Mi manchi Charcot (2023)
“Mi manchi Charcot” di Gianni Calastri
Charcot come stai? Sei sempre in piedi?
Percorro quel tratto di strada dal cancello di accesso al Padiglione Charcot, come sempre, in silenzio, intabarrato nel mio cappotto nero d’inverno o in maniche di camicia d’estate. La vegetazione rigogliosa ricopre tutto, l’edera ingloba i muri, schiocchi di merli, finestre che sbattono, rumori sinistri di rami che scricchiolano e quegli occhi che percepisci nel folto della vegetazione, ti spiano per capire quali siano le intenzioni di questo viaggiatore.
Le prime volte quei passi erano più circospetti, ogni minimo rumore attirava la mia attenzione, poi piano piano, nel corso degli anni, tutto è diventato più familiare. Dal 2017 al 2022 ho percorso quel tratto di strada decine di volte, sotto la pioggia, una volta anche sotto la neve, sotto il sole d’estate con il canto delle cicale che mi accompagnava. Ogni volta l’approdo era lo stesso, la Sala Aranci del Padiglione Charcot, un immenso salone vuoto in balia del vento, con un piccolo leggio in un angolo ad attendermi.
Esploro lo spazio, cammino in cerchio, a zig zag, faccio uscire la voce, parlo, canto, la faccio rimbalzare sui grandi murales che troneggiano nella parete di piastrelle celestine, continuo a camminare, incessantemente, e poi silenzio, ascolto ciò che mi restituisce quel luogo, così denso di presenze lontane nel tempo ma ben presenti in quel luogo gelido. Ascolto quello che viene da fuori, spio dalle inferriate, i grandi alberi ricordano tutto.
Metto le LETTERE sul leggio ed aspetto.
Dalle inferriate scorgo il primo gruppo di persone che si avvicina, chiacchierano, ridono, qualcuno più silenzioso cerca di connettersi con quel luogo, fotografano tutto, migliaia di fotografie. Entrano dentro la sala, il posto stimola la loro voglia di continuare a catturare immagini: i murales, una stringa, una scarpa, i festoni del passato appesi al muro. Sono travolto dalle loro fotografie e dalla morbosità dei loro atteggiamenti.
In un angolo li attendo, chiedo di avvicinarsi, sono intorno a me, qualcuno noncurante continua a cercare reperti da fotografare. Adesso li sento, li vedo, è il momento giusto. Le LETTERE prendono vita, quelle voci imprigionate dentro quelle mura per troppo tempo, si liberano, investono tutti quanti. Una, due, tre, vedo i loro volti cambiare, gli occhi si inumidiscono, un sorriso a sottolineare i passaggi più folli. Quelle lettere mai spedite, trovano finalmente qualcuno che le accolga.
Adesso tutti vogliono sapere, perché tanta crudeltà, chi erano quelle persone tenute là dentro come delle belve in gabbia. Perché?!
Poi escono, se ne vanno, accompagnati dalla guida.
Dopo mezz’ora arriva un nuovo gruppo, devo farmi trovare pronto, e via così per centinaia di volte. A migliaia di occhi e di orecchie, ho consegnato queste lettere scritte da uomini e donne che dai primi del ‘900 agli anni ’70 del secolo scorso sono stati rinchiusi nel manicomio di Volterra. Alcuni psichiatri, che qui hanno lavorato, hanno voluto salvarle dall’oblio liberandole dalle cartelle cliniche in cui erano rimaste chiuse per decine di anni per pubblicarle in “Corrispondenza Negata”, un prezioso librone che custodisco con amore.
Un’esperienza straordinaria per un attore, quella di avere così tante repliche a disposizione, come altrettanto straordinaria è stata la possibilità di aver potuto svolgere la performance in questo luogo, il posto in cui le lettere sono state pensate, sofferte, scritte. Un lavoro che emotivamente ed artisticamente mi ha lasciato molto e a cui spero di aver restituito, almeno in parte, un po’ di ciò che ho ricevuto.
Mi manchi Charcot!
Un doveroso ringraziamento va alle Associazioni “Inclusione Graffio e Parola” e “I Luoghi dell’Abbandono”, che hanno organizzato in quegli anni le visite guidate e che mi hanno coinvolto nel progetto. Un grazie anche a tutti i volontari e le volontarie che hanno accompagnato con dedizione i visitatori.