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Il ragazzo che vedeva i coccodrilli

Titolo originale:

Il ragazzo che vedeva i coccodrilli

Autore:

Fabio Iozzi

Casa editrice:

Scatole Parlanti

TAG:

Il faro di Collina Isola

Questo racconto, che fa parte di una raccolta pubblicata nel 2018 dal titolo Il ragazzo che vedeva i coccodrilli, parla di un luogo di fantasia, Collina Isola, una città che sorge su un’altura circondata da un mare di colline più basse che digradano fino al mare, quello vero. 

In questa città c’era un manicomio e il protagonista, che vi è stato ospite, una volta dimesso ci ritorna per vedere con i propri occhi cosa ne è rimasto dopo la chiusura.

Leggendo il racconto non occorre molta fantasia per capire che, anche se il nome di Volterra non compare mai, in realtà è proprio della nostra città e del suo manicomio che si sta parlando. 

Ed è dalla somiglianza di Volterra ad un’isola che è nata l’idea di scrivere Il faro di Collina Isola,  cercando di vedere nell’isolamento della città una specie di petrolio, un risorsa povera ma talvolta ricercata, che ne ha segnato la storia. 

Il protagonista suggerirà agli abitanti di Collina Isola di costruire un faro anziché continuare a ricostruire la strada che ogni anno l’inverno distrugge; non so se questo suggerimento possa interessare anche noi, ma di una luce che illumini la nostra storia e ci colleghi al resto del mondo penso che potremmo avere sempre bisogno.


Il faro di Collina Isola

Scoprii solo al momento del mio ricovero che esisteva quel luogo molto isolato, scelto in passato da alcuni famosi studiosi del secolo scorso per realizzarvi il loro progetto. Infatti, il nuovo manicomio che essi avevano in mente di realizzare, perché di questo si trattava, sarebbe dovuto nascere in un luogo isolato che non fosse facilmente raggiungibile. Per questo motivo avevano subito pensato a un’isola. Ma siccome tutte le isole erano già state occupate da qualcun altro prima di loro, oppure erano troppo lontane anche per scienziati avventurosi come dovevano certamente essere quei personaggi famosi, essi decisero che sarebbe andata bene anche un’isola circondata dalla terra anziché dal mare; doveva però trattarsi di un luogo situato comunque in mezzo alle onde, e se non erano onde di acqua poco importava, andavano bene anche onde fatte di terra purché fossero sufficientemente impervie da impedire a chiunque di potersi facilmente avvicinare al nuovo manicomio che essi volevano costruire. 

Dopo avere girato un bel po’ trovarono il posto che faceva al caso loro. Si trattava di un’alta collina circondata da un mare di colline più basse che digradavano verso la pianura fino ad arrivare al mare,  quello vero: quel luogo si chiamava Collina Isola. Per arrivare fino a Collina Isola si dovevano infatti attraversare mille altre colline più basse che la circondavano da ogni lato; occorreva prendere un vecchio treno nero a vapore che procedeva lento come il traghetto che collegava la terraferma con le isole ma viaggiava in direzione opposta, verso la campagna, sbuffando in cielo il suo fumo in tutto e per tutto uguale a quello del battello con cui era possibile raggiungere l’arcipelago. A giugno e a settembre molte persone preferivano quel vecchio treno al traghetto che andava per mare, perché durante il tragitto per Collina Isola, che nell’ultimo tratto veniva compiuto a passo d’uomo, era consentito ai passeggeri scendere e mangiare le ciliegie, o l’uva secondo la stagione, raccogliendo i frutti maturi direttamente con le loro mani dagli alberi e dai filari appositamente piantati dall’Amministrazione Ferroviaria – che a quell’epoca era evidentemente molto più lungimirante e benevola che nei tempi successivi. 

Il faro di Collina Isola
Il faro di Collina Isola – racconto di Fabio Izzo

Gli studiosi del secolo scorso costruirono lassù il loro nuovo e moderno manicomio; anzi, i loro manicomi, perché non ne costruirono uno solo ma molti di più. Uno lo realizzarono per gli uomini adulti, uno per le donne adulte, uno per i ragazzi, un altro per le ragazze, un altro per i criminali, uno per gli anarchici, un altro per quelli che non si sapeva bene in quale categoria infilare e neppure bene quale malattia avessero; uno per i malati gravi, un altro per quelli meno gravi, eccetera eccetera. E avrebbero certamente continuato a costruire edifici dedicando un apposito padiglione a ciascuna delle nuove patologie che man mano venivano scoperte grazie ai progressi della nuova medicina psichiatrica, se non ci fosse stato, diversi anni dopo, un radicale cambiamento di opinioni su cosa fosse la pazzia e come si dovesse curare la gente che ne era colpita. 

