Diario n°3: Omosessualità in manicomio
Memorie di un internato psichiatrico
[Volterra. Manicomio giudiziario]
[Volterra. Manicomio giudiziario]
Questo è uno degli estratti del libro “Memorie di un internato psichiatrico” edito da Fondazione Museo storico del Trentino, curato da Q. Antonelli e F. Ficco.
Trattasi di una raccolta di quaderni manoscritti da Antonio (nome di fantasia), internato psichiatrico dalla personalità «perversa» che narra la sua permanenza all’interno del manicomio.
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Omosessualità in manicomio
Un altro aspetto della vita del manicomio giudiziario di Volterra, era costituito dal grande numero di sodomiti, – attivi e passivi – che c’erano.
Il problema dell’omosessualità, in carceri, manicomi, istituti vari e, (mi hanno assicurato) anche nei sanatori è particolarmente grave.
A Volterra, – perché di quella desidero parlare, – a occhio e croce, penso che un buon terzo dei ricoverati, fosse fattivamente o potenzialmente, affetto da una delle forme dell’omosessualità.
Ricordo un ragazzo triestino, A. J., di 19 anni.
Era stato inviato in manicomio giudiziario all’età di 12 anni.
Ora io mi domando: era stupido, o incosciente, il giudice che aveva mandato a Volterra quel ragazzo?
Io penso che quel giudice era scapolo, o, comunque, non avesse figli.
Un padre di famiglia, con la testa sul collo, infatti, ci pensa bene, prima di spedire un ragazzo di 12 anni, – qualunque sia il motivo dell’internamento – in un posto, come Volterra.
Perfino prima di andare in prigione, quando ero ancora un ragazzino, durante la mia prima degenza nel manicomio di Pergine (nel 1936) avevo sentito parlare di Volterra.
Erano forse un’esagerazione i termini coi quali sentii descrivere quel manicomio; ma se anche solo il 20% fosse stato vero, ed io avessi avuto un figlio di 12 anni, da mandare in quel luogo, giuro che gli avrei tirato il collo piuttosto che saperlo in una bolgia simile.
A casa mia, non immaginavano neppure lontanamente che potesse esistere, in Italia, un luogo con una situazione simile.
Mia madre, però, che durante la guerra del 14-18, quando aveva appena 16 anni, per avere offeso l’immagine del Kaiser austriaco, era stata nel penitenziario di Theresienstadt per un anno; mia madre, dicevo, si era ben preoccupata, quando mi avevano mandato nel riformatorio giudiziario di Torino, ed aveva assunto informazioni in merito.
Le era stato assicurato, però, che non era il caso di timori del genere.
E a Torino conobbi Satana, in una delle sue più potenti trasformazioni.
Ma torniamo a Volterra.
Il direttore, prof. Umberto Sarteschi, infatti, aveva disposto che i ricoverati sospetti di tendenze omosessuali, fossero tutti concentrati al padiglione «Biffi».
Anche nei confronti miei, – benché non avessi mai fatto nulla che potesse configurare in me tendenze omosessuali, (il fatto che mi vide come protagonista, assieme ai fratelli 0., era sadismo puro, senza fronzoli di sorta), – anche io, dicevo, fui mandato al «Biffi».
Come vi giunsi, – e vi arrivai di mattina, in una giornata di calma relativa, – appena vi giunsi, – dico, – mi resi subito conto che [non] vi avrei resistito a lungo.
Uomini sbracati, distesi a terra esponendo al sole nudità nauseanti; altri uomini che si masturbavano tra l’indifferenza generale; uno di costoro che, avendo eiaculato, aveva raccolto lo sperma in una mano la leccava con aria compunta.
La «fossa dei serpenti»? Ho visto quel film ma lì erano tutte rose e fiori, di fronte a quello che vidi, appena giunto al «Biffi».
Mi destinarono un posto a tavola; ma io non mangiai nulla; e, quando un infermiere mi si avvicinò, per domandarmene la ragione, gli scaraventai in faccia la scodella della minestra, che avevo davanti.
