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Memorie di un internato psichiatrico
[Volterra. Manicomio giudiziario]

Questo è uno degli estratti del libro “Memorie di un internato psichiatrico” edito da Fondazione Museo storico del Trentino, curato da Q. Antonelli e F. Ficco.

Trattasi di una raccolta di quaderni manoscritti da Antonio (nome di fantasia), internato psichiatrico dalla personalità «perversa» che narra la sua permanenza all’interno del manicomio.

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Diario n°2: Il reparto Ferri

Il padiglione «Ferri» era grande, costruito di recente (1935).

Ma mancava di alcune infrastrutture essenziali, la principale delle quali era il riscalda­mento.

Pare impossibile: si saranno spesi molti bei soldoni per metterlo in piedi; cosa ci voleva, ad aggiungere ancora altri pochi, e dotare l’impianto del sistema di riscaldamento centrale?

Una domanda questa che si do­vrebbe porre al progettista; ma egli è già morto da anni.

E intanto, (gli inverni sono molto freddi, – anche a causa del vento, quasi costante, in quei paraggi – ), intanto, dicevo, l’inverno del 1940-’41, fu un vero martirio per me.

Vestito di abiti molto leggeri; – perché non avevano ritenuto, a suo tempo, di munirci di abiti invernali.

Era impossibile farsi venire indumenti da casa; l’ospedale non voleva farsi una propaganda negativa.

Considera­to, allora, al pari di quello di Bizzozzero (Varese), uno stabilimento manicomiale modello, – vanto del regime allora imperante in Italia, non si potevano ammettere certe deficenze (troppo gravi per essere giustificate), che ne inficiavano il funzionamento.

Tuttavia, – benché, come dissi, fossi stato costretto a sopportare l’inverno, con vestiti non adatti a quella stagio­ne, – riuscii a giungere fino al marzo del ’41, senz’altri inconvenienti che quello di avere sempre freddo; per difendermi da esso, ricordo, facevo come quasi tutti gli altri: siccome avevamo ognuno due coperte misere misere, tutte rattoppate e lise, qualcuno aveva scoperto un modo, piutto­sto originale, per difendersi almeno la notte dai rigori della stagione: si prendevano le coperte e si distendevano direttamente sulla rete del letto, ci si buttava sopra, e ci si tirava addosso il materasso, che, per essere anche quello parecchio come l’arca di Noè, non era molto rigido, ed era, così, possibile, coprirsi anche i fianchi.

Naturalmente si dormiva vestiti, sia pure senza scarpe; con la conseguenza che, di giorno, si sentiva più forte il pizzicare del freddo.

La mattina, alle sette, sveglia poi pulizia personale, (io non mi lavavo mai; un po’ per poltroneria, e, molto perché l’acqua era fredda, ed io, e alcuni altri come me non si lavavano, eravamo dell’opinio­ne che il freddo pungente del locale delle fontanelle, era troppo, perché rischiassimo di prenderci una polmonite).

Dopo avere rifatto, ognuno, il nostro letto, e dopo che pochi temerari, si erano lavati, si scendeva al piano di sotto, in refettorio.

Pane e caffè: ma chiamare «caffè», quell’intru­glio nero, – ottenuto colle ghiande torrefatte; – chiamarlo caffè dicevo, era un sacrilegio.

E per di più, quando arrivamo noi, in refettorio, era anche freddo.

Il pane, poi: un biscotto «Perugina» è molto più grande del pane che ci davano a colazione.

E, per di più, la farina con la quale era confezionata, era «abburattata» all’80%.

Vale a dire, con parole più semplici, che il 20%, era farina di frumento, ed il resto era costituito da uno di quei prodotti di alta alchimia, nella quale, i mugnai del tempo erano versatissimi.

Dopo la co­lazione, – il cui unico risultato era stato quello di rendere ancor più rabbio­sa la fame che ci attanagliava, – dopo colazione, dicevo, ci facevano entra­re in una stanza, che, per unico mobiglio aveva quattro lunghi tavoli, che accostati per il verso della lunghezza raggiungevano quasi per intero la lunghezza del locale.

Intorno ai tavoli alcune panchine luride e sganghera­te.