Prima di loro, quando non c’era ancora la ferrovia con il treno nero a vapore, a Collina Isola aveva piantato le proprie bandiere un popolo venuto da oriente. Dopo quei primi lontani colonizzatori, alla guida della cittadina si susseguirono nei secoli successivi delle popolazioni venute dal mare; altre arrivarono dalla Capitale e poi arrivarono i barbari, i vescovi, le signorie, i marchesi, i conti e i re, fino a quando nacque la Repubblica. Lei accolse come una brava madre la piccola comunità di Collina Isola tra le sue braccia, così come fece con tutte le altre città, paesini, borghi e poderi disseminati nei dintorni, ovunque si girasse lo sguardo.

Nonostante tutti i cambiamenti di guida e di governanti, per molti secoli nessuno pensò di fare qualcosa di concreto per diminuire la lontananza che divideva quella specie di isola dalle altre città vicine cosicché Collina Isola continuò a rimanere appartata e divisa dal resto del mondo.

 Questa suo isolamento finì per ingolosire la Signoria di una città vicina che vi costruì  una fortezza, nella quale nessuno poteva entrare se non era autorizzato dalle guardie, che più tardi un Granduca trasformò in un carcere, dal quale nessuno poteva più uscire se non era autorizzato da nuove guardie arrivate al posto di quelle precedenti. 

Tuttavia, quell’isolamento, seppur drammatico, portò con sé anche qualcosa di nobile e rese gli abitanti di Collina Isola orgogliosi di sentirsi diversi dagli altri, cioè da quelli che abitavano la pianura.

Si trattava di persone abituate a lottare con periodi difficili, stagioni di siccità e gelate, tempeste di pioggia e vento; gli uomini attendevano di veder maturare i raccolti, le madri aspettavano con ansia di vedere i loro figli crescere grandi o guarire o non più ammalarsi; le giovani donne attendevano impazienti notizie dei fidanzati o dei mariti partiti per qualche guerra lontana, e le cadenze mensili annunciare l’arrivo di un nuovo figlio. Tutti quanti, in realtà, erano sempre in attesa di qualche buona notizia, perché quelle brutte non c’era da aspettarle, arrivavano sempre da sole senza che nessuno le attendesse. 

La piccola cittadina attraversò lunghi periodi di prosperità e la campagna là intorno fu popolata da contadini che si contesero la terra per coltivare cereali, viti e olivi e allevare pecore e mucche. Ma più tardi molti di essi si trovarono costretti ad andare via e abbandonare quella campagna e le loro case. Arrivarono infatti anche lassù le grandi trattrici meccaniche che iniziarono a tracciare i loro grossi solchi nei campi con molta meno fatica. Un uomo solo alla guida, se non si fermava in tempo, con una di quelle trattrici era capace di buttare giù anche una casa con tutto quello che ci stava dentro. Con quei moderni mezzi la terra fu segnata da nuovi solchi, ma il solco più profondo fu quello che venne scavato tra i vecchi contadini e i nuovi padroni. Tanti contadini furono spinti a trovare un lavoro migliore di quello che avevano svolto fino ad allora, così duro e povero che neppure loro rimpiangevano di non doverlo lasciare in eredità ai propri figli. 

Quando partirono le loro case abbandonate furono presto depredate di quel poco che vi era rimasto. Volpi, cinghiali, cani e gatti randagi ne diventarono padroni e i pipistrelli, protetti dalle lampade spente, dormirono al posto dei contadini; nascosti negli angoli bui, i topi invasero le stanze e vi ammassarono semi; le faine cacciavano i topi sotto il volo dei gufi, e dovunque, in qualsiasi angolo, anche il più lontano e nascosto, l’erba e i rovi si accomodarono, ormai padroni di tutto. I vecchi chiodi cedettero pian piano al vento e lasciarono libere le tavole di legno delle porte, delle finestre e dei fienili che caddero una a una; l’acqua che penetrava dai tetti fece marcire il legno delle travi e poi se la prese con il gesso che teneva insieme i mattoni delle volte facendole crollare. 

