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Memorie di un internato psichiatrico
[Volterra. Manicomio giudiziario]

Questo è uno degli estratti del libro “Memorie di un internato psichiatrico” edito da Fondazione Museo storico del Trentino, curato da Q. Antonelli e F. Ficco.

Trattasi di una raccolta di quaderni manoscritti da Antonio (nome di fantasia), internato psichiatrico dalla personalità «perversa» che narra la sua permanenza all’interno del manicomio.

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Memorie di un internato psichiatrico: la conta dei cucchiai

Nel mese di settembre del 1942 il prof. Sarteschi, ebbe un ripensamento, a proposito degli omosessuali.

Smantellare la comunità ospitata al Biffi, e rimandare tutti i degenti al reparto, nel quale risiedevano prima.

Io accolsi la notizia con sollievo: la mia presenza al Biffi, infatti, ora che non c’era più A., (ma ogni cosa, ogni angolo ogni panchina me lo faceva ricordare), mi era ridivenuta insostenibile.

Io non sono portato, attualmente, all’idea del suicidio; ma ci furono dei momenti, in cui, per vari motivi, cercai di togliermi la vita.

(Quello del 24 febbraio 1954, ad esempio, non fu un atto puramente dimostrativo).

Come ho detto dinanzi tornai al «Ferri».

[reparto ferri manicomio di volterra]

Ma ero come svuotato di ogni volontà.

Non mi importava niente che, s’avvicinasse l’inverno, ed avrei ripetuto l’esperienza, dei due precedenti.

Non aveva importanza, per me, che si patisse una fame furiosa; io non mi accorgevo di tutto questo, e di altre cose.

Non scrissi, nemmeno più, la quindicinale lettera a casa.

Ero diventato abulico ero refrattario alle novità ed alle emozioni.

Avevo, preso, – cosa che può apparire strana, giacché non lo facevo più, dai tempi in cui ero bambino – avevo preso, dico, a bagnare il letto (mi pare che questo fenomeno si chiami enuresi).

L’inverno tra il 1942 e il 1943, ricordo, fu così rigido, come non si era verificato da tanti anni.

Non c’era riscaldamento nel reparto; c’erano alcuni vetri sfondati, alle finestre del soggiorno, e, se nevicava e tirava vento, la neve entrava dalle finestre, abbassando ancor più, la già bassa temperatura del locale.

Il vitto era sempre lo stesso; una scodella (generalmente fredda) di cosidetta minestra, (due o tre «tubi» di pasta – non di più – che noi pescavamo, mostrandoceli l’un l’altro, per mostrare che uno ne aveva trovati 4, aveva la minestra più «spessa», di uno che ne avesse trovati 3).

Dopo la minestra veniva il secondo: una cucchiaiata di rape o di zucchine, con un nocciolo di carne; ma non più grande di una falange del mio dito mignolo.

Dopo mangiato, – ed era più fastidioso, se accadeva di sera – bisognava restare nel refettorio, fino a quando, in dispensa, non avevano contato i cucchiai.

E talvolta, giacché l’infermiere della dispensa, era un imbecille, e credeva di fare chissà quale esilarante scherzetto, – talvolta, dicevo, l’attesa in refettorio si protraeva anche per un’ora, un’ora e mezza, fino a che, quell’imbecille di dispensiere, non dava «via libera», comunicando che i cucchiai c’erano tutti.

Questo poteva accadere anche di sera; e noi aspettavamo, intirizziti.

Io, in quell’epoca meditavo seriamente di uccidermi, – non prima, però, pensavo tra me e me, di aver ammazzato qualcuno di questi «sbirri».

Passavano, per la mia mente, mille soluzioni possibili, di questo problema, ma tutte mostravano qualche lato deficiente.

Ero, sì, deciso ad ammazzare qualche infermiere, a patto, però, di non cadere vivo, nelle mani degli altri.

Lo sapevo bene che, in questo caso, costoro mi avrebbero «torturato», fino a farmi maledire il giorno in cui ero nato.

E tutte le soluzioni sulle quali fantasticavo, presentavano qualche incertezza a tale riguardo.

L’unico posto, nel quale si potesse godere il relativo tepore di un letto, era il reparto dei coerciti, – pensavamo in molti, confidandocelo reciprocamente – meglio legati a letto, che sciolti, in quella stanza «siberiana».

E fu il 23 gennaio 1943, che misi in atto un progetto lungamente vagheggiato.

Quel giorno, dopo il pranzo, mentre passavamo dal refettorio al soggiorno, mi levai uno zoccolo, e diedi tre o quattro zoccolate, nel vetro della portafinestra che dava sul refettorio degli infermieri.

Tre o quattro di essi, subito dopo, si precipitarono nel corridoio, mi videro, che ero lì, come imbambolato, con lo zoccolo ancora in mano, mi si buttarono addosso, scaraventandomi per terra, e, quando fui, raggomitolato, sul pavimento cominciarono a schiaffi e pugni e calci, mentre i miei compagni, abbruttiti dalla sofferenza e dal terrore, mi passavano vicino, senza quasi degnarmi di uno sguardo.

Come quelle «bestie» si furono sfogati, uno di essi mi afferrò per una gamba e mi trascinò fino ai piedi della scala, che portava al piano superiore, dove c’era il reparto dei coerciti, lì si fermò, mi diede altri due o tre calci e mi ingiunse di alzarmi.

