L’esposizione di oggetti psichiatrici
L’esposizione di oggetti psichiatrici:
considerazioni etiche a partire dal Museo Lombroso di Volterra
Indice dei contenuti
Abstract
Il seguente lavoro intende proporre una riflessione relativa agli aspetti controversi che riguardano le esposizioni di oggetti di carattere psichiatrico (o medico), e il loro allestimento in complessi museali e mostre. Partendo dal caso concreto del Museo Lombroso di Volterra (Pisa), museo della storia sanitaria dell’ex ospedale psichiatrico della città, si osserveranno le pratiche espositive adottate dall’istituzione in questione, con un’attenzione specifica alla dimensione etica che sottostà al processo di esibizione di contenuti materiali e non, che hanno a che fare con un passato storico e sociale di abusi e sofferenze.
Attraverso i corridoi delle sale in cui si articola il Lombroso, dove sono stata accompagnata dal volontario della Onlus “Inclusione Graffio e Parola”, Fabrizio Longarini, i reperti esposti, che siano apparecchi tecnici-scientifici, fotografie, plastici ricostruiti, scodelle o berretti da divisa, saranno in grado di stimolare in lettori e osservatori varie riflessioni volte a interrogare – e talvolta problematizzare – le modalità con cui si è scelto, e si sceglie ancora, di raccontare una delle istituzioni più controverse e dibattute nella storia sociale dell’Occidente, quella manicomiale.
il Museo Lombroso
Il Museo Lombroso, o museo della psichiatria volterrana, prende il nome dall’omonimo padiglione, che, nato nel 1887 come parte del complesso ospedaliero psichiatrico, venne inaugurato nel 1909 come reparto di osservazione per i nuovi ricoverati. Il padiglione era inizialmente diviso su due piani per garantire la separazioni tra degenti uomini e donne, grazie a un ingresso esterno.
Col passare degli anni e l’aumento esponenziale dei pazienti, ci fu bisogno di ulteriori reparti per l’osservazione, pertanto il Lombroso fu adibito ai malati assegnatari della cosiddetta ergoterapia, ovvero la terapia del lavoro, su cui si basava l’impianto organizzativo e concettuale voluto dal direttore Luigi Scabia, in carica dal 1900 fino a pochi mesi prima della morte, avvenuta nell’ottobre del 1934 (cfr. Fiorino, 2011:41-71).
Il padiglione subì un’ulteriore trasformazione, in reparto neurologico, negli anni ’60, per poi cambiare nuovamente configurazione: diviene biblioteca e centro di documentazione, conservando al suo interno manuali di psichiatria, documenti e opere librarie relative al manicomio, al servizio del personale medico. Oggi ha lo scopo di conservare e tramandare la memoria storica artistica culturale e sociale di testimonianze materiali e immateriali dell’ex manicomio, come istituzione permanente (cfr. https://www.inclusionegraffioeparola.it/, 20.03.2024).
Trovandosi davanti all’ingresso del museo l’aspetto è quello di un comune padiglione ospedaliero, indicato come “biblioteca” da una targa posta di fianco al portone di ingresso.
Come accennato precedentemente, infatti, le ultime vesti che il museo ha indossato prima di ufficializzarsi come tale sono state quelle di biblioteca ospedaliera, curata e riordinata interamente dal medico psichiatra Alberto Pacchiani, ormai in pensione, detto “Packjianowskij” – come voluto da lui medesimo, per via della vivissima vicinanza al partito comunista –, personalità di spicco nella storia del Frenocomio di S. Girolamo, in particolare per il fatto che, come psichiatra operativo presso la struttura, egli si era auto-diagnosticato un disturbo da schizofrenia.
Varcata la soglia d’ingresso si apre un primo corridoio, che introdurrà, più avanti, alle diverse stanze che componevano il padiglione Lombroso. Sulle pareti laterali possiamo osservare appese alcune stampe fotografiche di grandi e piccole dimensioni che ritraggono dall’alto il complesso ospedaliero, comprensivo degli edifici situati in alto, sul Poggio alle Croci – i padiglioni Ferri, Charcot e Maragliano, e la falegnameria – e degli altri sottostanti (Fig. 2), e una riproduzione su tela della regione manicomiale realizzata da alcuni pazienti della struttura, di cui non sono indicati i nomi (Fig. 3).
È inoltre presente in questo primo spazio espositivo un plastico che riproduce singolarmente tutti gli edifici che costituivano i vari reparti del frenocomio.
