La sifilide terziaria
La sifilide in Italia
La neuro sifilide o sifilide terziaria rappresentava, nelle sue forme più debilitanti, sottoforma di tabe dorsale o peggio di paralisi progressiva (meglio nota come GPI), una condizione di degenerazione neuropsichiatrica progressiva, comportando sviluppo di allucinazioni, deliri, afasia e forme di paralisi che portavano a morte in un arco di tempo variabile tra i 5 e i 10 anni.
Rappresentando la sifilide, una delle malattie infettive più presenti in terra europea, parallelamente alla tubercolosi e alla malaria, era sicuramente un problema epidemiologico non di poco che riguardava decine se non centinaia di migliaia di persone in territorio italiano.
Non esistevano cure definitive fino all’avvenire dell’antibiotico e delle penicilline, la cui diffusione va inquadrata in Italia e in Europa in un periodo variabile tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la metà degli anni 50’. Anche la malaria era un problema sociale, specie nelle zone del centro e del sud Italia, dove la sua diffusione era tale che la popolazione preferiva subirne passivamente i sintomi, come si trattasse di qualcosa di ineluttabile perché presente da secoli nel territorio, piuttosto che sottoporsi alle campagne di profilassi con chinino, che di volta in volta venivano stanziate dai vari governi d’Italia prima e fascista dopo.
L’introduzione della malarioterapia nella pratica clinica
L’utilizzo della malarioterapia andava in concomitanza all’idea in psichiatria, proveniente da una vecchia teoria ippocratica e galenica, che, parimenti ad altri disturbi, lo sviluppo della febbre di fronte alla presenza di deliri, allucinazioni, afasia e paralisi, potesse contribuire a migliorare il quadro clinico e i sintomi. Così da un’idea dello psichiatra austro-tedesco Wagner-Jauregg, si iniziò a trattare la sifilide terziaria attraverso agenti patogeni, con la speranza di indurre nei pazienti uno stato febbrile a scopo curativo. Jauregg non partì subito dalla malaria: inizialmente tentò di utilizzare l’erisipela e la tubercolina per indurre la tubercolosi. Se nel primo caso non si sviluppava la febbre, l’utilizzo della tubercolina venne screditato dalla comunità medica, non esistendo cure in grado di poter agire sull’infezione artificialmente indotta.
Ecco perché la scelta ricadde sulla malaria: era una infezione che non solo, come la TBC, era ampiamente presente e se ne conosceva l’eziopatogenesi e l’agente patogeno, ma di quest’ultima avevamo anche una possibile cura, sicura e utilizzata da anni, il chinino. L’occasione per Jauregg di praticare questa sua teoria arrivò nel 1917, quando la testò su alcuni soldati feriti erroneamente capitati nella clinica psichiatrica dell’ospedale di Vienna. Da lì venne testata su 200 casi nel 1922, i risultati furono in realtà sorprendenti: della totalità, circa 50 erano riusciti a guarire, riprendendo le attività quotidiane, mentre altri ancora ebbero una parziale remissione o una frenata dei sintomi. Per dar lustro alla propria scoperta lo psichiatra austro-tedesco decise di pubblicare un articolo in una rivista americana in inglese. Considerando il peso epidemiologico prima menzionato, quella di Wagner Jauregg fu una epocale svolta nella gestione della sifilide.
La pratica si propagò rapidamente in tutto il mondo occidentale con un tasso di successo che la rese il trattamento standard per la paralisi progressiva e che portarono allo psichiatra tedesco la possibilità di ottenere il premio Nobel per la medicina nel 1927. L’uso della malarioterapia andò avanti fino all’avvenire delle penicilline nella maggior parte dei paesi occidentali, ma per alcuni continuò fino addirittura ad inizio anni 80’.
Modalità d’uso e somministrazione della malarioterapia secondo Jauregg
La scelta ricadeva in pazienti che erano nelle forme precoci di paralisi progressiva, che fossero in buona salute e robusti, in modo da poter rispondere efficacemente all’infezione indotta e resistere ai sintomi provenienti dal plasmodio della malaria. In primo luogo la scelta del plasmodio era ricaduta sul parassita più sensibile al chinino e “benigno” dei tre conosciuti all’epoca causanti malaria, il plasmodium vivax. Avveniva poi un monitoraggio contino sia della quantità di parassiti del sangue che dei parametri clinici (temperatura corporea, segni clinici peculiari di infezione di gravità elevata) e a seguito di questi si procedeva subito ad un utilizzo di chinino allo scopo di eradicare il plasmodio. Quello che si inoculava non era il semplice plasmodio ma sangue infetto da plasmodio, di solito per via intramuscolare o sottocutanea, proveniente da altri affetti da paralisi e trattati con malarioterapia, questo da un lato comportava il trasferimento di una certa presenza di anticorpi-antiplasmodio, ma dall’altra la possibilità che il ricevente potesse ricevere ulteriori infezioni indesiderate provenienti dal donatore.
Avere, a cavallo tra gli anni 20’ e 40’, un’area di allevamento dedicata alla crescita e riproduzione delle zanzare Anopheles in un’ala del manicomio ne esaltava l’importanza a livello nazionale e internazionale, mostrandosi come una struttura all’avanguardia e al passo con le teorie scientifiche più recenti. Il ruolo in termini di ricerca della malarioterapia era in effetti duplice: da un lato permetteva di studiarne gli effetti terapeutici sui casi di paralisi da neuro sifilide, dall’altra richiamava nella struttura malariologi e parassitologi specializzati interessati a studiare il ciclo di vita della zanzara, il decorso clinico dell’infezione da malaria negli infettati e avviare degli studi immunologici su cui poter ricostruire l’interazione tra parassita e sistema immunitario.