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Diario n°10 – il ritorno a casa

Memorie di un internato psichiatrico
[Volterra. Manicomio giudiziario]

Questo è uno degli estratti del libro “Memorie di un internato psichiatrico” edito da Fondazione Museo storico del Trentino, curato da Q. Antonelli e F. Ficco.

Trattasi di una raccolta di quaderni manoscritti da Antonio (nome di fantasia), internato psichiatrico dalla personalità «perversa» che narra la sua permanenza all’interno del manicomio.

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Diario n°10 – il ritorno a casa

Io rimasi a Volterra per ancora due anni, ed in quel frattempo, il direttore Sarteschi continuò le ricerche del suo cane; non abbandonò mai la spe­ranza di ritrovarlo.

Era quasi patetico.

Due giorni prima che partissi da Volterra, per tornare a casa, il direttore mi convocò nel suo ufficio.

(Il mio compagno di lavoro di due anni prima, intanto, era andato a casa; l’infer­miere C. era morto qualche mese prima, mettendo il piede, – in un suo piccolo podere, – su una mina di quelle cosidette «antitruppa». Saltò in aria tutto a brandelli).

Dunque verso il 10 di maggio 1946, il direttore mi fece accompagnare nel suo ufficio.

Era tetro: un neo che aveva sul mento gli tremava leggermente.

Come mi fui posto davanti alla sua scrivania, egli mi disse:

«Sei fortunato; sei proprio fortunato; ho saputo appena ieri, quello che tu, e gli altri due avete fatto del mio Lampo

«Le tue pratiche di dimis­sioni, salvo il nulla osta del giudice di sorveglianza sono terminate.»

«Doma­ni, o dopodomani giungerà anche il benestare da Pisa.»

«Ma se avessi sco­perto prima tutta la vostra trama contro il mio cane, ti assicuro che ti terrei coercito per un anno.»

«Ora vattene».

Ed io mi ritrovai nel mio reparto, con un piccolo singhiozzo di sollievo.

Ora non ero più ai «Servizi generali»; da sei mesi ormai.

Era accaduto, infatti, appunto sei mesi prima, che nel boschetto antistante il «Ferri» ero inciampato in una radice, che sporgeva dal terreno.

Caddi e mi fratturai il femore sinistro.

Dopo circa un paio di mesi ero nuovamente in piedi ristabilito.

Ma non volli più tornare al mio «antico» lavoro.

Me ne ero disinnamorato; vedevo tanti miei compagni, che se andavano a casa; ma sul mio conto, a questo riguardo, non intravedevo nulla di incorag­giante.

Era, intanto, ripresa in Italia, una certa normalità.

Le poste, sia pure con frequenti «intoppi» avevano ripreso a funzionare; i treni, pur con molte limitazioni ed irregolarità, avevano ripreso a percorrere la penisola, ed io, avevo riallacciato la corrispondenza epistolare, da mesi interrotta, con la mia famiglia.

Ma ero piombato in una specie di abulia, che nulla pareva debellare.

Il vitto che ci passavano ora era notevolmente migliora­to; ed io mi accontentavo di vegetare, all’ombra, un tempo detestata, ed ora, più o meno bene, tollerata, del padiglione «Ferri».

Non avevo più amici, non parlavo quasi più con nessuno; andavo in refet­torio – alle ore stabilite – assieme agli altri; andavo a letto la sera piuttosto presto; non leggevo giornali, che, da qualche tempo avevano ripreso a circolare nel padiglione.

Non giocavo a carte, camminavo poco, in cortile, standomene seduto, su una panchina, lunghe ore, con lo sguardo perso in lontananza, e i pensieri chissà dove.

Intanto passavano i mesi; un giorno, verso la metà di aprile del ’46 il primario mi chiamò ad audiendum verbum.

Ci andai, senza nessuna curiosità; (oramai più nulla pareva scuotermi; ancora un po’ e sarei di­ ventato catatonico).

Quando fui nel suo studio, il primario mi mostrò una lettera e me la fece osservare per un istante.

Riconobbi la calligrafia di mia madre; tuttavia rimasi indifferente ad aspettare che il medico par­lasse.

E parlò:

«Mi ha scritto tua madre, – mi disse, – ha fatto regolare domanda per riaverti a casa.»

«Credo che, tra un mese, sarai al tuo paese, a R. […].»

Poi aggiunse ancora qualche cosa d’altro, che non ricordo più.

Ed io, non molto scosso, né molto rallegrato dalla notizia comunicatami.

Intanto, in Italia erano accadute alcune importanti novità: Vittorio Ema­nuele III aveva abdicato in favore del figlio, che, mesi innanzi, era stato nominato «luogotenente del regno».

Il nuovo re aveva assunto il nome di Umberto II.

