli, ricercato, nascosto, nulla avrebbe potuto fare per noi — con una semplicità veramente degna di S. Francesco ci aprirono la porta del convento: «Sono momenti eccezionali e prendiamo misure eccezionali».

La regola vietava di accogliere nel convento le donne e noi eravamo due giovani, ma che importava?

Al di sopra della regola c’era una legge più grande e più importante: soccorrere gli oppressi, aiutare chi soffre, a questa legge, prima che di ogni altra, obbedirono quei frati.

Furono portate altre due reti nella grande camera sul chiostro che già era occupata dal Babbo e in quella stanza o nel chiostro o in chiesa passammo, da allora, tutte le nostre giornate.

I frati erano tre: Padre Fausto, priore del convento, Padre Anastasio e Padre Nazario.

Non ho mai conosciuto persone che, come loro, avessero letteralmente trasformato la loro vita in carità.

Padre Fausto, era anche parroco della parrocchia di San Girolamo, dedicava tutto il suo tempo e le sue energie a portare soccorsi spirituali e spesso anche materiali alle anime a lui affidate: e senza conoscere stanchezza né timori girava per l’intera giornata, passando da un casolare all’altro, sempre sorridente, sempre sereno.

Padre Anastasio e Padre Nazario, invece, raramente lasciavano il convento.

Padre Nazario, il più giovane non so con precisione quale mansione avesse; poi non lo incontravamo quasi mai; quello che più stava con noi era Padre Atanasio.

Per quanto gia in eta avanzata, egli svolgeva tutto il lavoro materiale della casa: lo vedevo spesso tirare su l’acqua dal pozzo o, in ginocchioni per terra, lavare il pavimento del corridoio che correva intorno al chiostro.

Forse proprio per questo suo continuo faticare — che diveniva per lui una preghiera — egli non apprezzava la «vana scienza mondana» e soprattutto non poteva tollerare l’inattività fisica: vedendomi dalla mattina alla sera seduta nel chiostro con un libro in mano, mi rivolgeva sempre la parola con aria burbera, toccandomi nel punto mio più sensibile: «E Lei vuole sposare! Ma che moglie, che mamma sarà mai una come Lei che non sa far altro che leggere!» e mi mortificava con domande alle quali la mia assoluta inesperienza casalinga d’allora non sapeva trovar una risposta: «Come si puliscono i vetri? Come si fa un buon bucato?» per concludere quasi sempre con tono severo: «Chiuda quel libro! Vada piuttosto in chiesa a pregare: farà qualche cosa di molto più utile!»

Ma sotto quell’apparenza scontrosa che cuore d’oro!

Ce ne accorgemmo durante i momenti della battaglia, quei nove terribili giorni in cui gli Americani senza
soste, bombardarono la città.

I frati dimenticarono completamente se stessi, per darsi tutti agli altri, per soccorrere, aiutare e confortare.

La loro stalla, la loro cantina, tutto il convento costruzione antica dalle larghe mura, furono trasformati in rifugio e vi furono ospitate tante persone.

Accadevano, talora, quando la battaglia infuriava più aspra e sembrava impossibile poter uscire vivi da quel tormento, da quell’angoscia, delle scene di disperazione: e sempre c’era un frate che si avvicinava a chi soffriva di più, che confortava, rasserenava e ridava speranza.

Una mattina io assistevo alla Messa di Padre Atanasio: in chiesa non c’era nessuno ed io stavo lì, sperando che la Messa finisse presto, per poter ritornare nel rifugio, tutta impaurita per i fischi e gli scoppi delle bombe, cercando di capire dal rumore se in quel momento le cannonate erano in arrivo, e quindi c’era imminente pericolo, o se i colpi erano dovuti a cannonate che partivano da una postazione tedesca vicina a noi.

Ricordo che ad uno scoppio più forte degli altri, Padre Atanasio si girò verso di me: «Non abbia paura, è in partenza» mi disse e continuò tranquillo la sua Messa.

Certamente al Signore non sarà dispiaciuta quell’interruzione nella celebrazione perché era anch’essa una delle tante manifestazioni dello spirito di carità che animava quei frati, così nelle piccole che nelle cose grandi.

Ogni sera nel nostro rifugio improvvisato veniva Padre Fausto: noi lo accoglievamo in ginocchio ed egli ci dava la benedizione prima del riposo notturno: «Se questa notte sarete in pericolo di morte, dite: – Gesù mio, misericordia – e sarete assolti» e aggiungeva sempre una parola di conforto e un sorriso.

Certo che dopo la sua visita, un po’ della luce che aveva in sé rimaneva nell’animo nostro e ci sentivamo più forti più pronti ad affrontare altre ore di sofferenza.

Ma anche nei momenti più dolorosi c’era sempre in noi un senso di pace: pace interiore in contrasto con la guerra e con l’odio che infuriavano fuori: e ci era data, questa pace, proprio dai frati che dimostravano col loro esempio come fosse possibile e come fosse bello vivere veramente in cristianesimo.

Poi passò il fronte e con esso passò il pericolo di finire in un campo di sterminio.

Noi colla nostra Mamma, nella gioia della famiglia riunita, facemmo ritorno a casa.

Tornò il mio fidanzato dalla guerra, ci sposammo, andammo ad abitare nell’Italia Meridionale, nacque la nostra bambina…

Soltanto parecchi anni dopo, trovandomi di nuovo in Toscana mi prese il desiderio di rivedere i buoni frati e ritornai a Volterra.

Ma non trovai più nessuno.

Padre Nazario era stato trasferito in un altro convento, in una altra città. Padre Fausto e Padre Atanasio erano morti.

Ma se anche ormai non posso più parlare con loro, né ringraziarli per quella bontà che significò per noi la salvezza, io voglio esprimere ugualmente la mia riconoscenza dando questa testimonianza vissuta della loro carità, del loro cristianesimo vero e non formale per cui «omnia munda mundis».

E forse dal Paradiso ora sorrideranno per il mio racconto e Padre Atanasio borbotterà: «Anche ora che è sposa, che è mamma, sempre con quella sua mania di leggere e scrivere!» ma non avrà più la sua aria severa e, per questa volta, mi perdonerà.

Carolina Bertini


Due ragazze nel convento di San Girolamo (articolo originale)

Due ragazze nel convento di San Girolamo (1976)