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Il manicomio di Volterra nello spirito della città

“Chi dice Palio dice Siena…chi dice panforte dice Sapori”, recitava una pubblicità televisiva anni fa.

Parafrasando si può traslare in:

 “Chi dice manicomio…dice Volterra”

Che se detto in modo dispregiativo, come a volte è capitato, veniva risposto che i malati però erano tutti di altre località!

Volterra è legata da poco più di centotrenta anni a questa struttura ospedaliera.

Generazioni di addetti hanno tratto lavoro da questo particolare centro di degenza, e sottolineo degenza, non detenzione, perché Volterra ed i suoi abitanti hanno sempre avuto un rapporto stretto, forse anche una sorta di amicizia e rispetto con il manicomio.

Mai è stato visto ostile o fonte di rischi.

Anche quando si sentiva dire che era “scappato” un ammalato e s’incontrava in giro per la città e periferie, l’auto dell’azienda con infermieri a bordo in cerca del fuggitivo.

Chissà, forse in altre realtà residenziali una notizia del genere avrebbe creato panico e suggestione.

Per Volterra ed i suoi cittadini semmai è stato il contrario: il manicomio ha portato benessere, tanto che negli anni del maggior reddito economico degli anni sessanta del secolo scorso, la città era considerata un eccellente piazza specialmente dai venditori di auto. 

All’epoca chi si sposava non di rado andava a vivere nella casa dei genitori o suoceri, che a loro volta magari erano dipendenti o pensionati della struttura di cui stiamo parlando.

Quindi è facilmente comprensibile che la giovane coppia, in molti casi entrambi impiegati a vario livello al manicomio, avessero redditi tali da potersi permettere la sostituzione dell’auto ogni due, tre anni.

Anche le doppie case al mare, particolar modo a Cecina Marina, hanno proliferato in quegli anni, sempre per la stessa tipologia di economia, tanto che questa località turistica veniva appellata come Volterra Mare.

Anch’io ho vissuto sotto l’ala protettiva della struttura manicomiale di Volterra, la mia nonna materna vi ha lavorato presso la lavanderia, mio suocero come infermiere psichiatrico poi capo sala. Il mio babbo, dapprima in servizio presso il carcere di rieducazioni minorile, i cosiddetti “corrigendi” come venivano appellati in città, poi tramite corso e concorso ha preso la qualifica di “infermiere psichiatrico” lavorando nella struttura fino al 1984, data del suo pensionamento per raggiunti limiti di età.

Con queste premesse il mio contatto con la struttura, ma in particolare con i suoi degenti sono sempre stati ottimi.

I “matti” come più facilmente vengono appellati, non mi hanno mai dato disagio. Nelle varie occasioni in cui sono andato a trovare il mio babbo sul lavoro, sin da adolescente ho imparato ad interagire con quelle strane persone, qualcuno urlante, altri che ti fissano o fanno gesti con le mani e braccia incomprensibili, qualcuno in cerca di contatto per un saluto affettuoso. Mai tutto questo mi ha dato imbarazzo. L’esser cresciuto in una città in cui una delle fonti di impiego è questa struttura, mi ha portato a sviluppare una sinergia mentale verso queste persone affette da sindromi mentali più diverse, che sotto certi aspetti anche più sensibilità della media.

Non è raro che anche oggi trovandomi di fronte a persone con evidenti anomalie mentali, e purtroppo se ne trovano spesso in giro per le città, incontrandomi è come se riscontrino in me una persona che conoscono e accetta la loro natura. Il saluto è scontato, se non anche venirmi di fronte e parlarmi di qualcosa di loro. Chi è con me, nelle prime occasioni mi chiede se conosco la persona, ma rispondo che la mia volterranità ha sviluppato un rapporto con persone affette da sindromi psichiatriche, che mi permette di trasmettere loro fiducia e sicurezza, tanto trasparente ai loro occhi da fidarsi ed interagire con me.

Il manicomio ha sempre regolato la vita di Volterra, i tanti addetti alla struttura disseminati in ogni famiglia, avevano come ago magnetico il lavoro al manicomio, di conseguenza abitudini e detti erano conformati a questo lavoro.

“Devo rientrà!”

Questa parola tipica dell’infermiere, forse anche in uso anche in altre strutture, ma a Volterra il detto era specifico per il manicomio. 

Nelle ore di cambio turno vi era un formicaio di persone che entravano ed uscivano dal possente cancello affacciato su Borgo San Lazzaro.

Prima con due imponenti colonne guarnite con fasci littorio, a memoria del periodo in cui il manicomio ha avuto il massimo splendore e sviluppo, poi senza i segni distintivi del fascismo, ma sempre imponente. 

La portineria, come veniva chiamata, era il luogo di accesso del personale e sito in cui erano disposte, in grossi casellari appesi a parete, le cartelle dei dipendenti da timbrare all’orologio sigillato per determinare l’orario di ingresso ed uscita dal lavoro.

Dalla processione di persone in entrata ed uscita degli anni passati, alle fila di auto negli anni della rinascita post-bellica, di personale che si era motorizzato, tanto che anche per andare al reparto da casa, pur vicino fosse, usava l’auto. 

Il ricordo ed aneddoti degli anni della mia infanzia, adolescenza, fino alla mia maturità di uomo è costellata ed incorniciata con il vivere in una città dove c’è un altra città al suo interno, che si chiama manicomio.

Le nuove terapie messe in atto negli anni danno una sorta di libertà ai degenti più tranquilli, innescando un flusso di malati che circolano più o meno liberamente in città. Il loro essere si identifica in personaggi diventati noti ed affettuosamente accolti nel vivere di tutti i giorni. 

Chi non ricorda “Bruciaboschi” con le sue massime espresse con l’inconfondibile voce e la sua passione per i trasporti funebri, a cui non mancava mai dietro al corteo di parenti ed amici. Il “cinesino” che nel suo silenzioso camminare stroncava ed ammazzava serpenti immaginari con rapidi e voluttuosi movimenti delle braccia.

Luigi il “vigile”, che proprio per questa sua aspirazione gli fu donata una volta una paletta giocattolo, simile a quella della forze dell’ordine, ma gli fu sequestrata dagli infermieri dopo la volta che posizionatosi davanti all’ingresso dell’ospedale, ormai privo del maestoso cancello e dotato soltanto di isole stradali per l’ingresso, deviò all’interno dei viali ospedalieri auto e pullman di turisti ignari che quel personaggio con berretto e paletta non fosse un vero vigile.

Questo per ricordare alcuni dei personaggi più significativi che hanno calcato il selciato della città di Volterra negli anni diventando involontariamente una sorta di aria all’aperto di molti degenti con personalità gestibili e non pericolose.

Aneddoti che non di rado mi hanno fatto ridere e pensare, come la volta che mi sono fermato presso il bancomat installato nell’edificio della direzione dell’ospedale, mentre tornavo via uno di questi degenti, che aveva l’abitudine di spazzare il viale Scabia con una granata di saggina, mi chiese:

“Io so dello Zacchia…te di che reparto sei?”

rimasi basito, tra il riso ed il pensoso. Forse la mia immagine non traspariva tutta quella normalità che ci arroghiamo di avere e devo dire che ripensando a quella frase mi fece anche piacere, perché mi sentii un volterrano, che ha talmente assorbito l’aria di quella struttura, da essere forse essa stessa parte del mio aspetto.

M.C. – Volterrano

Il manicomio di Volterra nello spirito della città