Come potei, dolorante e intontito, mi rizzai in piedi, e, sempre seguito dal codazzo di quei «farisei» salii la scala, prendendo, per ogni scalino, un pugno nella schiena, da non so chi, di quelli che mi seguivano.


La vita riprendeva lentamente i suoi diritti.

Dopo la batosta seguita alla rottura di quel vetro, e la relativa coercizione di un mese, mi ero sforzato di scrollarmi di dosso quell’ignavia, che paralizzava qualunque tentativo di iniziativa, e mi aveva ridotto, su per giù, come una specie di robot.

La ripresa, giova dirlo, non era tutta opera mia; buona parte del merito, infatti, andava ad un giovane calabrese, E R, – un ragazzo, anche lui di vent’anni, come l’indimenticabile A. – che era tutto pepe e vivacità.

Piccolo – sarà stato un metro e sessanta, – riccioluto, con due occhi penetranti come un succhiello.

Era bene addentro, – assai più di A. – nei «misteri eleusini» dell’amore proibito.

Aveva sempre in tasca un libro, di piccole dimensioni, – era un’edizione economica dei Canti orfici di Dino Campana, l’infelice poeta toscano, morto nel 1931 nel manicomio di San Miniato.

I Canti orfici del Campana, non sono una facile lettura; hanno bisogno di essere ripensati e rimuginati più volte, per essere gustati appieno.

E F. P., non era precisamente preparato a simili cimenti.

Mi si era avvicinato, un giorno, nel soggiorno, che io ero immerso in un mondo di pensieri doloro si, mi aveva chiesto aiuto, per la comprensione di un paio di versi, la cui interpretazione gli riusciva ostica.

Come fosse venuto proprio da me, che,- fino ad allora – lo avevo totalmente ignorato francamente non lo so.

Fatto è, comunque, che, dopo che gli ebbi dato le richieste delucidazioni, mi chiese se gli permettevo di sedersi accanto a me.

lo gli risposi, che facesse pure; egli mi si mise vicino, col libro sempre aperto, in mano; lesse un po’; poi con un sospiro, chiuse di scatto il libro e si rivolse a me: «Di dove sei?» mi chiese.

Io non avevo molta voglia di chiacchiere banali, comunque, diedi soddisfazione alla sua domanda.

F. tacque, un momento, poi riprese:

«Io sono di F A., in provincia di Cosenza. Al mio paese siamo di lingua albanese; siamo i discendenti di quegli albanesi, che lasciarono la loro terra all’epoca della rivolta, contro i turchi, capeggiata da Scanderberg. Che, non hai mai sentito parlare di Giorgio Castriota? I turchi lo chiamavano Scanderberg – qualche cosa come Alessandro Bey. Bey, in lingua turca è un nome che si da alle persone che hanno un comando…».

Continuava a parlare, il giovane F; la sua voce sembrava un torrentello che fluisce di tra i sassi del suo alveolo; io, che, da principio, lo ascoltavo appena, cominciai ad interessarmi, a quella ridda di nomi, di dati e di precisazioni, che davano l’idea precisa, di come il calabrese fosse addentro nella storia della sua gente, e di come l’amasse.

Così, dopo tanto tempo, mi scossi un po’ dal torpore morale, nel quale vegetavo da tempo, e presi a dialogare con lui.

Benché di pochi studi, era, però di molta lettura, e possedeva un’intelligenza molto sveglia.

Egli, lo si capiva agevolmente, era un discolo, un ragazzo di strada, di quelli che, a Napoli, sono chiamati «guaglioni capuzzielli», ed a Palermo «carusi di sgarro».

Non aveva le finezze di A., ma era forse più spontaneo e più sincero.

Parlammo, un poco, di varie cose; poi venne l’ora della cena, ed andammo in refettorio.

F R, manovrò e brigò, fino a quando riuscì a piazzarsi, a tavola, proprio di fronte a me.

Come finimmo di mangiare, – cosa veloce – ritornammo nel soggiorno, ad aspettare l’ora di andare a letto.

Da qualche tempo, infatti, avevano mutato sistema: non rimanevamo più in refettorio, ad aspettare che finisse la «conta» dei cucchiai.

Questo, naturalmente, non cambiava, di molto, le cose.

Freddo, era il refettorio, ( eravamo ai primi di marzo), e freddo era il soggiorno.

E noi sospiravamo ugualmente, l’ora di andare a letto.

Intanto era avvenuto qualche cambiamento, nel manicomio.

Un anno e mezzo prima, – poco su, poco giù, – l’Italia aveva dichiarato guerra all’Unione Sovietica.

Fu il 21 giugno 1941.

Per qualche mese, le cose andarono piuttosto bene per l’«Asse», (così era chiamata l’alleanza politico-militare, che legava l’Italia alla Germania di Hitler, e molto più platonicamente, anche al Giappone).

Anche il Giappone, dopo la «castrata» che aveva dato agli Stati Uniti, (Pearl Harbor 11 dicembre 1941), aveva preso a collezionare vittorie su vittorie, ed avanza te su avanzate, nel settore asiatico.

continua…

Diario n°5: la conta dei cucchiai