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“Ho visto tante vite lì dentro, tante storie” di Giulia Tanzini

Foto storiche – © ManicomiodiVolterra.it

Autore:

Giulia Tanzini

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È con un po’ di emozione che mi siedo con penna e taccuino davanti al tavolo della cucina.

Stasera non riempirò questi fogli con parole mie, ma avrò orecchie e cuore pronte all’ascolto, sarò la custode dei ricordi di qualcun altro.

È la mia mamma la voce narrante di questo fulcro di storie, lei che si siede davanti a me un po’ in soggezione.

Le ho detto che avrei avuto bisogno del suo passato per tenere nel presente racconti che non andrebbero mai dimenticati.

Spero di ricordarmi tutto quanto” mi dice prima di prendere un bel respiro e iniziare.

Diversità per me non ha mai fatto parte di un mondo altro.

La mamma ha iniziato il suo lavoro d’infermiera nel reparto degli ex internati del manicomio psichiatrico di Volterra.

Per la me bambina salutare Pilade che passava a passeggio con la sua radiolina a tutto volume per la strada o ringraziare chi di loro bussava alla nostra porta per portarmi della cioccolata era quanto di più quotidiano potesse esserci.

Sono passati tanti anni, eppure basta un accenno a ciò che è stato per scatenare in mamma una serie di ricordi legati ai suoi primi anni trascorsi fra i locali dello Zacchia, il Mariani e i padiglioni dello Scabia.

“Ho visto tante vite lì dentro, tante storie.”

Il primo che le viene in mente, nella sua lunga lista di nomi, è il cosiddetto Bruciaboschi.

Con un sorriso le chiedo come si chiamasse davvero quest’uomo, ma lei non ha mai sentito altri nomi pronunciati al suo indirizzo.

Era conosciuto così e basta.

Bruciaboschi portava con sé una chitarra piccolina che era solito strimpellare, sedeva sempre sugli autobus facendo tutto il giro di Volterra e non si perdeva mai il trasporto di un funerale.

Si relazionava con alcuni infermieri della medicheria e a quanto pare, non essendo un grande amante del pesce, sapeva chi ingraziarsi per poter recuperare uova e cipolle così da farsi cucinare delle belle frittate che spargevano il loro odore per tutti i locali.

Aveva manifestato anche un’omosessualità latente, lo vedevano baciare e abbracciare spesso un altro ricoverato.

C’erano personalità di cui mia mamma, ancora oggi, ha fatto suoi certi modi di dire.

Da Argantino, che la moglie continuava ad andare a trovare, ha preso l’espressione “tra maggio e giugno” per riferirsi ad un qualcosa che accadeva con una certa rapidità, mentre dalla signora Gina che era stata internata all’epoca per depressione e che aveva una passione particolare nell’asciugare con accuratezza le stoviglie, il suo “non ti gaiare” ossia “non te la prendere”.

Non tutti però riuscivano a comunicare.

Mamma si sofferma a raccontarmi la storia di un uomo senza nome, reduce di guerra, che veniva dalla Jugoslavia e passava le sue giornate con lo sguardo legato alla parete, senza mai muoversi.

E di un’altra signora in là con l’età, probabilmente autistica, che senza farsi vedere rubava i lenzuoli dal carrello delle infermiere e le nascondeva dentro il proprio armadio.

Così da farci il corredo nuziale, aveva sussurrato una volta che era stata scoperta.

Soraya”, invece, era una bellissima donna e credendo di essere una principessa si era presa un nome che rispecchiasse in toto questa caratteristica.

Nessuno sapeva il suo vero nome, né lei aveva mai manifestato di ricordare un’identità diversa da quella.

Una volta pare che si fosse affacciata allo stanzino durante la cena trovando le infermiere che mangiavano i gamberoni.

Alla sua domanda su che cosa stessero cucinando, per saggiarne la reazione, un’infermiera le aveva detto che si erano appena servite un bel piatto di “ragnoli”.