Proseguendo si percorre un secondo corridoio che sfocerà nelle quattro stanze in cui si articola il museo; l’oggetto principale qui esposto è un lungo tavolo che si trova sulla destra su cui si è deciso di esibire tre tipi di scodelle per cibi, con il rispettivo cucchiaio e bicchiere, di tre diversi materiali, in successione, con lo scopo di mostrarne l’evoluzione nel tempo: dal semplice ferro, passando per la ceramica, arrivando infine alla plastica (Fig. 4,5).
Ad adornare le pareti circostanti sono in questo caso fotografie varie dei luoghi principali entro i quali era scandita la vita nell’ospedale psichiatrico: dalla “Fagotteria” (Fig. 6) alle camerate dormitorio (Fig. 7), dai cortili esterni alle mense, dai saloni comuni al teatro-cinema.
Superato anche il secondo corridoio si è ora pronti ad addentrarsi all’interno delle quattro sale in cui si sviluppa la nostra esposizione; tratterò di tali locali seguendo l’ordine con cui sono stata guidata da Longarini nella visita al padiglione, dunque nella seguente successione: stanza 0, 4, 2, 1, 3. (L’ordine si riferisce all’enumerazione dei locali stabilita nel volume Io e Fernando. La storia di N.O.F. 4 raccontata da Aldo Trafeli (2022), di Trafeli, Quirici, alle pagine 148-187. Con stanza 0 intendo indicare la sala più esterna dell’ala destra del complesso, che non è identificata nel volume, dalla quale la mia guida ha voluto iniziare la visita.)
Ciascuna di queste stanze, oltre a conservare numerosi scaffali contenenti i volumi della biblioteca medica di cui accennato sopra, è dedicata all’esposizione di oggetti vari, scientifici e non, che costituiscono il patrimonio materiale di cui il Museo si fa carico con l’obiettivo di preservare le memorie di questi luoghi così delicati, e soprattutto delle persone che li hanno a lungo abitati.
La stanza 0, da dove è iniziata la mia visita, può essere intesa, a mio avviso, come un punto di partenza, o come una meta di arrivo: seduta di fianco a un ampio tavolo sul quale è sistemato l’insieme dei libri più recenti che sono stati scritti sul Manicomio di Volterra (la maggior parte dei quali relativa in particolare al celebre graffito di NOF4), con il mio interlocutore dinanzi a me, e il macchinario per il cosiddetto “bagno di luce” (Fig. 8) alla mia destra, sono stata introdotta qui alla storia che ha accompagnato questi luoghi per oltre un secolo.
Ma la stanza in questione è anche lo spazio in cui, dopo essersi trovato a contatto diretto con la realtà tangibile della materialità di cui era fatta la quotidianità trascorsa tra le mura carcerarie di un frenocomio come quello volterrano, al visitatore è concesso di calpestare nuovamente il terreno della nostra contemporaneità, facendo i conti con quella letteratura che è stata prodotta proprio a partire dalle esperienze concrete dei fantasmi che abitavano questi padiglioni, di cui sono testimoni gli oggetti esposti. («I fantasmi sono furmiddabbili dopo la sua seconda apparizione prende sebbianze materiali, le ombre… sono vive sotto cosmo così il disegno le immagina» (Trafeli, Quirici, 2022:96): così scriveva Nannetti in una pagina del suo graffito.)
Spostandoci nella stanza a fianco, la numero 4, ci addentriamo nel concept espositivo che probabilmente gli allestitori del museo avevano in mente.
Troviamo difatti come protagonisti della sala tre macchinari piuttosto ingombranti, la cui funzionalità appare nell’immediato piuttosto deducibile: si tratta di lettini o poltrone operatorie, due per interventi dentistici, e la terza per interventi fisici di vario tipo o per visite e operazioni ginecologiche (Fig. 9).
Quest’ultimo reperto ci tornerà utile, più avanti, per lo sviluppo di una riflessione di carattere etico che può essere maturata a partire dal fatto che sui lacci in tessuto che servivano a impedire il movimento del paziente su cui si intendeva andare ad operare sono ancora ben visibili delle tracce ematiche. Nella stanza sono esposti anche strumenti per la misurazione del campo visivo (cfr. ivi, p. 159).
