D’Annunzio e Volterra
La città di vento e di macigno
Il 26 ottobre 1909 una grande automobile si fermava davanti all’Albergo Nazionale di Volterra, e ne scendeva Gabriele d’Annunzio.
Non era solo.
Lo accompagnava una signora russa, alta, snella, voce dolcissima, volto pensoso.
Era Donatella Cross, quella che avrebbe poi tradotto in francese Forse che sì forse che no, succeduta ad Amaranta nella serie amorosa del poeta, e da lui chiamata, secondo gli umori, « Diana caucasea » o « muliercula caucasea ».
Se ne venivano da Villa Peratoner (a Boccadarno), ribattezzata dal D’Annunziò « Villa delle Tempeste », la villa che pur aveva visti gli amori di Amaranta tragicamente finiti nella follia di lei; e D’Annunzio aveva Io scopo di « documentarsi » per il progettato « grande romanzo aviatorio ».
Giacché, dopo un discorso conviviale ed entusiastico di Corrado Ricci sulla bellezza volterrana, D’Annunzio aveva pensato per il Forse che si allo sfondo di Volterra.
La « città, di vento e di macigno » era già stata visitata al poeta, fugacemente, nel 1897; ne era nato il sonetto delle Città del silenzio che incomincia;
Su l’etrusche tue mura, erma Volterra…
e che finisce con la magica terzina:
Poi la mia carne inerte si compose
nel sarcofago sculto d’alabastro
ov’è Circe e il brutal suo beveraggio.
A esser precisi, il sarcofago d’alabastro non è che un’urna di tufo del Museo volterrano: ma queste sono le poetiche licenze che aggiungono senso e mistero alla poesia.
Era stata quella la « prima visione » dannunziana di Volterra; la « visione totale » sarebbe venuta ora – con il Forse che si, che il poeta ebbe poi cosi caro da esclamare un giorno:
«Che darei per avere ventisette anni. Anche Laus Vitae, anche Alcyone, anche Forse che sì forse che no ».
Tre Sirene
Tutte queste notizie e curiosità il lettore può trovare riunite in un gustoso volume di Luigi Pescetti, dal quale le togliamo; è il quarto « Quaderno dannunziano » pubblicato sotto gli auspici della Fondazione « Il Vittoriale degli Italiani » da Mondadori, e per l’appunto si Intitola: D’Annunzio e Volterra.
Continuiamo dunque la spigolatura.
In quell’ottobre 1909 la visita di D’Annunzio fu accuratissima.
Al Museo Guarnacci, nelle « piccole sale rosse e nere », egli si recò più volte, si soffermò tra le immagini d’oltretomba, tra i soggetti funebri delle urne, cercando stimoli e motivi alla contemplazione dell’occulto, a una simbologia da mettere in opera nelle pagine del romanzo.
Aldo e vana, sciagurati fratelli del Forse che si, si recheranno infatti al Museo a fare un po’ di rettorica estetizzante e decadente innanzi a un rilievo di Ulisse e delle tre Sirene.
E l’una potrebbe rappresentare l’Amore, l’altra la Morte, la terza l’Armonia, « loro divina sorella ».
E Aldo osserva: « Tutt’e tre sonavano istrumenti, facevano concerto ».
Ma una ha perduto il flauto, la terza ha perduto la lira, e soltanto quella di mezzo « soffia i suoi spiriti nelle sette canne di Pan ».
Il che, nelle intenzioni del parlatore, è pieno di significato.
Perchè dappertutto, come ben dice il Pescetti, « i due fratelli scorgevono indizi e presagi del loro destino incestuoso e sanguinoso ».
Ma oltre ogni dire suggestive sono le figure e le scene di viaggio negli Inferi, là, tra la vestigia del mondo etrusco; e v’è la nave « dalla vela ammainata, ove s’imbarca colui che deve trapassare, il commiato è senza lacrime »; v’è il giovane cavaliere che cavalca « tutto avvolto nel mantello, con la bocca nascosta dal lembo, pel lungo cammino senza ritorno…» e anche, da quella immensa tristezza, sorge il ricordo, o meglio il presentimento di Dante, il « grande Etrusco colora to dalia bile atra ».
