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Dalla Casa di espiazione e dalla Casa del dolore

Impressioni e ricordi di una gita a Volterra

  • Data di pubblicazione:
    25 Luglio 1908
  • Titolo:
    Dalla Casa di espiazione e dalla Casa del dolore
  • Testata giornalistica:
    La Vampa

Il Frenocomio di S. Girolamo – i pazzi lasciati liberi

Lo stradale bianco e polveroso che da Volterra mena al Manicomio arrampicato sopra un’altura, serpeggia a lungo tra le colline verdissime come una biscia enorme addormentata nel tepore meridiano; lentamente noi salivamo, seduti dentro ad una traballante diligenza, tirata da due cavalli bianchi, le cui sonagliere echeggiavano argentine tra le balze circostanti.

La città a poco a poco scompariva nel fondo lontano.

Dai monti cupi che chiudono tutta la valle si avanzavano nuvole grigiastre, dense di pioggia primaverile.

Un riflesso vivo era per tutto li chiarore accecante della vicina, bufera estiva.

Dopo un’ora di cammino monotono, giungemmo finalmente al «giardino della follia», dove l’egregio dottor Scabia e II dottor Benini ci attendevano.

Fin dal momento in coi la vettura era entrata nel recinto cancellato dello stabilimento, avevo osservato molti uomini dall’abito di tela azzurra e bianca, che passeggiavano, lavoravano o sedevano lungo la via, ma non avrei mai, neppur lontanamente, immaginato che fossero gli inquilini del Manicomio se il dottor Scabia non me lo avesse detto.

A parte l’abito caratteristico (un abito che li fa somigliare a fattori o guardie campestri) nulla nel loro volto mi rivelava un triste verità.

Essi sono i più docili e i più calmi e noi — diceva II Direttore — li mandiamo liberi anche in paese e presso le loro famiglie.

In un raggio di poche miglia all’intorno, moltissime famiglie coloniche hanno, per alcune ore del giorno, i poveri parenti infermi con loro.

Ma, osservai, i pazzi vengono lasciati così liberi sempre!

Sempre!

Voi avrete agio di vederli dentro lo stabilimento; uomini e donne son tutti liberi di girare e di fare ciò che vogliono (nei limiti, beninteso, della disciplina interna) e si trovano – posso con vero piacere notarlo — completamente bene.

Anzi, è degno di esser considerato Io spirito di comunione e di affinità e di affiatamento che esiste fra tutti questi infelici.

Il Direttore, seguito da altri medici (tutti in cappa di tela bianca) entrò con noi nella stanza della Direzione, ove la maggior parte del mobilio è stata fabbricata dagli alienati stessi.

Vidi un scrivania elegante, a cassettoni e una libreria alta e bellissima: tutto era stato fatto dai poveri rinchiusi nel Manicomio.

I miracoli della midolla del pane

Da quest’ultimo mobile il dottor Scabia estrasse alcuni balocchi lavorati molto finemente dai folli; osservai dei fantoccini in creta, con lineamenti strani, insieme umani e bestiali, (che mi ricordavano gli idoli egizi ritrovati presso le Piramidi) le cui membra erano unite per mezzo di fili di ferro al rozzo tronco.

Questi li fa una vecchia pazza, disse il Direttore, e li fa velocemente senza nemmeno accorgersene, tenendo le mani sotto il grembiale

Ci presentò quindi diversi fantocci di legno raffiguranti un bersagliere, un generale, un monaco, tutti colorati con tinte naturali e con scrupolosa osservanza del vero.

Vidi altri lavori, più specialmente di pazienza, come un calvario con le sue croci sul monte, due alberi verdi, le scale, il tutto piccolissimo fatto con mollica di pane, steccolini, sassetti e pagliuzze e racchiuso entro una boccettina di vetro bianco.

Non potei fare a meno di stupire nel pensare quanta diligenza, quanto tempo ci siano voluti a costruire quella scenetta religiosa facendo passare ad una ad una le piccole parti del materiale dal collo stretto della bottiglina e fissandolo con gomma o colla nel fondo.

Infine uscimmo da quella stanza e ci avviamo verso l’interno del Frenocomio.

Diretto da quel bravissimo alienista che è il dottor Scabia, coadiuvato da sanitari scrupolosi e valenti, lo stabilimento dei matti presenta condizione di floridezza invidiabili.

Dappertutto vidi ordine, pulizia estrema, osservanza delle regole dell’igiene, comodità, semplicità e anche buon gusto.

Nulla veramente è stato trascurato per rendere il luogo una delle migliori case del genere che abbiamo in Italia, e so che raramente vi accadono fatti dolorosi e gravi.

Anche la media della mortalità da qualche anno a questa parte vi è notevolmente diminuita.