Ulteriore elemento che si incontra in questa stanza, e che si ripeterà anche nella prossima, riguarda la presenza di un busto di una figura di spicco nell’ambito della medicina e della scienza: in questo caso si tratta del busto di Robert Koch, batteriologo e microbiologo (cfr. ivi, p. 163).
Uscendo dalla stanza, e superando il locale adiacente – che la mia guida ha deciso di lasciare per la fase finale della visita, trattandosi della sala dedicata a NOF4 –, è la volta della sala 2, all’interno del cui contenuto museale ritengo che spicchi – tra svariati strumenti e marchingegni per analisi e diagnosi di diverso tipo – un angolo della stanza che vede esposto un piccolo quadretto contenente esemplari di monete con la sigla O.P.V. (Ospedale Psichiatrico di Volterra), coniate appositamente a partire dal 1933 a Firenze perché i degenti della struttura potessero usarle per acquisti presso lo spaccio locale, affiancato a un contenitore cilindrico che ne conserva un gran numero (Fig. 10, 11).
Ecco che, dopo un primo assaggio dell’esposizione piuttosto introduttivo, giungiamo alle stanze maggiormente pregne di significati e spunti di riflessione per il tipo di analisi che ci interessa in questa sede: la sala 1, ovvero quella che la mia guida mi ha presentato come un luogo di forte impatto emotivo, che mette a nudo la cruda realtà dell’internamento nelle strutture psichiatriche, e la sala 3, dedicata a NOF4 e al suo graffito.
Nella prima a fare da padrona della scena è senz’altro la “Macchina per Elettroshock”, di cui sono esposte due tipologie: a destra uno dei primi modelli sperimentati, a sinistra un esemplare più recente, modello “Siemens Konvulsator 622”, così come indicato dalla didascalia dell’oggetto (Fig. 12).
Ai lati di questo primo nucleo la narrazione visiva procede con altrettanta enfasi: una vetrina con oggetti contenitivi quali camicie di forza, fasce e guantoni si affianca ad altre due teche entro cui trovano spazio vari oggetti di uso quotidiano; scodelle, brocche, mestoli e scolapasta (Fig. 15, 16) si alternano a utensili ad uso esclusivo del personale sanitario, come ad esempio la moltitudine di chiavi – per porte e finestre – che è esposta dinanzi ad una fotografia ritraente l’equipe medica del manicomio al completo, assieme al direttore Scabia.
Di rimpetto a questa sezione trovano posto un esemplare di struttura letto da camerata (Fig. 17), una bara costruita dai degenti presso la falegnameria dove molti di loro lavoravano (Fig. 18), e infine due guardaroba che esibiscono sia le divise e le scarpe che venivano assegnate ai pazienti una volta internati (Fig. 19), sia le tenute da lavoro del personale, compresi berretti per gli uomini e cuffie per le donne (Fig. 20).
La didascalia adiacente allo scolapasta riporta che i “rumaioli” e lo scolapasta sono stati realizzati nell’Officina Fabbri nel 1932.
«Camicie lunghe e corte per incontinenti maschili e femminili (anni ’20)…» (Trafeli, Quirici, 2022:167)
Ed eccoci infine all’apice della climax espositiva cui abbiamo fin ora assistito: siamo pronti ad approdare nella stanza 3, dedicata a NOF4.
La sala è così composta: al centro si estende la sezione del graffito, o “Libro di pietra”, che è stato possibile distaccare dal muro del cortile del padiglione Ferri, su cui Fernando Nannetti ha inciso per dieci anni il suo messaggio per il mondo (Fig. 23); un piccolo spazio in un angolo a sinistra è ritagliato poi per una riproduzione della porzione dell’opera di Nannetti che è esposta nella Collection de l’Art Brut di Losanna, nel cui ambito è stato anche realizzato, nel 2016, lo spettacolo Nannetti – Il colonnello Astrale, grazie alla collaborazione con la Compagnia Sic.12 di Gustavo Giacosa (cfr. Trafeli, Quirici, 2022:138).
(L’epiteto “Libro di pietra” è emerso dalla conversazione col volontario Fabrizio Longarini, avvenuta in data 16.03.2024, di cui riporto le seguenti parole: «Mi garba chiamarlo il Libro di pietra di Fernando, perché è a pagine, e lui nelle pagine che ha fatto non ha narrato una storia finita […]. Secondo me questa sorta di impaginazione non ha un inizio, una storia e una fine, è una mescolanza di cose…».)
