Un professore racconta come fu liberato dalla pazzia
Cinque anni in manicomio
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Data di pubblicazione:21 Gennaio 1956
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Titolo:Un professore racconta come fu liberato dalla pazzia
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Autore:Francesco Argenta
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Testata giornalistica:La Nuova Stampa
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Quando gli fu detto che poteva tornare alla sua scuola, agli studi, alla famiglia, esitava ad andarsene « Cosa diranno di me? Meglio finire i miei giorni nell’ombra…»
Con un tratto gelido e sapiente, lo psichiatra ne vinse il turbamento, lo risolse a rientrare nel mondo dei vivi
Ed ora è sereno e felice
Gi sono scorci e passaggi alla Dostojewski nelle pagine in cui Amilcare Marescalchi (Cinque anni in manicomio – La Navicella ed. Roma) evoca la sua esperienza manicomiale.
Laureato in lettere, insegnante nelle scuole medie, autore di una decina di libri per ragazzi, egli fu colto, nel ’40, da una forma gravissima di paranoia che ne determinò l’internamento in un ospedale psichiatrico.
Potrà sembrare non fortuita coincidenza, ma lo scardinamento del suo equilibrio psichico sopravvenne, crudele è fatale, quando, il 10 giugno ’40, fu dato dal balcone di palazzo Venezia l’annuncio dello scatenamento della guerra.
Le « voci interiori »
Mentre le città si oscuravano ed i richiamati affluivano nelle caserme, il Marescalchi, obnubilito nelle sue facoltà psichiche dall’urto emozionale in cui si era tradotto, per lui, il drammatico annuncio, varcava la soglia del manicomio.
Doveva restarvi cinque anni; lunghissimi eterni.
Ma nei « ricordi autobiografici » che si collegano a quella amara esperienza, non c’è traccia di rancore contro la società o contro chicchessia.
« Rievoco sovente, col pensiero, quegli anni tristi — scrive il Marescalchi chiudendo il suo libro — ma non mi rincresce di aver sofferto. Rimpiango solo di non aver saputo soffrire ».
E la confessione, accorata e patetica, suggella una moltitudine di notazioni che lasciano interdetti e sospesi, corona tutta una catena di vividi saggi d’introspezione che lasciano quasi atterriti e sgomenti.
Il Marescalchi ha piena coscienza della infermità che ebbe a colpirlo: fu lui stesso a diagnosticarla, prima dei medici, anche se poi, per la prognosi, ha dovuto rimettersi al responso dei medici.
E i lacrimevoli aspetti dello stato in cui l’infermità ebbe ad inabissarlo, così come la tenebrosa gamma delle ricorrenti manifestazioni morbose, gli sono tuttora presenti: sono rimaste proiettate indelebilmente nella sua memoria ed egli ne parla senza infingimenti e falsi pudori, con la lucidità del clinico, non con l’ambiguità dei termini in cui usa esprimersi solitamente il malato.
Con le allucinazioni, visive ed uditive, non gli davano tregua le « voci interiori »: un fenomeno patologico, dice, che è, forse, il più « deprimente ed umiliante ».
Ed, ecco, come lo evoca;
« Ero chiuso da solo, sotto chiave, in camerata, al padiglione Livi, a Volterra. Ad un tratto, una voce strana risuonò in me: punto di partenza, l’addome. Non ricordo bene se la percepissi anche materialmente, con l’orecchio: non mi pare. Forse giungeva direttamente al cervello, scavalcando l’orgarno uditivo. Era tuttavia chiara, precisa, imperiosa, ossessiva. Ed era un’imprecazione blasfema. Ebbi un sussulto. — No! — risposi mentalmente: — Dio sia benedetto! — E la voce, più forte e concitata, insisteva… Così per due o tre minuti: un duello aspro, tormentoso, di un’angoscia indescrivibile. Mi sentivo le guance di fuoco. Mi torcevo di sgomento e di spasimo. Pareva che la testa mi scoppiasse, che il cuore mi balzasse dal petto. Completamente disorientato, la mente annebbiata, dirò meglio “ottenebrata”, incapace di resistere più a lungo a quel martellamento sconcertante e massacrante, alla fine — col labbro, ma non certo .col cuore — pronunciai la frase orribile. Ed ecco che, all’improvviso, la voce misteriosa tacque per incanto: i nervi si distesero, la circolazione del sangue e la respirazione ridivennero normali. Ma quale sgomento e quale umiliazione al pensare: — Sono dunque ossessionato ! Un demonio si annida nelle mie viscere e parla in met… e mi domina e mi comanda a suo piacere! — Che orrore! Dio vi risparmi una simile tortura: basterebbe, da sola, a farvi impazzire… ».
Ma d’una drammaticità anche più intensa è l’evocazione del momento della liberazione.
E qui non e più il fatto patologico che domina, è il fatto umano: « Ritorno a casa — dicevo fra me — è vero.
Ma come mi accoglieranno i miei superiori, i familiari, gli amici, i conoscenti!
Non sarò sempre, per loro, un minorato psichico, un relitto, un naufrago della vita!
Non porterò sempre scritto in fronte, a caratteri di fuoco quella brutta parola: manicomio!
Anche senza mia colpa, non dovrò vivere in condizioni di inferiorità umiliante ed avvilente!
Che valore avranno, d’ora innanzi, nella considerazione di chi sa, la mia parola, il mio insegnamento, i miei scritti!