E buon per lui che non scottava.
Ci fu un attimo di stupore, fra i tre o quattro infermieri che erano, in quel momento, in refettorio; io approfittai di quell’attimo, per uscire di tra i tavoli, col cucchiaio in mano – al quale avevo levata la paletta.
Un attimo dopo li avevo tutti addosso, ed uno di loro, – non saprei quale, – mi afferrò i testicoli e me li strinse con furia folle.
Io non potevo neppure gridare, perché uno degli infermieri, – passandomi alle spalle, – mi aveva afferrato il collo; insomma, in quel momento, credetti proprio di morire.
Probabilmente svenni, per un principio di asfissia, causato da quel braccio con cui un infermiere mi aveva afferrato al collo.
So, comunque, che, poco dopo, mi trovai su un letto, legato come un salame (non è una frase fatta) e con lo scroto che mi doleva.
Guardai intorno, per quel poco che mi permetteva la «fiorentina», vale a dire il lenzuolo arrotolato, che mi imbrigliava le spalle, ma non vidi che 3 o 4 letti, su ognuno dei quali c’era un povero cristo, legato, più o meno come me.
Io, però, ero stato legato con cura particolare.
Si era proprio voluto infierire, contro di me.
Io sono contrario, – sia pure senza essere «obiettore di coscienza» – sono contrario, dicevo, all’omicidio (lo guardo con occhio critico, anche se è commesso per legittima difesa), ma, in quel momento, se avessi potuto disporre di me, ed avessi avuto un mitra in mano, non so proprio, quale limite avrei posto alla mia furia rabbiosa.
Restai coercito per 20 giorni; durante i quali, spesso, mi davano «il brodo con la forchetta» per usare una frase colorita, in uso laggiù, per dire che saltavo il pasto.
Quando mi sciolsero, (non mi avevano tolto le «briglie» nemmeno quando dovevo soddisfare un bisogno fisiologico «Falla a letto, – dicevano, – poi quando avremo tempo, ti cambieremo le lenzuola».)
Quando mi levarono la camicia di forza e le «fascette» di contenzione, ero debole come uno straccio.
Avevo lungamente meditato in quei giorni, ma non ero riuscito a spiegarmi quel momento di furia, nel quale avevo gettato la scodella in faccia all’infermiere.
Per quanto mi conoscevo, dico, non riuscivo a capacitarmi per un così stolto atto di violenza.
Sì, anch’io, nella mia vita, ero ricorso, qualche volta, alla violenza: ma erano stati casi particolari; e, in quei casi, la mia violenza aveva subito, prima di manifestarsi, un certo periodo di «decantazione»; come era accaduto il 17 marzo 1938, con l’episodio D.; e il 7 aprile ’40, con i due fratelli O.
In quei due casi e in qualche altro che non vale la pena di riferire; mentre accompagnavo le mie «vittime» verso il luogo del «sacrificio», – una volta tra i cespugli di Gocciadoro, e un’altra nel sotterraneo, dietro le scuole del mio paese, – potevo ancora pensare con la mia testa, almeno un poco, ragionavo sia pure limitatamente.
Ma lì, al Biffi quel giorno, – (ero si indisposto ed indignato, per il fatto di essere considerato un omosessuale e mandato in quel luogo), non capivo proprio quale molla fosse scattata nel mio cervello.
Dunque, venti giorni dopo il «fattaccio», mi fecero alzare.
Come tolsi una gamba dal letto, e l’appoggiai a terra, un violentissimo capogiro mi fece veder ballare intorno a me la stanza e tutto quello che conteneva.
Durò poco, però.
Ed io rinfrancatomi, posai a terra anche l’altro piede e mossi qualche passo; il capogiro non si ripetè ma mi accorsi dell’estremo stato di debolezza in cui mi trovavo.
Intanto riflettevo.