La stanza vede inoltre la presenza di una grande scultura realizzata da studentesse e studenti del Liceo Artistico di Volterra, che rappresenta una metafora dell’arte di «quell’uomo che si firmava Nanof, Nof o Nof4» (Ivi, p.63); ai piedi della finestra – che è un pezzo originale – sono stati posizionati fascicoli di cartelle cliniche e fogli cosparsi qua e là che sono fotocopie di disegni e scritti realizzati da Nannetti in quella che potremmo definire la “seconda fase” della sua produzione artistica (Fig. 24).
(Fabrizio Longarini mi ha raccontato come quando Nannetti considerò compiuta la sua opera principale, il graffito, smise di incidere il muro, e iniziò a fare dei disegni che Longarini ha definito “ossessivi compulsivi”, chiedendo al personale dell’ospedale di procurargli della carta su cui potersi esprimere.
Capitava che lo staff lo ricattasse chiedendo a Nannetti di regalare loro dei disegni in cambio della carta da lui desiderata, e che allora Nof si rifiutasse e si mettesse a cercare pacchetti di sigarette o carta stagnola per ricavarne del materiale da disegno. Nannetti ricopriva sia il davanti che il retro del foglio con migliaia di segni stilizzati, consumando anche diverse penne bic al giorno (cfr. ivi, p.50 e pp. 56-59).)
Questo locale costituisce il “gioiello” dell’area museale, per via dell’attenzione che col tempo è stata dedicata allo straordinario lavoro di NOF4.
Tuttavia la produzione di artefatti entro le mura del frenocomio volterrano non si esaurisce con l’opera nannettiana, sebbene essa sia stata nel complesso forse l’unica realizzata interamente per volontà dell’autore.
Le pareti del Lombroso vedono infatti esposti vari manufatti che i pazienti ricoverati realizzavano nell’ambito dei numerosi atelier d’arte che artisti rinomati della zona come Mino Trafeli proponevano alla comunità del S. Girolamo; (Informazione riferitami da Fabrizio Longarini in data 16.03.2024) eccone alcuni esemplari in mostra tra i corridoi del Museo (Fig. 25, 26):
Delle modalità e delle implicazioni del processo di esposizione di produzioni artistiche e oggetti cosiddetti psichiatrici ci occuperemo nel prossimo paragrafo.
Considerazioni sull’etica dell’esposizione di oggetti/memorie “psichiatrici”
Quali riflessioni sono possibili dunque, in merito al tipo di esposizione in ambito museale che abbiamo esaminato sopra, con il caso specifico del Museo Lombroso di Volterra?
La storica australiana di salute mentale Catharine Coleborne, ripercorrendo gli sviluppi del collezionismo di oggetti psichiatrici nelle società occidentali, ha evidenziato un processo evolutivo comune per quanto riguarda la riconfigurazione degli edifici adibiti a strutture psichiatriche fino agli ultimi decenni del ‘900.
In Italia il merito del disfacimento del sistema manicomiale è dovuto a due leggi, distanti tra loro di dieci anni, che hanno rivoluzionato la storia della malattia mentale nel nostro Paese: probabilmente eclissata dalla più nota e radicale legge 180, la legge 431 del 1968, o legge “Mariotti” stabilì l’introduzione dei centri di igiene mentale e dello psicologo come figura chiave nell’equipe medica, l’abolizione del casellario giudiziario automatico per gli internati, e infine la volontarietà dell’atto del ricovero da parte del malat
(cfr. Fiorino, 2011:265,266); tuttavia fu la legge 180, meglio conosciuta come legge “Basaglia”, a stabilire la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici nel 1978.
In Australia, invece, non è possibile parlare di un vero e proprio spartiacque che segna la chiusura delle strutture manicomiali, bensì di un processo di deistituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici, che avvenne a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 (http://www.inquiriesjournal.com/articles/1654/the-evolution-and-devolution-of-mental-health-services-in- australia)
Coleborne parla di due esiti riqualificativi principali, che vedono da un lato l’istituzione di siti di patrimonio con la trasformazione di determinati edifici in veri e propri musei, essenzialmente allestiti e gestiti da storici e curatori amatoriali, dall’altro la naturale conversione di tali spazi in aziende ospedaliere di istruzione medica o universitaria (cfr. Coleborne in Coleborne, MacKinnon, 2012:16).