Il periplo di tutta questa attrezzatura, lo facevamo noi, camminando continuamente, per difenderci dal freddo, e consumando, così, più ener­gia, col risultato che il freddo, lo sentivamo sempre più.

Scarpe non ne avevamo, sostituiteci, vari mesi prima, da zoccoli di legno, che, per il no­stro continuo camminare, davano l’impressione di uno squadrone di ca­valleria, in movimento sul «pavé» di piazza san Pietro, a Roma.

Eravamo tutti pallidi e smunti, per la fame; cioè non tutti; c’erano alcuni infatti che, avendo il privilegio di avere la famiglia residente in un paesino non lonta­no da Volterra, ne ricevevano frequenti visite.

E le visite dei parenti, – a quel tempo, ed in quel luogo, – volevano dire arrivo di pane, formaggio, salame, (od anche solo di patate, come era per qualcuno) in abbondanza.

La mia famiglia era a quattrocento chilometri, da Volterra, e, per di più; non avevo nemmeno potuto informarla su quali erano le mie condizioni.

La fame, nel frattempo, si era fatta ancor più nera.

Le patate ci erano state levate e sostituite con una rapa.

Cos’è una rapa?

L’infimo degli ortaggi; privo di proteine e di vitamine.

Non la si dà nemmeno al maiale, se lo si vuole ingrassare.

Una rapa, dal punto di vista calorico e vitaminico, la si può definire con una parola sola: zero.

Eppure, noi mangiavamo anche la rapa; la mangiavamo con la stessa compunzione con cui sgranocchiavamo le fave secche e i ceci abbrustoliti.

Prima di andare a Volterra, non avevo mai mangiato le fave, né i ceci.

Anzi, non li avevo nemmeno mai visti, (qui in Trentino credo non li coltivi­no in nessun luogo); ne avevo sentito parlare, come di cosa, però, molto bassa, nella scala dei valori alimentari.

Arrivato a Volterra, invece, – quan­do la fame cominciò ad incalzare – provai a mangiarne anch’io di fave e di ceci.

Le fave, cotte, sono completamente neutre: non sanno di niente.

Crude, invece, con un pizzico di sale, e – se c’è – anche una goccia d’olio, si lasciano mangiare agevolmente, anche a prescindere dalla fame.

Come dicevo, dunque, ci barattarono il supplemento vitto, costituito da 3 o 4 patate bollite, con una rapa, ugualmente lessa.

Verso la fine di marzo di quell’anno, io, che pure, come ho detto, non avevo nessuna voglia di lavo­rare, pressoché gratis, in quel luogo, chiesi di essere aggregato alla squadra dei calzolai.

Non che quello fosse un posto privilegiato, rispetto agli altri lavori.

Ma avevo notato che il responsabile del laboratorio in parola – A. C., fratello dell’ispettore – andava frequentemente, accompagnato da qualcuno dei suoi lavoranti, in qualche padiglione, a portare le scarpe rattop­pate, od a prendere quelle da riparare.

D’altra parte, quel lavoro era semplicemente schifoso: ci capitavano in mano certe scarpe, – unte, nere, indecenti, – che si vedeva subito, erano state trascinate in tutti i cessi del padiglione.

Andai, dunque, coi calzolai, e, in poco tempo, (tenevo a mettere in vista la mia – solo apparente, però – buona volontà); in poco tempo, dunque, imparai a fare lo spago, e a met­terci la setola.

In calzoleria, – tra gli altri sette o otto, quanti eravamo – c’era un certo S., (ne ricordo solo il cognome), che, dato che era il più fidato di tutti, andava spesso in giro per l’ospedale, coi più svariati incarichi, – e ritornava, con ogni ben di Dio.

Trafficone, imbonitore, trappolone matri­colato, se ce n’era uno, sapeva sempre, dove poter acquistare le varie cose di cui avevamo bisogno.

Patate, rape, barbabietole, (da foraggio) buone anche quelle, che, però, ad usarne troppo abbondantemente, mettevano indosso una «caccarella» tremenda.

E poi castagne, (benché la stagione per queste fosse finita da mesi); ogni cosa insomma che fosse idonea a calmare la fame, che, allora, era il nostro cruccio assillante.

