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Memorie di un internato psichiatrico
[Volterra. Manicomio giudiziario]

Questo è uno degli estratti del libro “Memorie di un internato psichiatrico” edito da Fondazione Museo storico del Trentino, curato da Q. Antonelli e F. Ficco.

Trattasi di una raccolta di quaderni manoscritti da Antonio (nome di fantasia), internato psichiatrico dalla personalità «perversa» che narra la sua permanenza all’interno del manicomio.

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Diario n°6: la tentazione della fuga

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Come dicevo le forze dell’«Asse» passavano di vittoria in vittoria.

Non ri­cordo, esattamente, come andassero le cose in Asia.

In Europa, comun­que, le armate hitleriane avevano occupato metà del continente, dalla Norvegia alla Grecia.

Le cose cominciarono a guastarsi, nel tardo autunno del 1942, quando von Paulus, a Stalingrado, dovette cedere alle forze rus­se, e fu fatto prigioniero.

Per il «CSIR» il Corpo di Spedizione Italiano, che aveva preso il posto dell’ARMIR, mandato fin dal principio delle ostilità, la situazione, – tra fine dicembre del 1942 e il principio del 1943 – divenne veramente critica.

[Qui Antonio è inesatto. Fu l’Armir (Armata italiana in Russia) a sostituire il più modesto Csir (Corpo di spedizione italiana in Russia) nel luglio 1942. Forte di 230.000 uomini, in prevalenza alpini, l’Armata fu travolta dall’offensiva sovietica del dicembre 1942, perdendo nella ritirata la metà degli effettivi.]

Sulla via della ritirata in Russia, i soldati italiani, poco preparati, o niente preparati, ai 40° sottozero; con l’equipaggiamento che sarebbe stato adeguato all’inverno in Italia, ma che era decisamente insuf­ficiente al rigore invernale della steppa, – non potevano nemmeno conta­re sulla solidarietà delle truppe germaniche; – meglio provviste, sia in armi, che in viveri e vestiario, – non collaboravano affatto, con quelle italiane.

Il maresciallo Giovanni Messe, comandante del Corpo di Spedizione Italia­no aveva corso il rischio di essere fatto prigioniero nella «sacca» di Smolensk, nella quale le residue forze dell’Asse rischiavano di essere annientate.

In questo inferno – pur battendosi in generale con molta decisione – tra i soldati italiani, – principalmente, ma anche presso altre formazioni, – si verificavano molti casi, nei quali il morale delle truppe venne meno, e si videro ammutinamenti di interi battaglioni, ed anche episodi di diserzione collettiva.

Gli ammutinamenti, in genere, venivano sedati e si procedeva alla «decimazione» (costumanza barbara, invero, ma in guerra, qualche volta, anche se altamente immorale, viene posto in atto quel principio di Machiavelli, affermante che «il fine giustifica i mezzi»); contro i disertori, invece, se venivano ripresi, la procedura era estremamente sbrigativa: Corte Marziale, (certe volte in una farsa di processo), e fucilazione alla schiena.

Pochissimi fortunati – ma realmente pochi – furono sottoposti, all’arrivo in patria, a perizia psichiatrica, lo ero sottochiave, a quel tempo, – come ho detto – ma ascoltavo avidamente, (senza dare nell’occhio), i discorsi degli infermieri, – quando parlavano della situazione bellica; ascoltavo e medi­tavo.

Seppi, in tal modo, che i periti psichiatrici, chiamati a pronunciarsi, – nei casi di «diserzione» di fronte al nemico, – sulle condizioni psichiche dei periziandi, erano piuttosto di manica larga.

Infatti, tra gli ex disertori, rimpatriati dalla Russia, non ci fu nessuna fucilazione; molti andarono a Gaeta, o a Peschiera, o a Pizzighettone, (Cremona), dove, a quel tempo, c’era un carcere militare, piuttosto grande.

Alcuni, invece, capitarono a Volterra.

Non molti, in relazione al numero dei degenti; ma parecchi veramente, rispetto al numero degli inquisiti.

Per gli ex militari, ricordo, era stato approntato un padiglione apposito, il «Kraepelin».

Non si ritenne prudente, infatti, mescolarli agli altri prosciolti.

Tutti giovani sui vent’anni, vivi, ben pasciuti, (nei carceri militari italiani, anche in tempo di guerra, il vitto era buono ed abbondante), giovani, dicevo, e ben pasciuti, avrebbero portato lo scompiglio, seminando zizzania e malcontento, tra gli altri degenti, che pur rodendo il freno, erano stati più o meno facilmente governati fino ad allora.

Li ricordo, questi ex militari, quando si andava al cinema; marcia­vano, ostentando (nessuno ve li obbligava) un passo cadenzato, cantando canzoni guerresche, e, talvolta, tali, da far raddrizzare i peli della barba, all’ipotetico ed eventuale ebreo che li avesse sentiti.

Infatti, un paio di volte, li sentii intonare «Die Fahne hoch» (Bandiere in alto), l’inno ufficiale delle SS.