Quando da poco tempo era finita la Seconda Guerra Mondiale, il treno nero a vapore che collegava la cittadina al resto del mondo a un certo punto non ce la fece più ad arrampicarsi lungo le sue pendici. Esalò l’ultimo suo sbruffo di fumo nero mentre era ormai prossimo alla vetta della collina. Siccome i cittadini di Collina Isola non avevano i mezzi necessari per spostarlo da dove si era fermato, il treno venne sepolto ai lati della ferrovia con i suoi due fedeli vagoni e come monumento funebre gli fu dedicata una vecchia casa cantoniera diroccata che si può ancora vedere, là vicina al vecchio percorso dei binari. Contrariamente a quanto sembrò in un primo momento, e nonostante le numerose promesse fatte dall’Amministrazione Ferroviaria, dalle autorità regionali e da quelle governative, il treno non fu più sostituito. La piccola cittadina rimase così ancor più isolata: per raggiungerla restava un’unica strada carrabile che saliva con stretti tornanti dalla valle. Era una strada che passava in mezzo alle balze di argilla che ogni anno ne inghiottivano qualche tratto: ogni inverno scompariva un tornante, una semicurva o un ponte, che l’anno successivo veniva nuovamente ricostruito nel solito identico modo. 

Durante un inverno più cattivo e piovoso del solito, si verificò un numero incredibile di frane; alcune di queste distrussero la carrabile quasi completamente. Con caparbietà e grandi sacrifici i cittadini di Collina Isola eseguirono i lavori per ripristinarla, ma poco tempo dopo la strada franò di nuovo e alla fine gli abitanti di Collina Isola, stremati da quella lotta impari, si arresero. La strada restò così sepolta sotto l’argilla e al suo posto rimase solo un piccolo stradello largo poco più di un viottolo. In luogo della strada, la cui ricostruzione fu reputata dai governanti dell’epoca troppo costosa, consigliai gli abitanti del luogo di costruire un faro di segnalazione; non sarebbe servito per esser visto dalle navi, che continuavano a girare a largo, molto a largo rispetto a quell’isola, ma avrebbe senz’altro garantito che Collina Isola si potesse vedere da tutte le altre città vicine. Quel segnale luminoso sarebbe servito per ricordare a tutti che, anche di notte, anche senza la strada e senza la ferrovia, sulla sommità di quella collina esisteva ancora una piccola città con i suoi abitanti.

Fui dimesso dopo cinque anni di ricovero. Prima di partire ricordo che andai a fare una visita di ringraziamento alla chiesa del manicomio. Questa era molto più antica dei fabbricati che le stavano vicino; aveva un portico con sei archi davanti alla facciata che si apriva su un largo piazzale e alle sue spalle c’era un convento con il chiostro e una palma. Sulla facciata della chiesa, in mezzo all’intonaco, vi erano alcune lapidi con iscrizioni latine. Il tetto era ricoperto di vecchi coppi ed embrici macchiati di mille colori e tutto era sovrastato da un piccolo campanile. All’interno della chiesa filtrava pochissima luce. Là dentro il tempo sembrava essersi fermato. Al suo posto c’era il silenzio; un silenzio che risuonava ancora di umili preghiere e delle invocazioni di chi era stato lì dentro a pregare.

«Signore, Tu lo sai, ho avuto la notte come sorte e come compagni tristi, ammansiti, sommessi poeti coi sedativi nelle braccia. Ora vorrei in dono di non conoscere la paura, e che Tu ascoltassi, veramente, le mie pene». 

«Voi, o Dio, ci annegate di ricordi; tardi scende il mare ma noi non scendiamo mai, e il sole e il temporale si spiegano, e poi d’oro nel cielo il sereno riappare, ma per noi l’amore non brilla mai».

«Signore, se veramente non posso fare a meno di vivere tutto questo, dammi almeno un cuore di pietra. Così non si bagneranno di pianto i miei occhi e potrò tenere fisso lo sguardo, fermi la voce e il passo, senza tradire emozioni. Con un cuore di pietra non avrò più paura di niente, né compassione per nessuno; sarò solo, ma basterò a me stesso». 

Lassù il tempo non passava mai. Alla sera seguiva la notte con le sue luci gialle che impallidivano all’alba. Poi arrivavano nuovi mattini e nuove giornate e presto faceva ancora buio, prima che giungesse un nuovo giorno, quasi identico al precedente. Compresi in quegli anni che la morte non è come una faglia che interrompe la linea della vita, ma piuttosto un’ombra che le cammina vicino. 