Quando ero in carcere avevo sempre sentito dire che non conviene rivoltarsi alle guardie, se non si era sicuri di poterle ferire, in qualche modo.
Mi spiego meglio: se io davo dell’asino e dell’imbecille, ad una guardia carceraria, questa mi avrebbe denunciato per oltraggio.
Se io, mollavo uno schiaffone, a questa ipotetica guardia, potevo essere certo che me ne sarebbero saltate adosso quattro o cinque, e che avrei preso un sacco di botte.
Ma se io, invece, con un pezzo di vetro, o un pezzetto di lamiera, o con un chiodo, sfregiavo, quella guardia, o le cavavo un occhio, nessuno mi avrebbe torto un capello.
Non è un paradosso: infatti, c’era da chiamare il medico; c’era da informare urgentemente il giudice di sorveglianza, che sarebbe accorso subito, e si sarebbe reso [conto] se io fossi stato mal menato, (le guardie carcerarie non possono per nessuna ragione battere o comunque manomettere i detenuti).
Pensavo a queste cose, mentre mi stavo vestendo, e mi dicevo: se la minestra fosse stata bollente, nella scodella, ed io avessi accecato un occhio a quell’infermiere…
Non mi ripromettevo di ripetere gesti del genere; facevo solamente della speculazione «parafilosofica».
Intanto, terminato di vestirmi, mi venne alla mente tutta la precarietà della mia situazione.
Ora sarei sceso, in sala, assieme agli altri; avrei rivisto le scene che mi avevano disgustato al mio arrivo.
Bisognava proprio che trovassi il modo di togliermi da quell’inferno.
Quando fui in cortile, invece, rimasi, a bocca aperta, ad ammirare lo spettacolo che mi si offriva.
Sotto un albero tisico e striminzito, un ragazzo, giovanissimo, in canottiera e mutandine, stava cercando di utilizzare quel poco di ombra che l’albero proiettava.
Poteva avere, così, ad occhio e croce, forse meno di vent’anni; era bruno di capelli, – ma bianchissimo di pelle; segno evidente che veniva dalla cella di un carcere.
Appena mi vide si tirò in piedi, – fino a quel momento era stato accovacciato ai piedi del tronco – e mi si avvicinò sorridendo.
Quando fu a due passi da me si fermò e mi disse:
«Tu sei Antonio, vero? o non ti meravigliare, – proseguì, – vedendo nei miei occhi un guizzo di stupore, – non ti meravigliare. Lo sanno tutti che hai lavato la faccia ad uno sbirro».
Disse proprio così «sbirro» segno evidente, – se mai ce ne fosse bisogno, – che non parteggiava per Cesare, ma spalleggiava Spartaco.
Io, prima di rispondere, guardai con la coda dell’occhio dalla parte del cancello d’entrata: gli infermieri che avevo visto, c’erano ancora lì tutti, ma chiacchieravano fra loro, senza badare a nulla.
Intanto, non mi ero nemmeno accorto che il ragazzo mi tendeva la mano, quando me ne avvidi, mi affrettai ad afferrargliela ed egli mi disse:
«Mi chiamo A. B., e sono di Lucca; terz’anno di ingegneria, a Pisa».
Io stavo per parlare a mia volta, ma lui, alzando la sinistra, mentre con la destra stringeva ancora la mia, disse:
«Ti conosco, ti conosco; so che sei di Trento e che ti trovi qui da vari mesi, e che, – ma questo, – proseguì, – ti si legge negli occhi, volevo dire che ne hai fin sopra i capelli di questa fogna».
Aveva abbassato il tono della voce, nel proferire queste ultime parole; non so se per precauzione istintiva, o per dare ad esse un tono di familiarità.
Intanto ci eravamo avvicinati lentamente ad una panca, occupata da tre poveracci, luridi, straccioni e, probabilmente, pidocchiosi; (non mi sono ricordato, a suo tempo, lo riferirò qui: in molti padiglioni del manicomio c’erano anche i pidocchi; ed i medici che ci entravano per servizio, si rimboccavano i pantaloni).
