Com’è organizzato e come funziona il grandioso ospedale psichiatrico di Volterra:
VISITA ALLA CITTADELLA DELLA FOLLIA
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Data di pubblicazione:23 Novembre 1937
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Titolo:Com’è organizzato e come funziona il grandioso ospedale psichiatrico di Volterra:
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Autore:
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Testata giornalistica:Il Telegrafo
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Quindici medici e quattromila malati – Dove il parlare è breve e pacato – Dalla cura delle bastonate a quella il sano lavoro – Una grande missione
Volterra, novembre
«Ho la cappa bianca – sorride il dottore – ma sono il medico. Dico così, che, a quel che pare, noi alienisti siamo talvolta passibili di confusione con gli alienati…»
Parla breve. Si prepara una sigaretta, pacato e accurato. Ogni tanto rigira
un mucchietto di posta.
«Corrispondenza, dottore?» «Sì, corrispondenza». Le mani del medico la toccano quasi soppesandone l’ansia:
Come sta?
Guarirà?
Migliora?
Corrispondenza con le famiglie. Ogni giorno il medico se l’allinea davanti e risponde cercando il tono della più umana speranza: tempo, cura, pazienza, chi sa…
«Vede – dice il dottore – tra medico e medico alienista c’è una differenza; imponderabile ed enorme. Quello cura lo strazio della carne e il malato è tutt’uno con lui e la volontà di guarire dell’uno si fonde alla volontà di guarigione dell’altro.
Noi siamo soli.
Bisogna scavare, dipanare i fili imbrogliati fino a giungere ai nodi che di una vita umana hanno fatto una parodia tragica.
E così non ci limitiamo al malato, ma teniamo tutto intero il suo mondo.
Il neurologo – il positivista della nostra scienza – indagherà per sapere quale nucleo vitale ne è leso di più; lo psichiatra – l’idealista – cercherà di penetrare quel quid misterioso la cui frattura rende il vivo più impenetrabile e trapassato del defunto.
E per ricompensa abbiamo il barlume e il lampo dello spirito morto».
Padiglioni illuminati
Sigarette.
Silenzio.
Dalla finestra, tutti i lumi accesi nelle grandi vetrate del padiglione accanto.
Altri, più lontani, nella nebbia. La sera, accanto ai radi lumi fiochi di Volterra, le luci vivide dei grandi padiglioni fanno pensare a grandi alberghi tutti illuminati a festa sulla vetta del poggio.
«Quanti malati ci sono, dottore?»
«Quattromiladuecento. Ventiquattro padiglioni, ma altri sono in via di costruzione».
«E quanti medici, per tanti malati?»
«Quindici medici».
Oh, ingenuità! Io credevo almeno un centinaio.
L’idea di questi quindici uomini dispersi notte e giorno nella piccola città di tutte le demenze mi sembra
così impossibile che non posso fare a meno di ripeterlo «Quindici per quattromila malati?»
«Quindici per quattromila malati?»
«E un medico pensa a più padiglioni?».
E… No, dottore, non mi guardi.
Se lei continua a guardarmi così, con quell’acutezza appena velata d’ironia, sento di presentarle i sintomi di chi sa quale paranoia e filare diritta all’osservazione.
Tutto a un tratto mi sento anormalissima.
«Scusi, dottore. Ci si sente… voglio dire, lei distingue bene il pazzo dal sano?»
«Eh, cara signorina! Chi sapesse tracciar questa linea sarebbe l’uomo più sapiente del mondo! Provi lei, vada, osservi…».
«Vado dottore. E arrivederla».
Esco.
Ma non mi sento punto a posto.
Già, arrivederla.
I nomi dei Maestri
Su tutte le gran facciate è stampato il nome di un maestro, forse a nume tutelare, forse a ricordare, nel fondo, la vetta.
Grandi viali, parchi verdi e improvvisi, odore buono di terra fresca tra le zaffate crudeli della farmacia vicina.
Verde e silenzio, la vecchietta immobile sulla panchina, quell’altra che ciabatta nel viale, un’aria onesta di giardino pubblico nelle ore di poca affluenza.
E di colpo, nel cortile del padiglione più giù, un brulicare convulso e miserabile, immobilità tetre e molti continui, passi di danza e present’arm secchi come spari.
E il vocìo affannoso che l’insegue finché non sparisci: invettiva, curiosità o preghiera:
mandagli un telegramma, mandagli un telegramma!
Giardino del padiglione Koch, accartorciarsi lento della vita; povere foglie secche distese al sole senza più perché.
La desolazione di quella ninna nanna cantata piano piano dalla giovane con gli occhi rossi:
nanna oh, nanna oh!
E il piglio ridanciano di quell’altra che passa e apostrofa le infermiere, tutta ciarliera.
Suore veloci.
Il canto degli altoparlanti nei lunghi corridoi bianchi.
Le porte, chiuse volta a volta con tre giri di chiave.
File di lettini candidi, da educandato dove ghignano visi deformi.
L’occhio bieco del criminale, e il riso del deficiente.