Lei aveva strabuzzato gli occhi e completamente sconvolta aveva esclamato

“Ragni? Ma voi siete tutti matti!”

Pare fosse una chiacchierona: inventava racconti e li recitava a chiunque le prestasse un orecchio.

Ogni tanto si festeggiavano i compleanni e capitava che si cucinassero le mele fritte.

Aldemara ne andava ghiotta, teneva il naso all’insù per saggiarne l’odore che si diffondeva per tutto il corridoio dello Scabia.

Aspettava quei momenti contandoli ogni giorno sulle dita delle mani.

Alcune storie invece mamma fa più fatica a raccontarle.

Si ricorda di Marcellino, un ragazzo che si trovava lì per un ritardo mentale e continuava a chiedere in tono infantile dove si trovassero i suoi genitori, quando sarebbero venuti a portarlo a casa.

E di Giovanni, bellissimo, che non voleva essere guardato troppo a lungo perché altrimenti era capace di alzare le mani e colpire agli occhi.

Doveva imparare a gestire Maria, una sarta che veniva da Orciano Pisano che nella sua schizofrenia si gettava addosso agli altri nonostante la terapia.

Mia mamma a volte portava i capelli legati in una coda di cavallo e sapeva che quando lei le si rivolgeva dicendo “Oggi io quel pennacchio vicino non lo voglio” era la sua richiesta di essere lasciata in pace, di non avere troppe persone intorno ad infastidirla.

Il racconto procede così tra una storia e l’altra, immagini lontane ma vivide mentre l’ora di cena si avvicina.

La mamma è un fiume in piena e pian piano le parole si diradano, so che sta per arrivare ad una conclusione tenendo per sé l’immagine più forte, quella che l’ha colpita in un modo che a distanza di anni arriva ancora a farle male.

“Non so perché rispetto a tante altre, ma c’era questa ragazza. Potevi essere te. Non parlava. Se ne stava tutto il giorno affacciata alla finestra e una volta quando mi sono avvicinata a vedere come stava mi sono accorta che si era ustionata le mani sopra il termosifone. Si era bruciata entrambi i palmi e continuava comunque a tenerli lì sopra. Come se avesse freddo o volesse punirsi per qualcosa. Non so perché lo facesse, però nessuno se n’era accorto. Io non me ne ero accorta.”

Mamma ha lavorato nei reparti del residuo psichiatrico dal 15 febbraio 1989 fino ai primi mesi del 1993.

Nell’ottobre del 1990 sono nata io e a 4 anni, anche se per capire che su di me vigeva un’etichetta da manuale ci avrei messo ancora del tempo, sono diventata io stessa una “siblings”, “una sorella di”.

Autismo era una parola che sentivo pronunciare senza capire che cosa avesse a che fare con mio fratello, né perché tutti all’inizio fossero così preoccupati o pieni di riguardi nei nostri confronti.

La penna si ferma, il taccuino si chiude.

Certe storie non dovrebbero perdersi.

C’è bisogno di diffondere tutto il sapere necessario per poter promuovere consapevolezza ed empatia.

Per poter aspirare al rispetto, alla libertà e alla auto-rappresentanza, senza che nessuno si senta mai più un invisibile.

“Ho visto tante vite lì dentro, tante storie” di Giulia Tanzini

Giulia Tanzini

Mi chiamo Giulia e sono pessima con le presentazioni.

Lascio sempre parlare le parole al mio posto. Vengo da un passato come hostess di volo che mi ha fatta vivere nella terra dei folletti per un anno. Ad oggi mi circondo di tutto ciò che è arte, dal teatro al museo, fino alla scrittura che resta sempre il mio primo amore.

Sui social scrivo poesie, racconti personali e da quest’anno ho iniziato a proporre letture sulla diversità e il femminismo.

Ogni mese ci troviamo a parlare in live o tramite post, mentre il mio sito web di scrittura verrà inaugurato a breve.