Skip to main content

Fra la perduta gente – visita ad un manicomio moderno

Parte del manicomio di San Girolamo, veduto da Volterra
  • Data di pubblicazione:
    18 Luglio 1912
  • Titolo:
    Fra la perduta gente – visita ad un manicomio moderno
  • Autore:
    Luigi Campolonghi
  • Testata giornalistica:
    Il Secolo XX
Fra la perduta gente

NO-RESTRAINT

Una curiosità, simile a quella, tragica, del Ruysch davanti le sue mummie, improvvisamente svegliatesi dal sonno, assilla anche noi tutte le volte che veniamo in conspetto d’un pazzo.

– Quali furono i vostri pensieri sul punto che vi staccaste dalla vita? – chiede il Ruysch alle sue mummie.

E noi vorremmo chiedere al pazzo che ci sta davanti:

– Di’, con quale animo ti sentisti precipitare dalla luce della ragione nel buio della follia?

Si può ormai affermare che gli sforzi della terapia frenologica più moderna sono intesi a rispondere a questa domanda.

Oggi infatti il frenologo si studia non soltanto di seguire il pazzo nei voli della sua delirante fantasia, ma anche, e specialmente, di togliergli dall’animo il dubbio che fra un periodo e l’altro della sua esistenza ci sia mai stata soluzione di continuità.

Però simula attorno allo sciagurato l’ambiente in cui quegli visse prima di smarrirsi nel caos.

– Per quanto è possibile – ci diceva tempo fa a tale proposito il dott. Luigi Scabia, direttore del Frenocomio di San Gerolamo in Volterra ed oggi incaricato dal Governo di una importantissima missione scientifica in Tripolitania

Panorama della Val d'Era a nord del manicomio.
Panorama della Val d’Era a nord del manicomio.
(La raccolta delle olive nella colonia agricola di San Gerolamo)

– il manicomio deve ricordare ad ogni ammalato la propria casa. E questo è il principio attorno al quale si impernia la disciplina del nostro recinto di dolore e di cura. Qui il no-restraint si può dire assoluto. I nostri pazzi vivono in perfetta libertà, nei padiglioni, nei boschi, nei campi. I più miti vengono spesso affidati a famiglie contadine delle vicinanze, alle quali l’amministrazione del manicomio corrisponde una congrua somma mensile per le spese necessarie (così il pazzo del D’Annunzio nel “ Forse che sì forse che no,) e non pochi, nelle ricorrenze solenni, sono mandati a casa, in permesso. Di tanto in tanto, poi, i nostri ricoverati vanno, in comitive di quaranta o cinquanta, a far colazione in campagna: e, a carnevale, si recita e si balla.

C’è anche qualche pazzo che gode la libertà di uscire, quando gli piace, dal manicomio.

A Volterra tutti conoscono, ad esempio, un vecchio maestro di scuola, che, tutti i giorni, coi danari guadagnati a insegnare a leggere e a scrivere ai ragazzi delle vicinanze, se ne va in città a sorbirsi un buon caffè. Di mezzi coercitivi di cura o di prevenzione non se ne parla quasi più, se non in casi assolutamente eccezionali. Abolite le inferriate alle finestre, aboiito il vasellame di metallo smaltato e sostituito, sia nei refettorii che nei dormitorii, con quello di terra, il pazzo sente meno il distacco fra le consuetudini di ieri e quelle di oggi. I nostri ricoverati, volendo, possono lavorare se e nella misura che il medico ritiene opportuna. Abbiamo una colonia agricola.

Ci sono inoltre, fra i pazzi, calzolai, falegnami, fabbri: ci sono, fra le pazze, sarte, filatrici, lavandaie…. Sarebbe ozioso, oggi, dubitare dell’efficacia del lavoro, specialmente agricolo, come mezzo di cura e di guarigione. La moderata fatica eccita l’appetito, facilita la digestione, concilia il sonno riparatore. Moralmente, poi, il pazzo che lavora si trova meno disorientato, perchè la sua ragione è – per così dire – indotta sulla traccia di una volontà coerente verso una mèta tangibile, reale, e non effimera e sperduta nelle tristi nebbie del delirio.

La fortezza di Volterra a sud-est del manicomio.
La fortezza di Volterra a sud-est del manicomio.