L’urlo furioso e il pianto solitario.
Povera umanità.
La via del guarire
Ogni organismo ha il suo centro.
E un organismo grandioso come quello che fa dell’ospedale psichiatrico di Volterra il migliore d’Italia e uno dei più importanti d’Europa deve – necessariamente – avere un centro di una potenza adeguata.
Attendo il rivestimento, diciamo così, materiale del costruendo edificio della direzione, il centro di quattromila malati, quindici medici, qualche centinaio d’infermieri e ventiquattro edifici, è al pianterreno di un edificio modesto.
Riceve subito, con una gentilezza pacata e lenta.
Nel viso giovane, due occhi celesti e acuti di scienziato attento rivelano subito la personalità dell’interlocutore, mettendo voglia di chiamarlo Maestro.
Come il dottore, il professor De Nigris parla breve e pacato; deve essere questa una caratteristica reattiva di tutti gli uomini a contatto con l’incoerenza e il delirio.
«Lei avrà visto – dice il Direttore – come l’ospedale psichiatrico di Volterra, pure avendo i requisiti indispensabili della sicurezza, non ha minimamente l’aspetto di un luogo di segregazione.
Nelle officine, nelle cucine, nei vari servizi avrà avuto agio di vedere come la maggior parte degli infermi lavori nel modo più produttivo per la sua salute e per l’opera. Il ponte che allaccia il padiglione dei criminali al viale è stato costruito dai criminali stessi».
«I sarti, i falegnami, i calzolai, i fabbri aiutano l’Istituto, e si aiutano con l’occupazione sulla via del guarire. L’ergoterapia trova nel nostro ospedale il suo massimo sviluppo e ne sono ritratti i più soddisfacenti benefici.
Il metodo di cura medioevale consisteva nel curare il pazzo mediante… bastonate sulla testa, metodi più vicini lo toglievano crudelmente della vita.
Oggi l’alienato è portato per quanto è possibile sulla via della normalità, ed è ancora il lavoro, la gran fonte di vita, che fiancheggia il medico nella sua azione, riparatrice».
«Appunto, so che l’ospedale psichiatrico di Volterra è all’avanguardia con le sue colonie agricole».
«Precisamente.
In questi ultimi anni – dal ’30 per l’esattezza – le nostre colonie agricole hanno assunto l’aspetto di una vasta azienda modello, a ottimo rendimento psichico e commerciale.
Naturalmente, tutto quello che è prodotto dal manicomio torna al manicomio, ma su questo soggetto il nostro Perito Agrario potrà darle ampie informazioni».
Anche l’ufficio del dott. Agostini è al centro dell’ospedale, ma entrandovi si respira un’aria diversa.
Forse i fascetti di bel grano dorato attaccati accanto ai diplomi e le medaglie comprovanti la bontà dell’azienda, forse le belle fotografie campestri disposte intorno.
C’è già, in questo ufficio, il sapore della buona terra.
E le spiegazioni del tecnico appaiono naturalissime.
Produzione granaria, produzione foraggera, allevamenti zootecnici…
Se le cifre delle tabelle statistiche l’annoiano, possiamo andare a constatare de visu
«Se le cifre delle tabelle statistiche l’annoiano, possiamo andare a constatare de visu»
La buona terra
Dall’alto si vedono piccoli edifici bianchi, appezzamenti di verde diverso intercalati di vie e di filari con riposante esattezza.
Le cinque colonie sono sparse così liberamente, sulla terra un tempo giallastra.
Sono edifici dalle linee moderne che respirano a gran polmoni l’aria fina nei rete.
C’è qualcosa di chiaro nei refettori sobri, nelle camerate lunghe. Camerate e non corsie.
Chi pensa al triste nome tra quei lavoratori contenti?
Ognuno ha il suo compito, ogni colonia ha la sua funzione.
Vige su tutto, nelle colonie della convalescenza, come nei refettori, come nei corridoi chiusi del delirio, un ordine senza oscillazioni.
C’è a San Giovanni una batteria di silos per foraggi, come c’è alle Colombaie un frutteto modello.
Nelle muccherie tipo il latte schiumeggia nei larghi secchi che gli infermi portano con meticolosa cura. Visi abbronzati, mani callose.
Un’ombra indefinibile tra fronte e occhi ti avverte, ma la normalità del discorso ti rassicura.
«Sei contento?» – «Io sì» – «Lavori volentieri?» – «Io sì. Ho seminato finora. Se dura il tempo, va bene quest’anno».
Se ne va con la sua zappa, dondolandosi.
Poi si volta.
«Torna su? Saluti il dottore».
Quale dottore?
Non sa.
Per lui c’è un dottore, il suo dottore.
Forse se lo ricorda nei grandi gabinetti, dove prese, macchine, strumenti, fili, compongono bizzarri intrecci incomprensibili al profano, sapienti e docili per l’uomo in camice bianco che li maneggia a suprema speranza.
Un pensiero.
Una sensazione normale.
Il ritorno.
Il lavoro.
E per ottenere questo sedici uomini e la terra lavorano.