Nel caso del manicomio di Volterra si sono realizzate entrambe le opzioni: il Museo Lombroso, istituito nell’ex padiglione Lombroso e gestito dall’associazione di volontari “Inclusione Graffio e Parola” Onlus, di cui fanno parte appassionati della storia della struttura psichiatrica, figli di ex infermieri ed ex lavoratori dell’ospedale impegnati nella custodia delle memorie di quei luoghi, e poi il complesso ospedaliero principale della città, che occupa oggi gli edifici che costituivano la sede centrale dell’O.P.V.
Coleborne si è servita inoltre di un confronto con le collezioni mediche per comprendere meglio il motivo per cui, rispetto ad esse, le collezioni di oggetti psichiatrici debbano essere iscritte all’interno di un contesto differente.
Se le esposizioni di oggetti della medicina occidentale avevano principalmente uno scopo formativo-tecnico, ed erano indirizzate a un pubblico di studiosi della materia, quando si tratta di oggetti psichiatrici, la componente fondamentale che entra in gioco è – afferma Coleborne – la memoria collettiva (cfr. ibidem).
Esporre contenuti materiali tangibili come quelli che abbiamo precedentemente osservato può senz’altro assumere significati diversi, tutti tuttavia riconducibili, a mio avviso, a un imperativo unico, che possiamo individuare nell’urgenza di fissare un’esperienza storica, sociale e politica come quella dell’istituzione manicomiale all’interno di una cornice simbolica e accessibile a tutti che sia in grado di delimitarne i confini, forse per farci sentire al sicuro da un passato orrido che vogliamo credere sia rimasto chiuso dietro ai cancelli che sbarrammo con forza nel ’78.
La storica australiana esamina alcune possibili interpretazioni, da parte di pubblici diversi, delle esposizioni psichiatriche: per i collezionisti questi oggetti sono una documentazione concreta della realtà del contenimento psichiatrico nel secolo scorso; per un pubblico forse meno formale invece simili oggetti possono caricarsi del significato della paura, e costituire «reminders» di una fase della storia della salute mentale che ha privato migliaia di persone dei più basilari diritti come esseri umani (Coleborne in Coleborne, MacKinnon, 2012:20).
Ecco che diviene allora indispensabile domandarsi in che modo la narrazione della storia della salute mentale può essere plasmata sia dagli attori istituzionali, che la costruiscono tramite canali divulgativi ufficiali, sia da quegli attori sociali che ne fruiscono in prima persona visitando musei e mostre dedicate.
A questo proposito Coleborne ci fornisce una chiave di lettura strategica delineando tre elementi costitutivi del processo di presentazione delle «narrative storiche» prodotte dai musei contemporanei, all’interno del quale gli studi museali più recenti affidano un ruolo sempre più centrale agli oggetti; questi elementi sono la rappresentazione, lo spazio e il pubblico (cfr. ivi, p. 22).
Tra di essi, ho ritenuto particolarmente cruciali i fattori di rappresentazione e pubblico; come affermato da Coleborne, il nostro immaginario relativo alle istituzioni psichiatriche vede un’ingombrante influenza della cultura letteraria e cinematografica cui siamo esposti, che propone una rappresentazione volta ad esasperare gli aspetti più cupi, oppressivi e abusanti dell’esperienza manicomiale, operando spesso, a mio avviso, una feticizzazione della sofferenza di cui tale esperienza era impregnata.
In questo scenario, scegliere di esporre un oggetto di enorme impatto emotivo come la macchina per l’elettroshock (Fig. 12), e chiedersi come farlo richiede un’attenzione delicata alle implicazioni che una simile scelta si porta dietro.
È proprio interrogando gli effetti dell’esposizione del prototipo dell’apparecchio dell’elettroshock di Bini-Cerletti sui visitatori del Museo di Storia della Medicina di Roma che lo storico della medicina Alessandro Aruta ha riflettuto, in linea con l’analisi di Coleborne, su come oggetti e soggetti siano in grado di plasmarsi a vicenda producendo e attribuendosi reciprocamente significati.
Nel caso particolare degli oggetti psichiatrici, Coleborne sostiene che il primo sentimento che essi provocano negli individui che vi entrano in relazione è la curiosità; infatti questi oggetti sono rimasti a lungo completamente nascosti, rilegati tra le mura dei padiglioni ospedalieri, e quindi del tutto fuori dalla portata sia di studiosi che di civili (cfr. Coleborne in Coleborne, MacKinnon, 2012: 24).