Ci avvicinammo, dunque, a quella panca ed il mio giovane compagno, rivolto ai 3 che sembravano assorti e persi in chissà quali pensieri, disse:
«Una sigaretta a ciascuno, se ve ne andate subito».
Come morsi da una tarantola, i tre parvero riprendere vita.
Si alzarono quasi di scatto e si fecero intorno al lucchese.
Costui, estrasse, dalla manica di un giubbetto che teneva ripiegato sul braccio, un pacchetto di «Africa», tolse le tre sigarette, ed evitando di toccare le mani di quei disgraziati, vi lasciò cadere una sigaretta in ciascuna.
Dopo di che i tre si persero nell’anonimato del gruppo che c’era in cortile, e noi ci sedemmo.
Ora, da quel giorno, son passati più di trent’anni; è quindi possibile che qualche particolare, qualche sfumatura mi sfugga, (in certi casi anche le sfumature hanno il loro peso).
Il nocciolo, comunque, della situazione di quel giorno, l’ho ben presente, alla memoria. A. B., figlio di un medico di una certa fama, e universitario, a Pisa (come ho già accennato), aveva ucciso la sorella, perché preso da un furioso sentimento d’erotismo, (non si può chiamare «amore», il sentimento incestuoso che, talvolta, lega due fratelli), aveva tentato inutilmente più volte di farle «abbassare la guardia».
Quando era stato arrestato, il giovane B., – per un «atto dimostrativo», come disse a me, – aveva tentato d’impiccarsi; cioè, non solo, aveva tentato, ma si era veramente appeso con una striscia di lenzuola, alle sbarre della finestra della camera di sicurezza, nella quale lo avevano provvisoriamente rinchiuso.
Lui contava sul la prontezza del piantone che (lui lo sapeva), lo sorvegliava «a vista» dallo spioncino della porta. Evidentemente in quel momento il piantone si era distratto.
Ove così non fosse stato, è chiaro, egli non avrebbe potuto anno darla alla finestra; ed infine non sarebbe riuscito ad infilare il capo nel laccio che poteva costargli la pelle.
Infatti, quando il piantone se ne accorse, A., già da qualche tempo, stava scalciando al vento. In più il piantone, non aveva con se la chiave del locale, e dovette correre nel luogo ove si trovava, per prenderla; intanto il tempo passava; già gli sfinteri si erano allentati ed A. perdeva urina e feci. […]. Come si può immaginare gli avvocati del giovane B., […] si erano buttati a corpo morto su questo episodio, e reclamavano la perizia psichiatrica.
(Parte civile, ovviamente, non s’era costituito nessuno).
In breve, la perizia psichiatrica veniva fatta, ad Aversa, dal prof. Francesco Saporito, che concludeva il suo lavoro, affermando che il giovane B., all’atto dell’omicidio, non era in condizioni d’in tendere e di volere.
Dieci anni di manicomio giudiziario: questa la decisione, presa in Camera di Consiglio, dalla corte d’Assise di Lucca, che non ritenne nemmeno di celebrare il processo.
Fu quindi trasferito a Montelupo.
Nel manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, il giovane A. mostrò un «eccessivo» attaccamento per un ergastolano che vi si trovava in osservazione; fu ripreso bonariamente, in un primo tempo, dal maresciallo delle guardie; poiché egli proseguiva, imperterrito, a razzolare con l’ergastolano, (questo avveniva sempre durante le ore d’aria), fu ammonito un po’ più severamente.
Poiché anche la seconda ammonizione era caduta nel vuoto un mattino gli fu cambiato di reparto, ed egli fu mandato in un cortile diverso.
Come ritornò verso le undici, dal cortile alla nuova cella, fu preso da una furia senza limiti.
Nella stessa cella c’erano anche due altri vecchietti innocui e svampiti.