E Aldo commenta: « Non hai mai pensato che Dante ha ripreso l’arte del dipintori di vasi e l’ha ingigantita col suo polso strapotente? Quasi tutta la prima cantica non è di figure rosse su fondo nero, di figure nere su fondo rosso? ».
Minuziosa, si è detto, fu la visita a Volterra.
Alla chiesa di San Girolamo — terrecotte robbiane e gentile « Annunciazione » di Benvenuto di Giovanni — i frati accolgono D’Annunzio festevolmente; nel vicino Frenocomio — il direttore Luigi Scabia sarà ricordato con affetto nel romanzo gli sono offerti garofani e crisantemi…
Poi li poeta si reca al Mastio « fortificato d’ingiustizia e di dolore », alla Balze, alla Badia dei Camaldolesi, agli Ipogei, alla Villa Inghirami.
Di notte — quadretto principio di secolo, quando ispirazione ed erotismo trovavano tra i monumenti Illustri e le orme del passato di che accendersi e saziarsi —, di notte si aggira per la piazza di Volterra, mentre Donatella sta seduta sul gradino del Palazzo del Priori.
E con il chiaro di luna si spinge alle fonti di Mandringa e di Docciòla, mentre nell’infinità notturna si scoperchiano i resti della gran cerchia etrusca.
All’Albergo Nazionale la signora Maria Benini, moglie del proprietario, « brava e piacevolissima ! massaia, gioconda e prosperosa », lo difendeva poi dal seccatori, e lo divertiva con le sue chiacchiere spiritose.
Amorosa pazzia
Il pregio di libri come questo, e di ricercatori sagaci e amabili come il Pescetti, è di mettervi a tu per tu con una certa vita, nascere crescere atteggiarsi, dell’opera d’arte e dell’artista; familiarità che molto aggiunge al gusto, al piacere della letteratura.
Perciò val la pena di metterli a contributo.
Allo Scabia scriveva D’Annunzio per avere dati, impressioni, sulle consuetudini del manicomio, per proporgli quesiti.
« Una signora affetta da delirio passionale in seguito a una tragedia d’amore molto cruda, è ricoverata In una villa vicino a San Girolamo. Il suo amico, separato da lei, tenta invano di raggiungerla… ».
E poi
« Può accadere (mi sembra di si, per un ricordo non abbastanza chiaro che io ho di un caso analogo), può accadere che nella demenza — causata da motivi passionali e incominciata passionalmente — avvenga a un tratto l’abolizione dell’affettività, per modo che la demente mostri una indifferenza totale (qualche volta con una tinta di repulsione) verso l’oggetto stesso della sua passione? ».
La signora delirante è la « divina » Isabella Inghirami di Forse che si; l’amico è Paolo Tarsia; il caso analogo è quello di Amaranta, di cui si legge nelle pagine di Solus ad solam…
Ma la famiglia Inghirami di tutte queste fantasie non poteva essere gran che soddisfatta.
Tra l’altro, una vivente Isabella Inghirami ne faceva parte, moglie al dottor Falchi Picchinesi; poco simpatica coincidenza.
Il D’Annunzio a sua volta si sorprese della sorpresa degli Inghirami, e alla minaccia di una azione giudiziaria rispondeva che anzi il libro non era che omaggio alla stirpe illustre; e che a celebrare il Leccione, Fedra l’umanista, e le altre glorie degli Inghirami, era stato necessario porre una Inghirami nel libro; e a Milano « vive un conte Paolo Tarsia, il quale graziosamente ha sorriso».
Cosi Il Poeta.
In quanto al Leccione, il grande albero che sovrasta con la splendida chioma il volterrano, palazzo Inghirami, il poeta lo fece simbolo e nume della famiglia: « tutti i segni dell’alta età e della lunga guerra facevano venerando l’albero. come lo stipite di una gente indomita ».