Quei giovanotti, ostentavano, inoltre, una certa superiorità, nei confronti degli altri degenti; non so se per una specie di snobismo o per crearsi un alibi, davanti a chi magari aveva strangolato la moglie fedifraga, od aveva incendiato la casa dell’uomo che lo aveva finanziariamente rovi­nato.

Questo, ricordo, andò bene per un certo tempo, poi al reparto «Kraepelin» furono identificati alcuni agitatori «di professione» e si pensò bene di isolarli dagli altri, per evitare sorprese e per controllarli più agevol­mente.

Ne giunsero, così, una ventina, al padiglione «Ferri» e furono smi­stati nei sette reparti che lo componevano.

Al «Ferri centro» nel quale mi avevano messo, al mio rientro dal «Biffi», ne giunsero 3, N.S., di Torino, M.B., di Brescia, e un padovano del quale mi sfugge il cognome, e ricordo solo il nome: A.

Appena giunti al «Ferri centro» questi tre, si guardarono attorno, e rimasero allibiti, (me lo dissero poi) dalla miseria fisica e morale, che attanagliava la «bassa forza» che vi stava.

Provarono degli approcci, con l’uno o con l’altro, cercarono un dialogo con gli infermieri; ma tanto i degenti, (che provavano un piacere masochista ad autocommiserarsi) che gli infermieri, (che avevano la consegna di non fraternizzare coi tre ex militari), respinsero ogni tentativo dei tre giovanotti.

Dopo alcuni giorni, dal loro arrivo, uno dei tre giovani mi si avvicinò.

Io, fino ad allora, – occu­pato com’ero nel «lavoro» di conoscere un po’ più a fondo F.R., per vedere se era possibile un po’ più di interesse da parte sua nei miei confronti, – fino ad allora, dico, li avevo ignorati.

Appena si fu seduto, dopo avermene chiesto il permesso, il giovanotto si mise a parlare.

«Senti, – mi disse – permetti che ti dia del tu, vero? Io mi chiamo N.S. e sono di Torino. Senti da quanto tempo sei qui?»

Era una domanda un po’ prematura, mi sem­bra, fatta come era, prima che io gli dicessi il mio nome.

Ma io non sottilizzai troppo: quando si è in un barcone, che naviga in acque procellose, non si bada tanto alle convenzioni: si va dritti allo scopo, e, così si guadagna tempo, che, certe volte, può essere prezioso.

Alla sua domanda, dunque, risposi che mi trovavo a Volterra dal 24 agosto 1940.

Sentendo questo, il giovane fece un leggero fischio come accade a chi esprime ammirazio­ne, quanto a chi manifesta orrore e sgomento.

Fischiò leggermente, dun­que, poi disse:

«Come hai fatto a resistere tanto tempo? Se io fossi stato nei tuoi panni, mi sarei buttato nella tromba delle scale».

Che potevo op­porre io, di fronte ad una dichiarazione tanto drastica?

Potevo forse dirgli, che, specie fino a pochi mesi innanzi, avevo sopportato la situazione, solo grazie alla vicinanza ed all’affetto di A.B.?

Certe cose si vivono, si vedono, si tollerano; ma non si può spiattellarle al primo arrivato.

In Italia, infatti, specie nell’Italia settentrionale, la gente non è fatta non è ancora matura per comprendere, e giustificare certe operazioni.

Nel sud, no.

Nel sud è un’altra cosa: la gente è più arretrata forse sotto certi aspetti; ma è più comprensiva e più tollerante davanti a fatti come il sentimento che legava, reciprocamente, A. e me.

Sicché alla dichiarazione di N.S., restai muto, guardandomi le punte degli zoccoli.

Egli tacque un po’, come aspettando una risposta; poi, visto che io pure tacevo, riprese la parola:

«Io, qui, – disse – non ci sto molto; altrimenti va a finire che impazzisco davvero, e mi ucci­do».

Tacque nuovamente.

A me pareva di capire dove voleva arrivare.

«Sono un grosso imbecille» – dissi tra me e me – «se costui non mi propone di evadere con lui».

Il progetto dell’evasione, – in passato, – lo avevo va­gheggiato con amore speciale.

Mi dicevo, sì, che a R. non potevo andare, o, comunque, non potevo restarci; ma sarebbe stato relativamente facile, – avevo stabilito in quelle fantasticherie – passare dal passo di Tubre, in alta Val Venosta, al territorio svizzero.

In Svizzera, ragionavo, mi avrebbero probabilmente messo in campo di concentramento, ma, concludevo – meglio in un lager svizzero che nel manicomio di Volterra.

Ed ora mi trova­vo di fronte un ragazzo esasperato, che voleva dirmi di evadere con lui, e non sapeva se, e come dirmelo.

Tacevamo entrambi; io, continuando a guardarmi gli zoccoli, e lui, guardando me, e, cercando di incontrare i miei occhi, nella speranza, forse, di leggermi o meno se era il caso di fidarsi e di confidarmi tutto, oppure di tagliare corto e cercarne un altro.