Ma erano gli ultimi guizzi della monarchia; l’istituto monarchico, che gli intrallazzi e i compromessi col fascismo, avevano indebolito e screditato, stava dando gli ultimi strattoni, in attesa della «mazzata» finale, che gli avrebbe assestato il «Referendum» del 2 giugno ’46.

La gente, nei paesi, nelle città, nelle campagne, si stava scrollando di dosso le ultime ragnatele che la guerra, finita un anno prima, gli aveva messo indosso.

Dovunque si ballava, si organizzavano «festival», si face­ vano riunioni più o meno importanti.

La campagna elettorale era nel suo pieno; comizi discorsi si sprecavano.

Qua e là, – ma specialmente nel Sud, – accadevano incidenti tra i sostenitori della repubblica e partigiani della monarchia; e, qualche volta, ci scappava il morto.

I tribunali e le corti d’assise lavoravano sodo.

C’era ancora la pena di morte, in Italia, per certi reati, particolarmente gravi, e, ogni tanto si aveva notizia della fucilazione di qualche omicida.

Nei dintorni di Roma la polizia aveva arrestato il cosidetto «mostro della Salaria», Ernesto Pecchioni [Ernesto Picchioni n.d.r.], che ave­va ammazzato quattro o cinque persone, e che alcuni mesi dopo beneficiando di non so quali attenuanti, veniva condannato all’ergasto­lo.

Nel carcere mandamentale di Montebelluna, un gruppo di ex parti­giani della zona, assalitolo di notte, ne levavano alcuni detenuti, grave­mente compromessi col fascismo, e ne facevano giustizia sommaria fuci­landoli.

Nel cosidetto «triangolo industriale» che comprendeva parte del­ la Lombardia e parte del Piemonte, operava la banda di Ezio Berri [Ezio Barbieri N.d.r.], che in uno scontro con la polizia nel corso d’una delle solite rapine veniva ucciso [Ezio Barbieri in realtà fu catturato, fu Sandro Bezzi, membro della banda a perire N.d.r.].

Insomma, tutto era in movimento, solo io, al «Ferri» restavo chiuso nella mia torre d’avorio, dell’apatia, che mi aveva preso.

Come Dio volle, co­munque, il 12 maggio ‘46 fui dimesso.

Un infermiere, la mattina, verso le 6, mi accompagnò in città, mi diede il «foglio di via» staccato il giorno prima dalla polizia volterrana a mio riguardo; mi consegnò una certa somma di denaro, elargitami da un fondo di assistenza, collegato col manicomio, e stette lì fino a quando lo sgangherato camion a metano, – che sostituiva la ferrovia, non ancora riparata dopo il bombardamento del 16 gennaio ‘44, – non si avviò alla pianura.

Giunsi a R. trenta ore dopo.

Il camion, infatti, mi aveva sbarcato a Cecina, dove avevo aspet­tato fino alle 4 del pomeriggio il lungo treno, (vagoni merci) che prove­niente da Civitavecchia mi portò fino a Bologna.

A Bologna altra lunga e snervante attesa.

Come Dio volle, comunque, morto di stanchezza, arri­vai a R. […].

Giunsi a casa, verso le 13 di quel giorno ed appena entrato nel vasto cortile antistante, vidi, e riconobbi immediatamente la mia so­rella più piccola G. che avevo lasciata bambinetta di 3 anni, e che, ora, vedevo quasi alle soglie dell’adolescenza.

La piccola non mi riconobbe; e, siccome, era andata con un secchio ad attingere acqua alla fontana del cortile, mi offrii io di portarglielo fino a casa.

Dopo qualche esitazio­ne la bambina mi consegnò il secchio, – che era pieno solo a metà, in quanto G. non era capace di portarlo colmo – io tornai alla fontana, riempii il secchio, poi, preceduto dalla mia sorellina, mi avviai verso l’ap­ partamento della mia famiglia.

Io, – l’ho già detto – non ho mai avuto molto affetto per i bambini.

Ma al vedere la più giovane delle mie sorelle, così cresciutella, così grandicella, mi sentivo struggere da una inusitata sensazione di tenerezza.

Dovevo faticare, per non allungare la mano ed accarezzarle i capelli biondi.

Ma temevo che così facendo la bambina si sarebbe maggiormente intimorita, ed io non volevo che la prima impres­sione «cosciente» che la piccola ricevesse di me fosse negativa.

Come arrivai in casa, mia madre, per la gioia lasciò cadere la bottiglia d’olio che aveva in mano e che si ruppe.

Io sono piuttosto superstizioso, e, da quel piccolo incidente, arguii che la pace della famiglia non sarebbe du­rata a lungo per me.

Continua…

Diario n°10 – il ritorno a casa