I primi anni dopo le mie dimissioni e la partenza da Collina Isola continuarono ad arrivarmi notizie da parte di persone che avevo conosciuto. Con il tempo, però, le notizie diminuirono e io non sapevo più se quelle poche che mi arrivavano fossero vere o false. C’era chi diceva che a Collina Isola non fosse rimasto nessuno; c’era chi giurava che lassù fossero rimasti solo i vecchi, perché i bambini e i ragazzi erano stati portati via dall’acqua che cadeva durante i monsoni – un tipo di vento che prima di allora nessuno sapeva neppure cosa fosse, poiché in quella parte di mondo i monsoni soffiavano soltanto dentro le pagine dei libri o dentro le televisioni.

Quell’acqua portava i bambini e i ragazzi verso il fiume e il fiume li portava verso il mare dove poi rimanevano, crescevano, trovavano lavoro e mettevano su famiglia.

Ma secondo altri lassù erano rimasti solo i malati del manicomio che era stato realizzato dagli studiosi del secolo scorso; chiunque ci fosse andato non sarebbe più stato in grado di distinguere i malati dalle persone sane di mente, perché ora se ne stavano tutti quanti fuori in giro liberi nel solito modo. Qualcuno raccontava perfino che si fosse verificato una specie di ammutinamento: alcuni medici e infermieri erano andati via e i matti avevano preso i posti di comando dell’ospedale; una seconda versione della stessa storia affermava che le persone che avevano assunto il comando non erano i matti, ma certi medici che erano un po’ impazziti anche loro a forza di stare là dentro. Chissà, potevano essere tutte storie vere come false. 

Non riuscii a farmi un’idea certa su cosa davvero stesse accadendo a Collina Isola, fino a quando non ricevetti una lettera da Ascanio, un degente che avevo conosciuto durante il mio ricovero a Collina Isola. Mi scriveva che nel manicomio erano state rimosse le sbarre, i cancelli e le inferriate e chi voleva se ne poteva andare via. 

“Ciao Bruno,

sono venuti gli operai, di notte, e hanno iniziato a smontare in pezzi tutta la città, muri, sbarre, portoni, cancelli, inferriate. Tutti ce ne andremo via, pian piano. Tutti potremo andar via. 

Sono sicuro che il bosco ricrescerà in mezzo ai giardini e agli edifici, e respirerà ancora, e morirà nuovamente mille volte ancora, senza saperlo. L’uomo solo sa di vivere e di dover morire ed è per questo che la morte e la vita esistono solo per noi; perché pensiamo, pensiamo troppo.

Ascanio A. (Ex degente del Manicomio di Collina Isola)”.

Sentii in seguito raccontare che lungo i viali interni dell’ex manicomio si potevano ancora leggere alcuni nomi famosi: Bianchi, Chiarugi, Verga, Zacchia, Krapelin, Morel, Morgagni, Koch, Biffi, Maragliano, Ferri, che detti tutti in fila in questo modo, a uno che non li aveva mai sentiti nominare prima, potevano anche sembrare i nomi di una formazione di calcio. Ma non si trattava di portieri, difensori o centravanti; erano invece i nomi degli edifici dell’ex manicomio di Collina Isola. Grandi fabbricati austeri che avevano il loro nome impresso sulle facciate con grandi lettere in stampatello maiuscolo come si usava fare nel ventennio fascista. Edifici con i muri scalcinati ma ancora qua e là dipinti di bianco, disposti uno accanto all’altro sul versante nord della collina: fabbricati tutti quanti più o meno abbandonati, alcuni proprio fatiscenti, con delle grandi bifore senza vetri che sembravano occhi accigliati, sinistri buchi neri puntati sulla poca gente che ancora passava da quei viali dismessi.

Solo alcuni anni dopo riuscii a ritornare a visitare quel luogo. Quando arrivai era autunno; ogni zolla di terra era stata capovolta sottosopra e si vedevano i fianchi spogli dei campi andare a incontrarsi tra di loro intorno agli argini dei piccoli botri, anch’essi completamente nudi, che scorrevano in basso. Non c’era un filo d’erba né un alberello e neppure un cespuglio; solo argilla bianca, bianca come la luna che vi si rispecchiava di notte. Potei constatare che quello che mi aveva scritto Ascanio era tutto vero. Il manicomio era ormai completamente abbandonato. I muri di cinta erano in gran parte franati e gli edifici, austeri, con i loro pesanti ornamenti, bifore e stipiti prominenti, tetti con larghi spioventi e inserti di mattoni rossi mescolati a larghi parati intonacati a calce bianca, avevano tutti un’aria dimessa. 