Finalmente, N.S., rompendo gli indugi, mi fece la proposta che aspettavo; mi disse che lui e i suoi compagni, avevano bisogno di gente sveglia e decisa, perché più si era a tentare l’evasione e più probabilità c’erano che questa riuscis­se.

A questo punto, feci tra me e me una riflessione strana:

«Come mai, – pensai – costui ha scelto proprio me che, – lo sapevo – ero tutt’altro deciso a soluzioni violente, perso, com’ero, – e me ne rendevo conto, – nell’impre­sa di vederci chiaro nei sentimenti di F.R.

Quel giovane calabrese, infatti, mi «sfuggiva» continuamente; intendiamo­ci, non che evitasse la mia compagnia; lo avevo quasi sempre intorno, (come se io fossi l’albero della cuccagna di «Natio borgo selvaggio», di Ferdinando Martini, e lui ballasse intorno a me, una danza propiziatoria).

[Ferdinando Martini (Firenze 1841 – Pistoia 1928), fu uomo politico e scrittore. Il titolo ritorna ancora in un altro testo di Antonio, Verso il natio borgo selvaggio, qui non raccolto, dove racconta un fallito tentativo di evasione dal manicomio di Volterra. Forse il medesimo descritto in questo stesso diario.]

Cercavo di intavolare, con lui, la discussione che mi avrebbe portato, – gradatamente e senza scosse – all’argomento che, nei suoi confronti, mi stava più a cuore; se nonché non appena F. intravedeva la meta che mi prefiggevo, cambiava discorso, o, se questo non gli riusciva, con un prete­sto qualsiasi, mi lasciava in asso; per tornarmi vicino magari mezz’ora dopo, quando supponeva che i miei pensieri avessero preso un’altra direzione.

Io non volevo mercanteggiare il suo affetto; ed avrei potuto farlo, ove me ne fosse venuta vaghezza.

Da varie settimane, infatti, ero divenuto, come dire, il segretario di un vecchio bolognese, al quale dovevo leggere la po­sta in arrivo, – egli era quasi cieco, infatti – e scrivergli quella in partenza.

Costui – un tale G.G., – in cambio della mia prestazione, mi dava quante sigarette volessi, ed anche, di tanto in tanto, qualche pezzo di cioccolato.

Sarebbe bastato, dunque, che io chiedessi al vecchio G. un pacchetto di sigarette e che le avessi offerte al giovane calabrese.

Ma non volevo asso­lutamente fare mercato del suo corpo; il piacere che ne avrei avuto, allora, sarebbe stato molto limitato.

E poi, – questo lo seppi dopo, quando, riusci­to a conquistare F., ci scambiavamo le più intime confidenze – avrei fatto torto al ragazzo.

Egli era sì povero, come un gatto, insomma ma voleva essere libero nei suoi sentimenti, e scegliere, in ogni circostanza, la strada che piaceva a lui.

Mi risvegliai con uno scossone; no, non mi ero addormentato, mi ero sol­tanto perso dietro ai miei pensieri, ed avevo completamente dimenticato il giovane torinese che mi stava accanto.

Costui mi aveva afferrato una spal­la, perché lo ascoltassi, ed io ero tornato in me.

«Allora, – mi disse N. S., – cosa decidi? Senti, Antonio; (io infatti gli avevo detto il mio nome fin da principio); senti Antonio è veramente una cosa possibile; non ci dovrebbe­ro essere ostacoli insormontabili; una volta fuori, però, ognun per se e Dio per tutti».

Io nicchiavo; non sapevo decidermi; mi rendevo conto, del fatto che, in verità, di notte, quando il numero degli infermieri in servizio è molto limitato, c’era, forse, qualche possibilità di tagliare la corda.

Sapevo, – e lo sapeva anche il mio giovane interlocutore, – che il manicomio non aveva alcun muro di cinta, (non tenendo conto, però, di alcuni tratti dove c’erano dei reticolati; ma questi erano vecchissimi e rosi dalla ruggine); sapevo tante cosette, in tema, che avrebbero incoraggiato un’azione del genere.

Ma c’era la grande alternativa: e se non fossimo riusciti?

Se ci avessero sorpresi delle circostanze che non avevamo previsto?

Io sapevo, per esperienza, quale sarebbe stata la sorte, in tal caso, che ci aspettava.

E non avevo nessuna voglia di prendere, un’altra volta, un sacco di pugni e di schiaffi, e di restare legato, – data la recidiva – un paio di mesi almeno.

Non volevo, d’altra parte, perdere un’occasione che, quasi certamente, sarebbe stata irripetibile.

Poi mi decisi a metà:

«Facciamo così, – dissi – io ci ripenso, con comodo, stanotte, e domani ti do la risposta».

«Va bene – fece l’altro – ma, – e mise un dito in croce sulle labbra – mi raccomando; siamo nelle tue mani».

E se ne andò, prima che io gli dicessi una parola rassicurante.

continua…

Diario n°6: la tentazione della fuga