In calzoleria egli disponeva di un vecchio armadio, tutto tarlato, nel quale chiudeva quei suoi tesori.

Lui, con quello che procurava andando intorno, trafficava in reparto, al ritorno dal lavoro; ma anche di noi, suoi compagni di labora­torio, egli si ricordava: in laboratorio c’era un grande recipiente di rame, nel quale, con la «carbonella» vale a dire col carbone di legna, si teneva vivo un ampio braciere, che aveva il compito di riscaldare il locale, nei mesi invernali; a Volterra quegli aggeggi li chiamano «caldani», e se ne trovavano in ogni angolo, d’inverno nel reparto.

Nel caldano, il S., mette­va le patate, collocandole in un piccolo secchio.

Ma eravamo, su per giù, una decina, in tutti, e le patate che poteva contenere il pentolino erano, al massimo, un chilo.

Sicché, con mezza patata per ciascuno, eravamo «pa­gati».

Ad ogni modo, meglio di niente.

Un giorno, poi, pensai di scrivere al diret­tore, – che era il prof. Umberto Sarteschi, – per chiedergli un abboccamen­to.

Volevo vedere se, lui, – dopo che mi ero inutilmente rivolto al dott. Mazzei, – acconsentiva a trovarmi un lavoro diverso dalla calzoleria; nella quale, dopo i primi giorni di euforica attesa, mi ero accorto, che per la mia non conoscenza del mestiere, per la poca attitudine ad impararlo, sarei sempre stato l’ultima ruota del carro.

Andare, di persona, dal prof. Sarteschi era una cosa nemmeno da pensar­ci, se non c’era il benestare dell’onnipotente dott. Mazzei.

Pensai, così, come dicevo, di scrivergli una lettera.

Dopo averla consegnata al caposala, per l’inoltro, attesi.

Attesi dieci giorni, poi posi in atto un piano, il cui cla­more, – pensavo, – avrebbe forse «scosso» il direttore.

La mattina del 5 aprile 1941, verso le dieci, dissi al capo della calzoleria che avevo bisogno di andare al cesso.

Ottenutone il permesso, uscii dalla baracca-laboratorio, e mi diressi verso il gabinetto, che era posto, in un luogo un po’ isolato ad una cinquantina di metri di distanza.

Vicino allo sgabuzzino che serviva da cesso, ricordo, c’era un piccolo muro, alto forse un metro e mezzo; al di là di questo muro, scorreva la strada che dal «Ferri» portava verso gli altri padiglioni e la cucina.

Scavalcai il fragile ostacolo, e mi trovai sulla strada.

Sapevo per sentito dire che, ad un certo punto di quel percorso, c’era una siepe di rovi, nella quale, un grosso buco, permetteva di raggiungere la strada comunale che, in quel luogo, correva parallela a quella del manico­mio.

Non mi misi nemmeno a correre, – quando fui sulla strada comunale – ero calmo, in quel momento, perché vedevo che il mio piano si stava realizzando, molto agevolmente.

Dove la strada che percorrevo, fiancheg­giava la stazione, mi fermai, un attimo, per vedere la situazione.

Montai sul mozzicone di un tronco d’albero, che, a lato della strada, sporgeva dalla terra di circa mezzo metro.

Non vidi nulla, che mi allarmasse: non infer­mieri, nessun movimento sospetto.

Tutto calmo, insomma.

Pensai che, pro­babilmente, il capo dei calzolai non si era ancora accorto della mia parten­za.

Feci ancora un centinaio di metri, su quella strada, quindi sboccai sullo splendido «Viale dei ponti».

Una cosa stupenda, veramente.

Di lì si poteva vedere la Maremma fino quasi a Grosseto.

Decine di piccoli paesi punteg­giavano il panorama.

Cominciai a salire lungo il viale, (il tratto tra la stazio­ne ferroviaria e la «porta dell’arco» ingresso della città, è tutto in leggera, costante salita).

Camminai per circa un quarto d’ora, fin che vidi le prime case, poi, scorgendo una donna che camminava sul ciglio della strada, con un secchio d’acqua, le chiesi dove si trovasse la caserma dei carabi­nieri.

Avuta l’indicazione, poiché non era molto lontana vi giunsi in cinque minuti.

