Diario n°9 – l’uccisione del cane del Direttore
Memorie di un internato psichiatrico
[Volterra. Manicomio giudiziario]
[Volterra. Manicomio giudiziario]
Questo è uno degli estratti del libro “Memorie di un internato psichiatrico” edito da Fondazione Museo storico del Trentino, curato da Q. Antonelli e F. Ficco.
Trattasi di una raccolta di quaderni manoscritti da Antonio (nome di fantasia), internato psichiatrico dalla personalità «perversa» che narra la sua permanenza all’interno del manicomio.
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Diario n°9 – l’uccisione del cane del Direttore
Pochi mesi dopo il ritorno al «Ferri» dal «Chiarugi», il dott. Mazzei si ricordò di me.
Da parecchio tempo, ormai il mio nome non compariva più nei rapporti stilati dal caposala per il medico.
Questo, voleva dire tante cose; ma una in particolare, che le riassumeva tutte: mi comportavo sufficiente- mente bene.
Gli anni di carcere, di manicomio; gli anni insomma che si passavano sottochiave, maturano l’individuo molto velocemente.
E molto in fretta, anche, lo fanno invecchiare.
Io mi trovavo a Volterra da oltre quattro anni; i primi due, contando i giorni che mi separavano dalla fine della misura di sicurezza, applicatami, a tentare evasioni, (due volte mi riuscirono; altre cinque, invece, si risolsero in un fiasco clamoroso, per cui abortirono mi seramente).
I due anni successivi, invece, furono essenzialmente anni di assestamento.
Mi stavo lentamente abituando a quella vita, e mi ammalavo, invece, di quella particolare affezione psichica, che è l’agorafobia; e che si sarebbe manifestata in modo drammatico, quando tornai a casa; ma ne parlerò diffusamente, a suo tempo.
Dunque, dicevo, che il dottor Mazzei si ricordò di me.
Un giorno, infatti, mi fece accompagnare nel suo studio. Alla presenza del dott. Mazzei tutti o quasi si sentivano a disagio.
Aveva un certo modo di fissarti negli occhi, mentre parlavi, che ti faceva inquietare.
Sembrava volesse ipnotizzarti.
Quando fui davanti a lui, egli mi guardò alcuni minuti, in silenzio, mentre io facevo vagare per la stanza gli occhi; incapace, com’ero, di sostenere il suo sguardo; mentre, non so perché, una sorda collera, mi saliva dai precordi.
Come ebbe finito di ispezionarmi, con quel suo sguardo conturbante, prese a parlare:
«Vi chiamate Antonio R»
disse trattandomi col «voi» (un’abitudine presa in tempo fascista, quando gli sciovinisti che attorniavano Mussolini, stabilirono che l’uso del «lei», non era di origine italiana, e che bisognava, – nei casi in cui non si poteva usare il «tu», – sostituirlo col «voi» più maiestatico e d’origine chiaramente «imperiale»).
Il dott. Mazzei, dunque mi si rivolse col voi.
Alla sua domanda, ovviamente, diedi risposta affermativa.
Allora lui mi disse che, presa conoscenza della mia posizione giuridica, (in quanto prosciolto, infatti, dipendevo dal giudice di sorveglianza, presso il tribunale di Pisa; il quale giudice, sentito il parere del mio medico, poteva revocarmi la misura di sicurezza, il che voleva dire mandarmi a casa; o confermarla, che avrebbe significato, tenermi ulteriormente in manicomio).
Presa dunque conoscenza della mia posizione giuridica, il dott. Mazzei mi disse che aveva deciso di aggregarmi alla squadra dei «servizi generali» il che voleva dire, in sostanza, che io potevo, sia pure con la scorta di un infermiere, girare con i miei compagni di lavoro in lungo ed in largo per svolgere tutte quelle commissioni, e quei servizi, – più o meno delicati – che competevano, appunto alla squadra dei «servizi generali».
Sentendo questa notizia (a sorpresa in quanto io ero lontanissimo dal prevederla), il cuore mi diede un violento balzo in petto.
Probabilmente sono arrossito, perché il dott. Mazzei, cambiando il tono professionale, in un tono più familiare e più umano, aggiunse
«Che vi accade? Vi sentite male?»
Parve accorgersi solo in quel momento, che io ero ancora in piedi, perché si rivolse all’infermiere che mi aveva accompagnato lì, e che era a un passo da me e gli disse con una premura che, se era simulata, lo era molto bene:
«Prendetegli una sedia, che dia mine e fatelo sedere».