Non mi guarderanno tutti con disprezzo! con ironia e sarcasmo! con dileggio, forse!…
E allora: non sarà meglio, per me, rinunciare ad una libertà da scontarsi a cosi caro prezzo, e rassegnarmi a vivere in manicomio sino all’ultimo giorno!…»
Era la crisi della liberazione. Un fenomeno che si verifica, per chi sia dotato di una qualche sensibilità, allorché gli si spalancano, dopo un breve o lungo accantonamento, le porte del carcere o del manicomio.
La notte che seguì all’annuncio della liberazione, il Marescalchi non dormì.
E la mattina si presentò al direttore, espose, concitatamente, i suoi dubbi, il suo tormento.
Il direttore non cercò la via della persuasione: era avvezzo a queste crisi, sapeva, anche, quale leva bisognava azionare per ottenerne il superamento.
Con tono gelido, quasi distrattamente, disse: « Va bene, revoco l’ordine di dimissione ».
La reazione, per parte del Marescalchi, fu istintiva, immediata: « No — urlò supplice, in uno scoppiò di lacrime. — Proviamo almeno. Se poi non resisto, tornerò… ».
Sono trascorsi dieci anni ed ha resistito. I « ricordi autobiografici » che ha dato alle stampe ne sono la prova.
Ma queste sue pagine, così emozionanti e patetiche, così veriste nella sostanza e, tuttavia, così umane nell’intendimento; così dissimili, se si vuole, da tutta la pullulante letteratura sui manicomi, (convenzionalmente pervasa da un senso di rivolta verso la collettività ed i singoli; schiava, per lo più, di preconcetti o di intenti polemici e scandalistici), offrono un interesse che trascende i limiti del caso personale per riflettersi o proiettarsi sul più vasto piano di un problema sociale; per tradursi, se vogliamo, in un monito ed in un richiamo, che ha da valere per la società, ma, soprattutto, per i governanti.
Il caso di 29 provincie
Tutto, purtroppo, è ancora lacunoso ed imperfetto, da noi, per quanto riguarda la assistenza ai malati di mente.
La legge che regola le ammissioni e le dimissioni dai manicomi risale al 1904 ed è modellata sulla legge francese del 1838.
Il carico di assistere ed ospedalizzare i malati di mente è affidato dallo Stato alle Provincie, ma se si ha il caso di una provincia — quella di Milano — che può impegnare il trenta per cento delle entrate di bilancio nella assistenza psichiatrica, e pur vero che ben ventinove Provincie mancano, in Italia, di un’attrezzatura ospedaliera qualsiasi e devono bussare alla porta degli istituti psichiatrici esistenti nelle Provincie contigue per far ricoverare i malati che risiedono nella loro circoscrizione amministrativa.
E non basta.
La legge in atto e che risale, come si è detto, al principio del secolo, è ritenuta odiosa e dannosa dagli stessi psichiatri che sono tenuti a darvi applicazione: odiosa perchè, per l’ammissione dell’alienato nel manicomio, non si contenta di richiedere I’accertamento dello stato di malattia mentale, ma esige che il malato sia bollato indelebilmente dal marchio disonorante della pericolosità e del pubblico scandalo; dannosa perché, conferendo al manicomio un prevalente obbiettivo di pubblica sicurezza, sbarra le porte a buon numero di malati, che, rimanendo in tal modo privi delle necessarie cure ospedaliere, finiscono spesso per passare alla cronicità e perché, precludendo l’ingresso in manicomio ai malati non pericolosi, e quindi ad una buona parte di quelli che si trovano all’inizio dello malattia, impedisce l’attuazione, su larga scala, della cura precoce, che, come i stato universalmente dimostrato, riesce ben più efficace della cura applicata a malattia avanzata.
Di tutto questo si è discusso ampiamente al recente convegno tenuto a Milano ed al quale sono intervenuti i presidenti di tutte le amministrazioni provinciali, insieme a psichiatri benemeriti ed insigni.
L’alto commissario per la Sanità, on. Tessitori, ha annunciato che la vetusta ed anacronistica legge sui manicomi sarà presto abrogata: è in corso di elaborazione presso l’ACIS un progetto di legge di iniziativa del governo che pone mano alla riforma sulla base di questi principi:
a) le malattie mentali sono malattie sociali;
b) causa preminente dell’ospedalizzazione del malato mentale deve essere non la custodia, ma la cura di esso;
c) previsione di una nuova attrezzatura dispensariale, per realizzare le cure ambulatorie e l’assistenza extra e post-ospedaliera;
d) distinzione fra reparti aperti e reparti chiusi.
Tutti i partecipanti al convegno di Milano han plaudito all’annuncio, definito dall’avvocato Maggio, presidente dell’Unione delle Provincie, « un fulmine a ciel sereno ».
Ma al progetto governativo sarà riserbata la sorte che è toccata al progetto Ceravolo, insabbiato, fin dalla scorsa legislatura, per l’opposizione del Tesoro!
Intanto il numero dei malati di mente cresce: siamo di nuovo sui centomila ricoverati.
E se è vero che i malati pericolosi saranno, al massimo, il dieci per cento del totale, chi può dire quanti sono gli alienati pericolosi che vivono in libertà, a cagione dell’imperfezione e della imprevidenza del nostro sistema assistenziale!
Francesco Argenta