Trovarsi dinanzi ad oggetti non comuni, talvolta complessi da decifrare, che appaiono bizzarri a un occhio moderno, può stimolare numerosi interrogativi sull’uso che se ne faceva, sulla legittimità delle modalità con cui venivano impiegati, e sull’esperienza che se ne poteva avere se coinvolti in prima persona (è questo il caso delle strumentazioni mediche che abbiamo osservato nell’esposizione del Lombroso). Simili considerazioni possono poi essere amplificate se l’oggetto in questione è «…un oggetto museale, forse tra quelli che ha maggior appeal sul pubblico perché controverso…» (Aruta, 2010:20), come, appunto, l’apparecchio per l’elettroshock, in merito al cui potere narrativo Aruta scrive:
[…] buona parte dei visitatori del Museo di Storia della Medicina di Roma […] alla vista dell’apparecchio di Bini sembrano chiedersi: come si sentiva il paziente? Era giusto e lecito ricorrere ad una pratica tanto invasiva a fronte di un non certo (e scientificamente provato) miglioramento o guarigione? Tale strumento, infatti, rappresenta uno degli esempi più validi di oggetto museale inteso come semioforo ossia come veicolo di significati, storie, controversie scientifiche ma, ancor prima, di dubbi e emozioni, trasmettendoci […] informazioni su cosa si pensava, cosa si sentiva, cosa si faceva.
Aruta, 2010:12
Dunque un candidato perfetto per rientrare nell’insieme di quelle che Lorraine Daston ha definito «things that talk», oggetti che raccontano una storia (cfr. Daston, 2004, in Aruta, 2012:20).
Ora, un’altra questione richiede di essere sollevata se si ha l’intenzione di trattare le implicazioni dell’esposizione psichiatrica anche dal punto di vista del soggetto osservante, su di cui i significati prodotti dall’oggetto esibito agiscono: la tutela della sensibilità del visitatore.
Nurin Veis, riferendosi ad esposizioni di collezioni mediche, ha puntualizzato come le persone che si recano in visita a un museo o una mostra portino con sé anche i propri valori, le proprie credenze ed esperienze di vita.
Dato il carattere iper soggettivo della percezione e reazione che, in quanto esseri umani con le proprie fragilità, possiamo avere dinanzi ad un certo tipo di contenuto espositivo, Veis esplicita che determinati aspetti di una mostra medica – e ritengo che questo valga in particolar modo per una mostra psichiatrica – possono provocare turbamento in alcuni visitatori in alcune giornate. Esempi di tali contenuti sensibili potrebbero riguardare l’anatomia, il sesso e la sessualità, la contraccezione e l’aborto, e rappresentazioni della malattia mentale così come di sofferenza, malattia, chirurgia e morte (cfr. Veis in Coleborne, MacKinnon, 2012:50).
Anche nella mia visita al Museo Lombroso mi sono trovata dinanzi ad alcuni contenuti espositivi che a mio avviso sarebbero dovuti essere segnalati con un TW all’inizio dell’esposizione; oltre ad oggetti come la macchina per l’elettroshock e le camicie di forza, mi riferisco in particolare ad un dettaglio della Fig. 9, non pienamente distinguibile nella foto che ho scattato, ma su cui si è soffermata la mia guida: si tratta del sangue che è ancora ben visibile sui lacci del lettino operatorio-ginecologico che servivano per immobilizzare il paziente.
Tuttavia sensibilità e percezione dell’osservatore non sono gli unici elementi di cui tener di conto quando ci si appresta ad esibire dei contenuti provenienti da realtà come quella manicomiale, che spesso si presentano come produzioni dei ricoverati stessi, come nel caso dell’arte che trova espressione tra le mura dell’oppressione.
Rapportandoci nuovamente al caso di studio da cui siamo partiti, ovvero gli oggetti esposti al Museo Lombroso, abbiamo a che fare con un esemplare eclatante di ciò che Veis ha definito «manufatti creati da persone con esperienza di malattia mentale e trauma» (Veis in Coleborne, MacKinnon, 2012:54): il graffito di NOF4.
Nell’argomentare riguardo alle problematiche etiche che emergono dall’esposizione di questo genere di produzioni artistiche, Veis tiene a precisare in primo luogo come tali manufatti possano costituire un importante mezzo di lotta agli stereotipi che circondano le persone affette da disturbi psichiatrici, prima tra tutti la convinzione che tali persone non siano in grado di produrre cose in generale, e soprattutto bellezza – e credo che il capolavoro nannettiano sia, quantomeno nell’umile panorama italiano, un’eccellente dimostrazione del contrario.