Davvero che a primo aspetto viene la voglia di passare un mese lì dentro.

Espressi questo mio pensiero al Direttore.

– Pensate così, mi rispose, perché non sapete, non potete sapere ancora quanta tristezza, quanti dolori, quanto strazio vi sono.

Vedrete tutto da voi stesso, ora, e vi assicuro che uscendo di qui, cambiate idea.

Un ingegnere si reputa senatore

Mi volsi in quel momento sentendo questionare presso a me: era un individuo di media statura, dal volto bruno e simpatico, dall’occhio vivo e intelligente, un uomo anziano, (come dimostravano i capelli e folti baffi leggermente brizzolati) che ad alta voce si lamentava della poca cura del Re d’Italia nel rispondere alle sue lettere.

– Capite, esclamava, a me, a un senatore del Regno, non ha mai risposto.

E io voglio assolutamente avere l’autorizzazione di andare domani, 29 maggio, sui campi di Curtatone e Montanara dove sono caduti combattendo alcuni parenti miei.

– Chi è quello?, interrogai.

– domandateglielo voi stesso, mi suggerì il Direttore.

E l’uomo, togliendosi di bocca un mezzo sigaro, mi rispose: sono l’ingegnere Emilio S. di Livorno, senatore del regno, mi rispose con voce ferma.

Livornese?

Interruppe uno dei colleghi.

Anch’io sono livornese!

I due fecero subito amicizia.

Il disgraziato abbracciò il collega calorosamente, parlo di mille persone e di mille cose ad ambedue, ben note e di cento conoscenze comuni.

Egli parlò anche della sua famiglia che aveva conosciuto quand’era sano di mente, gliene chiese notizia.

Sapemmo allora dal dott. Scabia che l’infelice ingegnere, uomo del resto molto intelligente e stimato, era affetto da alienazione mentale, da megalomania, reputandosi senatore.

– Non sapendo però della sua innocente fissazione, seguitò il Direttore, non si può far altro che ammirare la sua acutezza intellettuale, il suo bel carattere e la sua giovialità franca e sincera.

Raramente dobbiamo tenerlo rinchiuso: perlopiù è liberissimo di girare, parlare, scrivere (e scrive sempre ad amici, parenti e notabilità del parlamento chiedendo giustizia e libertà).

Anzi, sta sempre con me, ci diamo del «tu» e mi sorprendono spesso la sua arguzia e i suoi scatti di comicità e di ironia.

Il senatore ci venne accanto, preso a braccetto il collega concittadino e ci accompagnò nel cammino in quella casa quiete e bella. 

Le donne – La Sora C. di Pisa

Passammo nelle camerate delle donne: lunghi e larghi stanzoni rettangolari con nobilissime finestre rispondenti nel giardino; cameroni nitidi pieni di letti candidi e puliti.

Seduta nell’ultimo letto era una donna magra, bassa, dai capelli lisci, la pelle giallastra, gli occhi strambi su cui continuamente le palpebre si abbassavano.

La fisionomia – che non mi parve sconosciuta – era di una mobilità incredibile: le labbra specialmente brevi, strette, imperiose.

– Questa, disse il Direttore, è la Sora C… Di Pisa.

Era infatti lei, e ricordammo i ridicoli e tristi episodi della sua vita in Pisa, quando per le vie e per le piazze predicava ai monelli urlanti la religione di Cristo, insegnando che cosa fossero lo spirito del male e lo spirito del bene.

Con la povera Sora C… discorremmo per una mezz’ora circa.

Gestendo energicamente, scuotendo tutta la persona magra sotto una veste grigia, monacale, dalla cui cintura pendevano i grani di un rosario, ci spiegò le sue idee sulla psiche nell’individuo o sulla sopraffazione delle coscienze, rivelando in mezzo alla confusione delle poche idee buone che aveva, e che esprimeva anche con efficacia, evidente squilibrio delle facoltà mentali.

– Ma lei si stanca a discorrer tanto, la interrompe scherzosamente il Direttore.

No signore… lei si occupi dei fatti suoi, lei che non crede a niente, e mi lasci parlare.

È vero che sono 14 anni che non apro un libro, ma so parlar bene di quel che mi intendo, senza pretese, così come penso.

– Sora C…, esclamò in quel momento il «senatore», vuol che le porti un bicchier d’acqua? 

Scomparve fra il ridere generale e tornò davvero con un bicchier d’acqua sopra un piatto che porse cavallerescamente alla donna togliendosi il cappellone di paglia.

Ma la Sora C… respinse il bicchiere e continuò a svolgere la sua tesi, finché il Dottor Benini non le offerte un sigaro (che essa accettò di gran cuore) e la lasciammo.

Quanta comicità!

Ma quanta malinconia! 

continua…

Dalla Casa di espiazione e dalla Casa del dolore