E di Tommaso Fedra’Inghirami pose il ritratto, « opera purpurea del Sanzio », nella sala del palazzo, nella parte vecchia, « quella delle bugne e delle bifore », ove Aldo e Vana coltivano tra musiche e discorsi ambigui la loro perversità.
Due soli quadri, scrive D’Annunzio, pendevano dalle pareti a riscontro, il ritratto di Fedra, e la « Deposizione » di quel Rosso fiorentino che il Vasari dice « bonissimo musico ».
Sennonché il quadro di Raffaello già da tempo era esulato a Boston, nella raccolta Gardner, e la « Deposizione » non era mal stata degli Inghirami.
Non vuol dire; lì dovevano essere, In fantasia, a fare più allusiva e fatale l’atmosfera, a offrire il destro allo scrittore per una di quelle sue interpretazioni pittorico-verbali ove la sottigliezza gareggia con l’eloquenza: « Già il vento della Resurrezione soffia intorno al legno sublime… ».
Le mani d’Isabella
Cita giustamente il Pescetti, dal romanzo, vari tratti Interpretativi ed evocativi, di molta efficacia: Volterra etrusca, Volterra medievale, sacro e profano confusi, paesaggio e passione commisti.
Della elegantissima « Annunciazione » la pervertita Isabella dice — e sarebbero le mani della Madonna —: « Le mie mani sono nella tavola di Benvenuto, lunghe, con un piccolo libro rosso ».
La fuga delle nuvole testimonia la saldezza delle mura, delle torri, delle porte, « che tra fumo e grumo ritenevano indelebili i colori dell’arsione e della strage ».
Per l’aspro luogo passa la furia dell’aria; «Notte e di, senza, tregua, la raffica vi simulava il selvaggio urlo che tante volte aveva agghiacciato il cuore della citta, funesta: «Sacco! Sacco! ».
E a descrivere le Balze volterrane strapiombanti, corrose dal di dentro, che. divallano, ingoiano chiese borghi monasteri ipogei mura antichissime (il poeta era sceso due volte in fondo alle Balze, cavalcando un muletto che nei passi più difficili si lasciava scivolare sulle natiche), a descrivere tanto orrore il poeta usa un linguaggio dantesco.
Nei taccuini aveva annotato: «Cerchi e bolge, come in Dante il cerchio che cinghia l’abisso – Fossa ritorta… ».
Ed ecco gli « scheggioni », le « bolge discoscese », le « rotte lacche » la « stagliata rocca al cui piede si ritrovò scosso dalla schiena di Gerione » il poeta dell’Inferno.
Tra cosi affocate visioni, tra tanta inumanità di passioni e di personaggi, è bello scorgere un tratto dolce e umano.
È Viviano, il demente, il pazzo docile, che Attinia, la custode della Badia dei Camaldolesi, tiene in casa.
Attinia, Viviano, il poeta li aveva presi dal vero.
Viviano che ama i bimbi; e sulle sue labbra riarse un misterioso sorriso pareva « il riflesso lontanissimo d’un movimento avvenuto nell’infinito gorgo della vita ».
Effetto di luna
Fascino arcano che ritorna dal tempo immemorabile.
« La luna insensibile saliva spandendo l’antico incanto, quel medesimo che nelle notti d’Etruria aveva ammollito le donne adorne giacenti su i coperchi delle urne… ».
Nel libro del Pescetti la città rivive nella sua doppia natura, quella storica e quella irreale e fantastica.
Pensando all’oro matto delle pietre volterrane, al « biancore desolante della sua terra convulsa », D’Annunzio aveva pensato di essere alle soglie di un capolavoro.
« Volterra avrà in me il suo poeta! ».
Del « capolavoro» la critica giudicò poi diversamente; di Volterra il poeta diventò cittadino onorario.
E, non senza orgoglio, all’Accademia dei Sepolti, che lo aveva fatto socio, rispondeva con uno dei consueti giochi verbali: «Grazie perenni alla gloriosa Accademia dei Sepolti nel culto della resurrezione. Gabriele d’Annunzio detto il Volterrano ».
f. b.