Anche all’infermiere aveva dato del voi, (forse dava del voi anche al gatto di casa).
Come mi fui accomodato sulla sedia, non prima di avere abbozzato un cenno, pro forma, di protesta, egli mi invitò a considerare come assolutamente positivo, la «prova di fiducia» che mi dava, e mi invitò a mostrarmene «degno».
Dopo di ché, mi congedò con un cenno della mano.
Egli non aveva le classiche mani del medico o del pianista e del prete ma un paio di manacce da muratore, che non erano, (mi si conceda anche questo rilievo, che non è malignità, ma amore per la verità e la precisione), che non erano, dicevo, talvolta, di una pulizia scrupolosa.
Tornai insieme agli altri, senza far cenno con nessuno, di cosa mi avesse detto il medico: mi pareva che parlandone, prima del tempo, potesse portarmi scalogna.
La mattina del giorno dopo mentre stavo rifacendomi il letto, mi chiamò il caposala: dovetti deporre il vestito liso e consunto, che portavo da tre o quattro mesi, e indossarne uno nuovo fiammante.
(Che diamine, poteva no ben restare vestiti di stracci, quelli che non uscivano dal reparto; ma bisognava salvare le apparenze: uno addetto ai servizi generali doveva sempre essere vestito con proprietà).
Mi diedero anche le scarpe in sostituzione degli zoccoli scalcagnati che avevo.
Così, tirato come un damerino, (si fa per dire), cominciai il mio nuovo lavoro.
Si doveva quel giorno caricare su un carretto tirato da due ricoverati, i vasi dei fiori, che c’erano nel vestibolo del padiglione, e ai lati delle rampe di scalini per cui vi si accede va.
Si dovevano collocare nella vasta serra dell’ospedale: il tempo della neve non poteva essere molto lontano.
Finita questa mansione, eccone un’altra, dalla portineria avevano telefonato che c’erano due pacchi postali, da recapitare ai legittimi destinatari, che erano al «Ferri».
Eccoci in viaggio verso la portineria, con un carrettino di legno, (che trascinavamo noi), addetto, appunto a quel genere di lavoro. La portineria, era trecento metri più in basso, ad un buon chilometro e mezzo di distanza.
(Questo era il rovescio della medaglia: noi dovevamo uscire dal reparto, per le nostre commissioni, con qualunque tempo; freddo o caldo; acqua o vento o nevischio sollevato dal vento; una vera e propria tormenta.
Avevo notato fin dai primi giorni di quel mio nuovo lavoro, un magnifico cane «Terranova» mite e mansueto avvicinava chiunque, si lasciava accarezzare da tutti, scondinzolando.
Ora, era pur vero che, noi, dei «servizi generali» mangiavamo a parte, e molto di più degli altri, ma era anche vero, che quel che trovavamo noi, nel piatto, come gli altri, del resto, era di una monotonia esasperante.
Sempre gli stessi piselli secchi; sempre le medesime uova, importate dalla Spagna, come indicava il timbro, che vi si legge va.
Mai che la solita «pea soup» fosse intercalata da qualcosa di diverso.
Io quando avevo potuto vedere – un po’ da vicino – quella magnifica bestia avevo collegato quei suoi garretti poderosi, e quelle sue coscie grasse al l’idea di una pentola, che le poteva contenere.
Avevo mangiato cani, ancor prima che andassi a Volterra; cane in salmi.
Ecco un piatto prelibato, il cui ricordo mi turbava facendomi venire l’acquolina in bocca; cane allo spie do, cotto con una procedura speciale, che non tutti conoscevano. I cani, secondo una credenza piuttosto diffusa, hanno tutti la sifilide.
E con questo?
La loro carne poteva essere eventualmente pericolosa da cruda.
Ma con la cottura, – chi non lo sa? – i microbi morivano tutti.
Quando vidi, dunque, il «Terranova» pensai, quasi subito, a come ucciderlo, farlo a pezzi e portarlo in quel sotterraneo del «Ferri» nel quale si faceva riscaldare l’acqua per i bagni e per la rigovernatura di piatti e di scodelle.
Sapevo, che l’infermiere che ci aveva in consegna era capace di «conciare» la pelle, (talvolta egli puzzava di tannino, a venti passi di distanza).
E un giorno mi decisi – dopo averne parlato con i miei due compagni di lavoro.
Dunque, mi decisi; eravamo andati in falegnameria, per non so cosa, e stavamo risalendo la collina che conduce al «Ferri», quando, ecco apparire, di tra gli alberi, il robusto e mite cagnone.