Suonai il campanello.

Il cuore mi batteva forte, in quel momento; un po’ per avere percorso piuttosto velocemente la salita; e molto, perché mi rendevo conto che quello era proprio il momento cruciale: o facevo centro, e raggiungevo lo scopo che mi ero prefisso; o fallivo, ed allora sarei ripiombato nel fondo della Gehenna, con la prospettiva di non uscire che a scadenza molto lunga.

Venne il piantone, aprì la porta; mi guardò un attimo stupito, forse allarmato, avendo riconosciuto il vestito che portavo.

Poi mi chiese cosa volevo. «Desidero parlare col maresciallo», risposi.

Il piantone fece un passo di lato, e mi lasciò entrare; poi rinchiuse la porta.

L’ufficio del maresciallo aveva la porta socchiusa, per cui il sottoufficiale, si fece sull’uscio e aprì la porta del tutto per farmi entrare.

Entrato che fui, rimanendo in piedi davanti alla scrivania del maresciallo, gli dissi di dove sono, come mi chiamo; quindi arrivai al nocciolo della questione «Sono partito dal manicomio – dissi – non per l’evasione in sé. Io con questo atto, intendo richiamare su di me l’attenzione del direttore.

Gli ho scritto più di dieci giorni orsono, chiedendogli di consentirmi un abboc­camento con lui».

E proseguii, dicendo al maresciallo come mi trovassi, da più di un mese, nel laboratorio dei calzolai; come si stesse in quel luogo, (omettendo naturalmente il nome del S., e la storia delle sue patate).

Il maresciallo mi aveva ascoltato con attenzione; quando ebbi finito, si alzò dalla sedia e, sospirando come avesse dovuto affrontare un lavoro ingrato e fastidioso disse: «Ora bisogna telefonare alla direzione del manicomio»; e incaricò della bisogna un appuntato che, seduto ad un tavolo poco lon­tano, davanti ad una «Olivetti» aveva ascoltato tutto, senza aprir bocca.

C’era un’usanza piuttosto barbara, a quel tempo, nel manicomio di Volterra, (ma anche qui, a Pergine, fino a 20-25 anni or sono): chi evadeva, quan­do era ripreso, veniva legato, e l’infermiere che lo aveva avuto in conse­gna, gli impartiva una severa lezione, a base di pugni, calci, schiaffi e via dicendo.

Per me, naturalmente, non si fece un’eccezione; appena fui ben fissato al letto, con la camicia di forza, e varie «fascette» che mi immobiliz­zavano braccia e gambe, gli infermieri uscirono dalla stanza e A. G., entrò di furia, e mi si buttò addosso, rantolando, tanto era la sua rabbia.

Mi malmenò, piuttosto severamente; per circa quindici minuti; dopodiché uscì con la stessa furia, con la quale era entrato.

La coercizione, quella volta, non durò molto a lungo, sette o otto giorni, salvo errore.

Ma il direttore, non mi consentì di parlare con lui.

Quando ritornai con gli altri degenti, ero disgustato e demoralizzato.

Passarono alcuni giorni, – circa una venti­na – ed un mattino ebbi sentore di una cosa che mi galvanizzò.

Il prof. Sarteschi, il direttore, sarebbe passato, nella mattinata, al padiglione «Fer­ri».

lo non stavo nella pelle, dall’agitazione, mentre gli infermieri, e i loro accoliti, si davano da fare per la solita «commedia», cioè pulire, spolvera­re, lucidare in modo speciale, quel giorno; diamine doveva passare il diret­tore.

Non lo dicevano, ma suppongo lo pensassero, – agitandosi frenetica­mente, in un carosello di ordini e contrordini, – scommetterei che lo pensa­vano: «Ma proprio oggi, doveva passare, quel rimbambito rompiscatole; non poteva aspettare fino a domani, che sono libero, no proprio oggi. Pare lo faccia apposta».

Il prof. Sarteschi, non era un volterrano; era di Pisa, e, nell’ambiente dei medici toscani, (come seppi dopo) era conside­rato come un originale; un’esteta raffinato, che aveva la casa – a Volterra – piena di ninnoli e cineserie varie.