Successivamente Veis si sofferma sulla complessità interpretativa di queste produzioni artistiche, che risiede nella necessità di guardare ad esse da una prospettiva multidimensionale, in modo da tenere conto del fatto che questo genere di arte può essere considerata semplicemente come tale, così come testimonianza storica, e ancora come il prodotto dell’arte-terapia, e infine come pura espressione di un’esperienza di vita (cfr. ibidem). Ma venendo al succo della questione, di quali aspetti pratici dovremmo interessarci se volessimo proporre una mostra di tali artefatti? Veis si pone alcuni interrogativi:
Several questions underpin my own thinking about the display of these objects. Does such a display enhance our ability to empathise with those that have experience of mental illness? Should we display artworks that were created by patients, some of whom are unidentifiable, in psychiatric therapy programs, and should those artists we can identify be credited? Should artworks be displayed only with the artist’s consent? What if the artist is no longer alive, or unable to provide informed consent? Who holds the power of interpreting the works and their ‘meaning’? What motivates the visitors to view these artefacts and is it necessary to reveal an artist’s medical history in order for their work to make sense? Is a display of therapeutic artworks potentially exploiting an artist and their life experience?
(Ivi, p. 53)
Quando mi sono recata al Museo Lombroso ho tentato di tenere presenti tali quesiti e, fatta eccezione per i dipinti che vediamo esposti in Fig. 25 e Fig. 26, in merito ai quali, trattandosi di lavori realizzati per gli atelier d’arte tenuti nell’ospedale come arte-terapia, ritengo sia debito osservare essenzialmente il fatto che soltanto alcuni riportino la firma dei creatori, e che purtroppo non c’è modo ad oggi di accertarsi qualora i pazienti che parteciparono ai laboratori avessero esplicitato il proprio consenso per l’esposizione delle opere o meno, rispondere univocamente alle questioni sollevate da Veis è risultato un processo più controverso di quanto mi aspettassi.
Prendiamo in analisi l’opera principale che è sorta tra le mura – anzi, letteralmente sul muro – dei padiglioni volterrani, il “Libro di pietra” di Nannetti, e proviamo ad analizzarla alla luce delle questioni sollevate da Veis.
In questo caso specifico, essendo il graffito nato dalla volontà dell’artista di imprimere il proprio messaggio sui muri del cortile del padiglione Ferri – reparto dedicato ai criminali giudiziari – non è necessario porsi il problema del consenso dato dall’autore all’esposizione; tuttavia tale questione può essere risollevata, a mio avviso, più avanti, quando dalla produzione di Nannetti si inizieranno a sfornare libri fotografici, riproduzioni di alcuni disegni (Si veda la locandina del film Il pianeta proibito (1956), dove è stato ripreso il robot scolpito da Nannetti (cfr. Trafeli, Quirici, 2022:90-91)), mostre e spettacoli teatrali.
Significativo, a tal proposito, un aneddoto riportato da Aldo Trafeli, infermiere volterrano con cui NOF4 aveva quella confidenza, seppur limitata, che permise a Trafeli di “decifrare” – termine impiegato a più riprese sia dal mio interlocutore durante la visita al museo sia in vari scritti inerenti al graffito, sebbene non mi trovi concorde per il fatto che tutta l’incisione di Nannetti è in un italiano quasi sempre impeccabile, pertanto non ritengo si possa parlare di un codice criptato che può essere decifrato –, l’opera del “colonnello astrale”.
L’aneddoto riguarda la pubblicazione, nel 1984, del volume N.O.F. 4, Il libro della vita, nato dalla collaborazione tra Aldo Trafeli, l’artista Mino Trafeli e il fotografo Pier Nello Manoni, alla cui notizia Nannetti rimase del tutto indifferente, reagendo con un certo fastidio (cfr. Trafeli, Quirici, 2022:71-76); Trafeli racconta che l’artista romano ribadì più volte che il suo lavoro era lì sul muro, quello sulle pagine era il nostro, di cui lui non voleva far parte.
Figuriamoci se era interessato alla parte economica!
A lui erano destinati due milioni di lire come diritti d’autore del libro, che però rifiutò, perché su questo aspetto, da sempre continuava a ripetere: «Io sono romano e mi deve mantenere Roma». (Ibidem).