Lo addittai all’infermiere – costui si chiamava C. – e gli chiesi:
«Saresti capace di conciare la pelle di quel cane?»
«Come no?» fece l’altro, «lo me lo mangerei, invece».
L’infermiere, che non era certo una cima, parve capire quello che mi passava nel cervello.
Si fermò, e mi guardò fisso:
«Cosa pensi? – mi chiese – quello è il cane del direttore; e chiunque gli torcesse un pelo avrebbe da vedersela, dopo, con lui».
«Tuttavia…» feci io, e lasciai la frase sospesa.
L’infermiere, un uomo piuttosto taciturno e pignolo, […] convenne, – dopo una breve discussione con me e col mio compagno – che il cane si poteva anche uccidere e scuoiare.
Facemmo presto a metterci d’accordo; io avrei ucciso il cane, dopo di che la pelle sarebbe toccata al C.; e noi ci accontenteremo della carne, e del suo trasporto in reparto.
Il giorno dopo, come stabilito, rubai due polpette, in cucina.
Una la mangiai, l’altra la misi in un pezzo di giornale.
Avevamo procurato – anzi lo aveva procurato il mio compagno – un robusto martello da calzolaio, che celammo in un tombino che serpeggiava per il bosco.
All’ora solita, – come se la controllasse sull’orologio – eccoti il cane.
Lo chiamai forte, – si chiamava Lampo – Lampo si avvicinò scodinzolando, com’era solito fare, quando qualcuno lo chiamava.
Passai rapidamente al mio compagno la polpetta che avevo in tasca.
Lui la fece vedere al cane che avvicinò ancor più mugolando.
Quando il mio compagno abbassò repentinamente la mano con la polpetta, il cane abbassò il muso.
Era il momento: abbassai violentemente il martello sulla sua testa.
Egli, ricevuto il colpo che gli aveva fratturato il cranio, invece di cadere a terra subito, si alzò sulle zampe posteriori, (così egli raggiungeva quasi due metri di altezza), lanciò un guaito inarticolato, poi stramazzò a terra, rimanendovi immobile.
(Per un attimo, – mentre Lampo si era rizzato sulle zampe posteriori credetti che mi saltasse addosso ed ebbi veramente paura).
Tagliargli la testa, aprirgli la pancia e sventrarlo, fu breve cosa, forse un quarto d’ora.
Quando il bestione fu svuotato dalle budella, l’infermiere, che fino a quel momento, non aveva parlato, né aveva mosso un dito, si fece avanti, e con un procedimento che non afferrai, tanto fu veloce, scuoiò il cane; allora io e il mio compagno che aveva pensato anche a questo, estrasse, di sotto la giacca, una piccola scure, ci demmo da fare; facemmo a quarti la bestia, e, tre li nascondemmo dentro il tombino; otturandolo poi, ai due imbocchi, con alcune zolle di terra.
Il quarto, avvolto, in un sacco bagnato, lo presi io, e tutti e tre, a passo spedito, – perché eravamo un poco in ritardo – ci avviammo verso il «Ferri».
Giuntivi, il mio compagno e l’infermiere, che aveva gettato la pelle del cane in un cespuglio, entrarono in reparto, mentre io rimanevo fuori, col quarto del cane, avvolto nel sacco bagnato.
Mi appostai raggomitolando mi perché il caposala non mi vedesse dall’interno – mi appostai vicino al finestrino, (senza sbarre) che dava sullo stanzino, ove c’era la caldaia che riscaldava l’acqua.
I miei due «complici» scesa la scala senza essere notati, aprirono dall’interno il finestrino attraverso il quale feci passare il «corpo del reato».
Dopo di che, suonai il campanello della porta d’ingresso, entrai (ché mi aveva aperto il caposala) e scesi anch’io nel sotterraneo.
(Capitava di frequente che l’uno o l’altro degli addetti ai servizi generali, si attardasse un poco lungo la strada; nessuno aveva alcunché da dire).
Con quel primo pezzo di carne, mangiammo tre volte; poi, uno alla volta, sempre con la medesima procedura, portammo anche gli altri quarti del cane, che mangiammo lietamente, alla faccia del direttore.
Il quale direttore, alla sparizione del cane, (credeva che lo avessero catturato qualche tribù di zingari), alla sparizione del cane, dicevo, il direttore costernato fece pubblicare su tutti i giornali di Toscana, un breve inserto, con cui dava mille lire di mancia a chi gli portasse il cane.