Ogni fabbricato era stato appositamente costruito per essere destinato a pazienti con una diversa malattia, e per questo motivo ciascun fabbricato era isolato dagli altri; a ciascuno di essi era stato assegnato un nome altisonante di cui pochi conoscevano il significato, e di cui molti non sapevano neppure formulare la pronuncia. Dal numero delle finestre si poteva capire quante persone fossero state contenute al suo interno; più finestre, più stanze; più stanze, più persone. E più le finestre erano vicine le une alle altre, più piccole erano le stanze che stavano alle loro spalle, più stretti i corpi che vi erano stati rinchiusi. 

Il manicomio era stato fondato da medici e scienziati dall’aspetto severo, con sguardi profondi e idee chiarissime. Si adornavano di baffi curati e pizzetti neri che donavano ai loro volti l’autorevolezza necessaria a compiere scelte difficili. I malati reclusi là dentro, invece, erano uomini e donne diversi uno dall’altro. Chi aveva visitato il manicomio quando funzionava a pieno regime aveva visto un gran numero di matti rinchiusi dentro i padiglioni con le sbarre alle finestre, o raccolti nei cortili interni oppure sostare per intere giornate là in mezzo a un marciapiede o su una panchina. Alcuni passavano tutto il loro tempo in piedi a fumare, fermi vicino alla strada, a ogni ora del giorno, con il sole e con la pioggia, col freddo o con la neve, e solo una gronda del tetto li riparava da tutte le intemperie. Persone che se ne stavano tutto il giorno senza far niente fumando in continuazione; con il mozzicone di una sigaretta si accendevano quella successiva. Poi riponevano il mozzicone nelle tasche del cappotto, perché più tardi avrebbero utilizzato quel poco tabacco rimasto per provare e fare altre sigarette. 

Spesso si trattava di persone come me, che avevano avuto una vita normale prima del ricovero; poi si erano ammalati ed erano finiti là dentro; altri normali non lo erano mai stati e, può darsi, fossero arrivati lassù da qualche altro ospedale o quando erano ancora piccoli. Ma non c’era differenza: tutti stavamo per giornate intere là fermi agli angoli delle strade a fumare. Alcuni erano magri cadaverici; ad altri le pance spanciavano più del dovuto e del voluto; senz’altro più del goduto. 

Alla sera, gli uni e gli altri ritornavano dentro i loro edifici per mangiare e per dormire. E là dentro se ne stavano fermi con il viso rivolto verso un televisore o verso il nulla, lo sguardo vuoto, come quadri affissi a un muro. Erano come dei soprabiti disabitati, abbandonati in una enorme sala d’aspetto; appesi ad attaccapanni inchiodati in mezzo a pareti ricoperte di vecchie croste e crepe, portaombrelli e specchi che riflettevano ora un’immagine vuota, ora un vecchio calvo, ora un raggio di luce. Il loro capo si imbiancava chino sotto il peso degli anni, come accadeva a quei piccoli giardini distesi proprio là davanti ai loro padiglioni, d’inverno quando s’adornavano della neve che arrivava dal mare. 

La sera, prima di ripartire, vidi le grandi finestre di uno di quei padiglioni illuminarsi di una luce calda e azzurra e non capii se quella luce venisse dall’interno dell’edificio o fosse solo il riflesso del cielo nascosto dietro di me, o dentro di me. Ma ripensandoci adesso, credo che si trattasse solo del riverbero della luce dal faro che, finalmente, qualcuno si era deciso a costruire sulla sommità di Collina Isola.

Il ragazzo che vedeva i coccodrilli

Fabio Iozzi

Sono nato nel 1960 a Volterra e, come molti miei coetanei, ho vissuto il periodo di “apertura” dell’ospedale psichiatrico verso la città e la sua definitiva chiusura; questo ha senz’altro segnato la scelta delle mie letture e, adesso, degli argomenti che cerco di affrontare.

Scrivo per divertimento e per passione da quando ero giovane ma solo da pochi anni ho iniziato a pubblicare: il mio primo libro, Giorni Imperfetti, è uscito nel 2017 ed ha come tema la fragilità e la solitudine delle persone; il secondo, Il ragazzo che vedeva i coccodrilli, è stato pubblicato nel 2018 e comprende il racconto Il faro di Collina Isola.