E sul destino e la traducibilità della propria opera al mondo esterno Nannetti aveva le idee ancora più chiare:
[…] un giorno con Mino e un dottore lo portammo davanti al graffito armati di una piccola telecamera e un microfono. Gli chiedemmo: «Fernando cosa è questo?». Lui ci guardò e laconicamente rispose: «Mah!». Insistemmo: «L’hai scritto te… tutto questo!». «Io non ricordo…» rispose chiudendo a chiave la sua “porta”.
Ibidem
Ora, il caso di Nannetti potrebbe costituire un unicum nel panorama della musealizzazione dell’arte prodotta da persone con esperienza di malattia mentale, ma è utile a riportare la nostra attenzione sulle nozioni di privacy, consenso e sfruttamento su cui si è speso Veis.
È proprio con lo scopo di cercare di proporre un tipo di esperienza museale quanto più etica e consapevole, nel rispetto tanto di chi ha prodotto gli oggetti esposti, quanto di chi ne fa esperienza, che il progetto di ricerca Framing Marginalised Art (2010) ha stilato delle generiche linee guida etiche per orientare i curatori e le istituzioni museali nella delicata pratica di esporre i lavori creativi realizzati da persone con malattia mentale o trauma. Il programma si focalizza su cinque punti chiave che si articolano attorno ai seguenti imperativi: salvaguardare ed esplicitare la multidimensionalità delle creazioni artistiche dei soggetti in questione, comprendente le componenti estetiche, patologiche, sociologiche, mediche, storiche ed etiche; rispettare i creatori e le loro volontà; riflettere su modalità innovative di esporre opere per le quali non è stato possibile ottenere il consenso; rispettare la sensibilità del pubblico, e infine cooperare con le istituzioni museali, gli artisti, e le comunità per la costruzione di una fiducia collettiva su cui basare questo sforzo che è prima di tutto un tentativo di restituire e preservare la dignità individuale e artistica di una categoria, quella delle persone affette da malattia mentale, da sempre rilegata ai margini della società (cfr. Jones, Koh, Veis, White, Hurworth, Bell, 2010:84,85).
Jones, Koh, Veis, White, Hurworth, Bell, 2010
Bibliografia
- Aruta, Alessandro. 2010. “Shocking waves al museo: l’apparecchio per l’elettroshock di Bini – Cerletti”. Medicina nei secoli arte e scienza, 22/1-3 (2010) 11-24.
- Coleborne, Catharine. 2011. “Collecting Psychiatry’s Past Collectors and Their Collections of Psychiatric Objects in Western Histories” in Exhibiting madness in museums: remembering psychiatry through collections and display. New York, London: Routledge.
- Fiorino, Vinzia. 2011. Le officine della follia: il frenocomio di Volterra (1888-1978). Pisa: Ets.
- Jones K., Koh E., Veis N., White A., Hurworth R., Bell J. et al., ed. Framing marginalized art: developing an ethical multidimensional framework for exhibiting the creative works by people who experienced mental illness and/or psychological trauma. Parkville: Cunningham Dax Collection; 2010.
- Trafeli, Aldo, Quirici, Michele. 2022. Io e Fernando. La storia di N.O.F.4 raccontata da Aldo Trafeli. Pontedera (Pi): Bandecchi & Vivaldi Editore.
- Veis, Nurin. 2011. “The Ethics of Exhibiting Psychiatric Materials” in Exhibiting madness in museums: remembering psychiatry through collections and display. New York, London: Routledge.
Sitografia
- https://www.inclusionegraffioeparola.it/ (consultato in data 30.03.2024).
- http://www.inquiriesjournal.com/articles/1654/the-evolution-and-devolution-of-mental-health-services-in-australia (consultato in data 30.03.2024).
Sophia Ducceschi
Aspirante antropologa
Sono laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali presso l’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, dove frequento attualmente il corso di laurea magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia.
Ho studiato per un semestre alla University of California, Berkeley, e i miei interessi spaziano dall’antropologia della salute e della malattia, con particolare riferimento all’etnopsichiatria, al dialogo tra antropologia e arti performative.
Mi sono occupata recentemente della tematica della musealizzazione etica del patrimonio materiale sanitario e psichiatrico, e della decostruzione e decolonizzazione del sapere medico psichiatrico.