Si sussurrava, anche, che avesse taluni vizi segreti, che, nelle notizie, che sull’argomento raccolsi io, non venivano specificati.

Egli giunse, quel giorno, verso le dieci e mezzo.

Noi eravamo tutti in corti­le, ché era una giornata splendida.

Lo vedemmo, arrivare dalla ampia porta-finestra, ed affacciarsi, col viso vicino ai vetri.

Io mi feci largo violen­temente, tra quelli che erano davanti, e mi avvicinai a quel vetro, gridan­do: «Sono Antonio P; mi ascolti, professore, sono Antonio P».

Il direttore mi rivolse un’occhiata; ed ebbi l’impressione, – subito dopo – che cercasse con gli occhi il caposala, «per dirgli di aprire e di farmi entrare» pensai io.

Ma fu l’illusione d’un attimo.

Il prof. Sarteschi si allontanò lentamente, unendosi al gruppo degli altri medici, che si erano fermati, a poca distanza per attenderlo.

Un ricoverato, che era rimasto in corridoio, per non so che motivo, mi disse, poi che il direttore, all’atto di allontanarsi dalla porta, dalla quale, per un momento, aveva guardato noi, che eravamo in cortile, disse: «Andiamo, andiamo, che il mio naso soffre».

Nemmeno l’odore dei ricoverati, gli andava a genio.


Il padiglione «Ferri», a quel tempo, era la fiera dei volti più disparati: accanto ai palermitani, – piccoli e nerissimi, di capelli e di occhi, – c’era­no i bergamaschi dalla pelle chiara, dai capelli di un colore slavato, e dagli occhi azzurri.

Una sagra di dialetti, serpeggiava nel cortile all’ora di ricreazione.

Sardo e triestino; trentino e calabrese; piemontese e romagnolo.

Tutte le parlate d’Italia, si confondevano in una specie di yiddish, che le amalgamava; talché si poteva sentire un sardo, che, par­lava con un piemontese, usando un italiano, che era mille miglia lontano da quello dell’«accademia della crusca».

E lo stesso, poteva dirsi, del­l’eventuale colloquio tra un emiliano, – putacaso – e un calabrese.

Ma, in generale, i vari gruppi regionali, facevano vita a sé: passeggiavano tra di loro, discorrevano fra loro, – nei rispettivi dialetti s’intende -.

Solo nel gioco delle carte, – diffusissimo – si univano; ma era l’incontro del gatto con il topo, pieno di tensione, o di collera, secondo il caso.

Si giocava quasi sempre d’azzardo, – «zecchinetta», «sette e mezzo», «bazzica», «top­pa» ed altri di cui mi sfugge il nome.

Naturalmente, la posta non era denaro, – che non potevano portare in tasca – ma, in genere, pacchetti di tabacco, o sigarette sciolte.

Qualche volta, – ma di nascosto degli infer­mieri, – la posta era costituita dal preziosissimo pane, che veniva nasco­sto, ad occhi troppo indagatori, da larghi fogli di giornale, opportuna­ mente distesi.

Gli infermieri, in genere, chiudevano un occhio, – se, addi­rittura non partecipavano al gioco – ma, qualche volta, spinti ad agire dalla presenza del caposala intervenivano e sequestravano tutto: carte e posta.

Non contava protestare; anzi poteva essere pericoloso; se si recla­mava a voce troppo alta, infatti «la faccenda poteva incancrenirsi», e, invece di restare un semplice fatto, tra infermieri e ricoverato, ne veniva informato il caposala, che scriveva sul «rapporto» destinato al medico di reparto e, quando costui passava, la mattina dopo, erano guai per il ricoverato troppo contestatore che, generalmente, finiva legato.

Tra i tipi più rappresentati di quel mondo pittoresco e violento, ricordo un tale A. N. C., detto «scienziato».

Era un uomo sulla cinquantina, al quale piace­vano gli sbarbatelli; non ho mai capito, di dove fosse: a volte egli si dice­va triestino, a volte si dichiarava barese.

Quello che so, per certo, è che egli era un ebreo.

Me ne accorsi, un giorno, mentre, io e un gruppo d’altri ricoverati, – tutti nudi – si aspettava il nostro turno per entrare nelle piccole cabine.

