Viaggiatore astrale sbarca a Volterra
La prima cosa che ho appreso su Volterra è che fosse piena di matti.
Uno di loro me l’ha detto, raccontandomi di come qui si sia abituati e attenti a chi è strano, diverso. Prima c’era un manicomio, dice, ma ora il manicomio è stato chiuso e tutti i matti sono a giro, non si capisce più chi lo è e chi no. Lo siamo tutti. In quel noi mi ci sono rivista subito e ho iniziato a ricercare storie che mi raccontassero parti sconosciute di me, per ricucirmele addosso prima di riprendere il viaggio. E queste, come se si sentissero chiamate per nome, mi inciampavano addosso, senza chiedere scusa.
Una sera, chiacchierando attorno ad un tavolino, Alice Ceppatelli e Alessandro Massi hanno passato a me e a Giulia Ficarazzo, un’amica e fotografa in visita, un lungo filo rosso. Era il filo lungo il quale stavano e stanno stendendo le memorie dei grattasassi, prima che queste si potessero sgretolare. Aveva la forma di un link di un sito web ma era molto, molto di più. Era il mondo che stava per scomparire, erano le voci che nessuno aveva potuto ascoltare, i graffi ricevuti e inflitti di chi aveva le mani legate.
Se un’artista venisse legato ad un letto d’ospedale, potrebbe comunque essere un’artista? Questo è quello che Alessandro, detto Massi, aveva chiesto alle due classi terze del liceo artistico per cui avevo organizzato l’incontro. Se Banksy fosse stato rinchiuso in un manicomio, potremmo andare a vedere la sua mostra insù e scrivere un articolo come compito di educazione civica?
Uno degli artisti che era stato nascosto tra le mura del manicomio di Volterra si chiamava Fernando Nannetti. Lui è certamente stato uno dei tanti – non il solo – a cui è stato negato spazio e tempo di espressione, perché rinchiuso nel manicomio di Volterra, dopo essere stato strappato dalla sua Roma.
Ed era proprio su quelle mura che avrebbero dovuto contenerlo, che lui dischiuse il suo mondo interiore. Andrea Ribechini, che a scuola si è presentato con la camicia a quadri e una Moleskine nera in mano, ha definito quello che NOF4 ha scritto sul suo personale libro di pietra, nel cortile del padiglione Ferri, una vera e propria Odissea privata.
Cos’è un Odissea? Avevo chiesto io ai bimbi, come si dice qui, seduti in cerchio. Un viaggio, turbolento, difficile, avevano risposto le due classi.
Perché privata? Incalzavo.
Perché ognuno la scrive per se stesso. Lui, con la fibbia del gilet della divisa che quotidianamente indossava, si era messo a grattare il muro, e non l’alabastro, per lasciare un solco dei suoi viaggi astrali, lasciando per noi le porte aperte.
Una delle domande che ci siamo posti all’inizio dell’incontro è stata questa: qual’ è l’ambiente più adatto alla creazione artistica?
A seguire c’erano tre immagini. Una scuola. Due studentesse scuotono con forza la testa per dire no. Un paesaggio naturale. Qualcuno sembra d’accordo. C’è poi la fotografia in bianco e nero di una sala dove si vedono diversi letti in fila. Un ospedale, dice qualcuno. Un manicomio, ipotizza un’altra voce. Secondo me è da questo posto che nasce l’arte, perché l’arte spesso nasce dal dolore. Il tono era fermo e sicuro. Forse conosceva già la storia di Nannetti o riconosceva da sé la forza di chi ha voglia di raccontarsi, anche senza sguardi.
Al suono dell’ultima campanella di questo sabato mattina, c’è ancora chi raccoglie gli ultimi stralci di carta da terra, chi continua a far scorrere le pagine del sito del manicomio di Volterra per mettere insieme pezzi di un puzzle che rischia di scolorire, come una vecchia fotografia dimenticata, chi dice ci vediamo stasera alla Vena, chi ripiega la zine realizzata dopo queste due ore insieme.
Le due classi si sono messe a ritagliare e incollare scampoli di carta, sedendosi giù per terra, senza chiedersi, né chiederci, troppi perché.
Mentre Alice detta ad alta voce, facendo risuonare in aula magna la poesia, una mano scrive in verde: “Come una farfalla libero son io, tutto il mondo è mio e tutti fo sognare”.