A. barricò la porta della cella, e poiché le guardie cercavano di rimuovere lo sbarramento, per entrare ed immobilizzarlo, egli gridò loro di fermarsi altrimenti disse avrebbe ucciso i suoi due compagni.
Come Dio volle, dopo alcune ore di trattative snervanti, tra il giovane ammutinato ed il Procuratore della Repubblica, che nel frattempo era accorso, A. si arrese; un’ora dopo egli era già in viaggio per Volterra, dove aveva chiesto ed ottenuto di essere trasferito.
Giunto al padiglione «Ferri» egli si mise subito in luce come contestatore abituale: una cosa non gli andava bene; un’altra non gli garbava troppo.
La compagnia alla quale lo avevano aggregato, non era competente a parlare con lui, ed egli pretendeva di farla cambiare.
Insomma, un lavativo, e non parve vero al caposala del «Ferri centro», quando gli giunse l’ordine di trasferire il ragazzo al «Biffi».
Il «Biffi» avrà pensato, è fuori mano, dal grande movimento di quelli che andavano al manicomio, per trovare i loro parenti.
Il direttore, lasciava passare anche un paio d’anni, tra una sua visita e quella successi va.
E proprio il posto che ci vuole pensò lui.
Quando io giunsi al «Biffi», quel giorno in cui scaraventai la minestra in faccia all’infermiere, egli vi si trovava da alcuni giorni.
(Mentre era al «Ferri» io non l’avevo mai notato).
Vide il mio gesto, vide la barbara maniera, con la quale mi avevano ridotto all’impotenza.
Chissà quale sia il meccanismo del cervello di uno schizofrenico (così egli era stato giudicato); fatto è, comunque, che lo prese una improvvisa e sconfinata, (senza esagerare) ammirazione per me.
Due giorni dopo che avevo ricominciato ad andare in cortile, nel quale avevamo parlato delle cose più ovvie e banali, egli prese la decisione, (lo l’avevo già annusata, in aria, questa decisione e la aspettavo).
Mi disse, dunque, quel giorno:
«Noi siamo amici vero?» «Certamente» risposi «Ebbene proseguì – non si potrebbe essere qualcosa di più, che amici».
Io tacevo: non sapevo infatti se prevenirlo, in questa sconcertante dichiarazione d’amore, oppure lasciarlo parlare.
Allora egli mi era venuto più vicino, e con l’aria carezzevole di un gatto che fa le fusa, aveva appoggiato la sua testa sulla mia spalla, ed aveva detto:
«Mi vorresti, come mogliettina?»
Gli infermieri erano in fondo al cortile; ed A. continuava a strofinarsi addosso a me.
Io gli risposi che il coito anale non lo facevo tanto volentieri, perché mi dava un po’ di ripugnanza; ma che se lui, era disposto, io gli avrei permesso di farmi un cunnilinguo, di tanto in tanto; non troppo di frequente però dato il basso regime alimentare, cui eravamo sottoposti.
Egli che non aveva cessato di guardarmi, fece l’atto di abbracciarmi, ma una rapida occhiata in direzione degli infermieri, lo fece desistere.
Si limitò a dirmi, con voce impastata:
«Tu sei un dio; il mio dio».
Sospirò, un poco, poi riprese:
«Non mi tradire; non mi tradirai mai vero?»
Non sorridete voi che leggete queste righe, e non torcete il naso.
Il mondo degli omosessuali, è, sì, un mondo tutto particolare, con qualche interferenza esoterica; ma gli amori, e gli odi, che vi fioriscono sono vivi e palpitanti, come quelli del vostro mondo.
Quando un «normale» va in prigione, perde, come gli altri, la libertà ma la cosa che più lo angustia, generalmente, è la mancanza della moglie, – o della fidanzata o dell’amante.
Un omosessuale, invece perde solo la libertà.
In carcere, invece, egli trova, almeno, un surrogato, – o meglio, un sostituto di quello che ha lasciato fuori dalle porte della prigione.