Era tutto nudo anche lui e non so come mi cadde l’oc­chio sul suo pene.

Avevo già visto, altre volte, dei circoncisi; ora non potevo sbagliarmi: era circonciso anche lui.

Era come ho detto affetto da ebefilia (sinonimo di pedofilia n.d.r.).

E, quando giunsi, a Volterra avevo vent’anni.

Egli mi adocchiò subito, mi si avvicinò e cominciò a parlare del più e del meno.

Senonché «avvertito» da una specie di «sesto senso» o altro, mi tenevo sulle mie, per non essere intrappolato.

Ad un certo punto, la stoccata decisiva; mi disse «se vieni con me al cesso, e mi fai una sega, ti dò un pacchetto di tabacco», (ho riferito la frase, brutale e perentoria, così, come la disse lui, senza eufemismi che la addolcissero un po’), io mi misi a ridere e gli risposi: «mio caro hai sbagliato indirizzo. Anch’io sono in giro per quel genere di spese».

Non si adontò; – e del resto, a quale titolo poteva adon­tarsi? – Scoppiò in una risata, poi sospirò e disse, con aria compunta: «Ho sbagliato, hai ragione tu», e mi lasciò solo.

Si era allontanato di forse una cinquantina di passi, che mi si avvicinò un uomo grasso e sudato che con aria «misteriosa» mi sussurrò: «Se ne andato finalmente quel maiale. Sta attento qui è un covo di finocchi. Attento ti ripeto. Scusa – soggiunse – hai una sigaretta?».

Ne avevo poche, ma gliene diedi una, perché il suo moralismo, – in quella specie di bolgia, in cui tutti avevano da nascondere qualche cosa, – mi parve quanto mai esilarante.

Avevo, poi, capito, inoltre, che tutto il suo intervento, era in funzione della siga­retta che voleva chiedermi.

Un altro individuo, che non ho dimenticato, è un calabrese, meschinello e magrolino.

[…]

Molto probabilmente era luetico; aveva la megalomania, per cui si era costruito uno strano copricapo: qualcosa di mezzo tra la mitria del vescovo e la feluca del­ l’ammiraglio.

Si era anche procurato alcune medaglie che non avevano nulla, però, di marziale.

Erano medaglie della cresima; medaglie di qualche santuario, più o meno celebre; insomma, una paccottiglia da pochi soldi, della qua­le, del resto, egli era fierissimo.

Un uomo assolutamente, e talmente innocuo, che non si capiva come avesse fatto ad ammazzare la moglie; (perché, questa era la causa del suo ricovero all’ospedale psichiatrico).

Si dichiarava «Imperatore» di non so più quale nazione e dichiarava che Volterra era caput mundi.

Il padiglione «Ferri», nel manicomio di Volterra, era il rifugium peccatorum di tutto; non solo per la particolare porzione di umanità, che ospitava, ma anche perché funzionava da centro di os­servazione, per tutti quelli che erano destinati in quel luogo.

L’osservazione vera e propria era ospitata in un reparto diretto dal caposala F.

Lungo lungo e stupido come era, aveva imposto, al suo re­parto, un genere di disciplina, che faceva venire alla memoria il «Paese dei balocchi» di collodiana memoria.

In quel reparto, si giocava a scac­chi, a dama, a tombola, ed a numerosi altri giochi che si potessero fare senza le carte.

Le carte, egli le odiava come il diavolo.

Voleva però – e qui sta in parte la sua stupidità – voleva, dico, che, quelli che si dedicava­no a quei passatempi, non parlassero, non dicessero, che tutto in [lacuna n.d.r.].

Pretesa assurda, come si può immaginare; ma se qualcuno, con una frase qualsiasi, con una parola «osava» rompere il silenzio, veniva subito prelevato dal singolare caposala, o – dietro suo ordine – da uno dei suoi infermieri; il temerario veniva rinchiuso nella sua stanza, e privato, per un giorno, della sua razione di pane.

E se qualcuno troverà un po’ ecces­siva questa misura, giovi ricordare, che il caposala in quel tempo e in quel luogo era il padreterno, e nessuno, e, raramente, il medico, osava contrastarlo.

continua

Diario n°2: Il reparto Ferri