L’altro giorno, un medico di reparto, mi aveva severamente invitato a tralasciare la consuetudine, che avevo presa con un non più giovane ricoverato.
Io acconsentii ad aderire all’invito del medico, ma dentro di me si ruppe qualche cosa.
Il medico, infatti, mi aveva anche detto che non poteva tollerare, in reparto, una situazione del genere; ma proseguì dicendo che lui non [si] scandalizzava per quella vicenda.
Eppure, che cosa c’era stato tra noi due?
Qualche carezza sul collo, che ha morbido come il velluto, qualche bacino; sì la cosa più «spinta» alla quale siamo giunti è stato proprio qualche bacetto.
Ed ora non potrò più portar gli il gelato, che gli portavo, fino a pochi giorni fa.
Che Dio te la mandi buona, giovane medico, e che tu non abbia mai a provare quello che provo io.
A., aveva grandi possibilità finanziarie, e me ne faceva partecipe.
Benché, alla spesa settimanale, non si potesse trovare che aceto, insalata e sale, egli si era organizzato rapidamente ed egregiamente.
Il pane che, fuori, a tessera costava 4 lire al chilo, egli se ne faceva portare – tramite e complice un giovane infermiere […], pagandolo 10 lire al chilo.
Lo zucchero, che in bottega, con la tessera, costava 10 lire al chilo, egli lo pagava 15, e ne aveva quanto ne voleva.
Mangiavamo e dividevamo assieme, quello che lui acquistava.
«Per tener mi in forza» egli mi diceva, alludendo allo sforzo, che dovevo fare per rifornirlo quotidianamente di spermatozoi.
Anche perché, col tempo, egli era diventato esigente; non troppo tuttavia quando mi vedeva un po’ spossato mi faceva bere due uova, (era riuscito a procurarsi anche le uova), ed io mi sentivo un po’ meglio.
Fuori, – nel vasto mondo – avevo avuto altre avventure consimili; ma questa con A. B. era un po’ folle.
Penso, anzi, che se avessi continuato a mantenere quel tenore di vita, ancora per sette o otto mesi, mi sarei ammalato seriamente.
A. mi diceva talvolta: «Se sono veramente la tua mogliettina devo darti continue prove d’amore».
E la più grande prova d’amore, – a sentir lui, – era il modo con cui terminava il cunnilinguo.
Col ringollo.
Non trasalite, non sorridete, voi che mi leggete, nel mondo degli omosessuali, – da Wilde, al D’Annunzio, già anziano, – era una tradizione, un rito, questo del ringollo.
A. mi diceva che, in quella maniera era più agevole dimostrarmi il suo affetto.
Le prime volte, francamente, assistendo a quelle scene, mi sentivo tutto un rimescolamento, dentro, e mi sembrava di do vere recedere.
Era una cosa turpe?
Ebbene secondo l’angolazione, dalla quale la si osservava poteva a volte [sembrare] una cosa ributtante; oppure un rito che aveva un suo simbolismo esoterico, un suo significato trascendentale.
Gli infermieri si accorsero, ben presto, di quella che, con un termine borghese e da «benpensante» poteva essere definita «una tresca», ma conoscevano me e anche il ragazzo; quello che aveva avuto in faccia la scodella che gli avevo tirato diceva, (come seppi poi) agli altri: «Antonio è un pazzo pericoloso, (come è facile in quei posti, essere definiti «pericolosi») è meglio lasciarlo nel suo brodo».
Vile, e vili anche i suoi compagni; devo ammetterlo, se pure a denti stretti.
Del ragazzo poi dicevano:
«Per carità, non disturbiamolo lasciamolo perdere; e che faccia le porcheriole che gli pare. Se interveniamo – dicevano – diventa una piaga, come era al Ferri. Un lavativo come lui, finché sta calmo, si potrebbe servirlo in guanti gialli».
Tutto andò bene, dunque, fino a che, un certo giorno, non mi cascò addosso una montagna.