Così parlava il dottor Scabia. Pietà d’uomo o sapienza di medico gli ha suggerito il disegno che in parte potè già attuare ed in parte sta attuando, con inesauribile fervore? Pietà e sapienza insieme, crediamo. Pietà perchè, oggi, gli uomini, più colti, vedono una disgrazia là dove, ieri, schiavi ancora della superstizione, sospettavano un maleficio; sapienza, perchè nella confortante illusione di vivere ancora nella propria casa, l’ammalato si compone in una tranquillità più propizia all’indagine e meglio disposta alla cura.

I pazzi costruiscono il locale per la cella mortuaria, i gabinetti, la libreria, ecc.
I pazzi costruiscono il locale per la cella mortuaria, i gabinetti, la libreria, ecc.

Ad ogni modo, se Volterra ha oggi un Frenocomio più unico che raro – il Frenocomio di San Gerolamo – che non ci ricorda come tutti gli altri l’ospitale e la prigione, ma piuttosto un villaggio, giocondo fra il verde – lo deve non solo alla perspicacia della Congregrazione di Carità, ora presieduta dall’avv. cav. Giulio Bianchi, e alla perizia dell’ing. Allegri, ma anche e soprattutto all’ingegno del prof. Luigi Scabia.

Il villaggio dei Pazzi

Il manicomio deve, per quanto è possibile, ricordare all’ammalato la propria casa – afferma il dott. Scabia: e queste parole sembrano scolpite su tutte le mura del suo Frenocomio.

Perchè, se noi entriamo nel territorio di San Gerolamo – un vastissimo podere con campi, prati, vigneti, verzieri e boschi – cui limita una rete metallica che la legge, severa, ha imposta e la scienza, pietosa, ha dissimulata fra le piante, abbiam subito l’illusione di trovarci in un villaggio alpestre. Di Volterra che ci siam lasciata alle spalle, vediamo soltanto, volgendoci, un lembo della Fortezza: e pare l’avanzo di un antico castello posto a guardia di questo borgo risorto dai suoi ruderi. Davanti a noi, su di un ameno poggio, sorge un vecchio convento, alla cui severità non nuoce l’artistica trina di mattoni che gli corre festosamente sotto le grondaie. Fra quei due segni d’età tramontate – il castello e il convento – case e casupole (i padiglioni, le lavanderie, le officine, la camera mortuaria, i pollai, le stalle, le conigliere) e, tutt’attorno, il verde dei campi e dei boschi.

I pazzi al lavoro

Ed ecco che vi saluta, dalla prima casetta del villaggio, un alacre picchiar di martelli, uno strider lungo di lime, uno squillare allegro d’incudini, un discreto frusciar di pialle. Sono i calzolai, i fabbri, i falegnami. Il calzolaio ha tappezzato di giornali illustrati le pareti della sua bottega, e la sia bottega vi par quella del calzolaio del vostro paese: come quello del vostro paese, il falegname ha in capo una papalina di carta.

Nel verziere
Nel verziere

E che villaggio operoso è questo! Procedendo, noi passiam davanti a due edifici in costruzione: un palazzo (un nuovo padiglione) e una palazzina (il gabinetto scientifico e la camera mortuaria) e vi ferve, sopra, dentro, attorno, il lavoro.

Ora ecco un verziere: fra i cavoli alti e rugosi si curvano due ortolani; ed ecco un prato: un contadino vi conduce un branco di papere; ed ecco la conigliera ch’altri sta governando. 

– Vedono? – susurra il dottore indicandoci quella gente. – O sono vestiti come quando entrarono qui, o si è cercato, nei limiti del possibile, di vestirli l’uno in un modo e l’altro in un altro….

Ma noi non lo ascoltiamo: noi vogliamo illuderci, dolcemente illuderci.

Qui è una casa, là un’altra….

Invano il dottore prosegue:

– Le finestre, com’ho già detto, e come ora possono vedere, non hanno inferriate…. Le imposte a vetri sono partite in tanti finestrini rettangolari i quali possono aprirsi di modo che l’aerazione dei dormitorii è facilissima…. – 

Pazze intente al lavoro nel cortile del guardaroba.
Pazze intente al lavoro nel cortile del guardaroba.

Ma che dormitorii!

Questa è una casa, una gran casa colonica, e quella è un’altra, e le donne che, qua e là, seggono, cucendo o rammendando, facendo la calza o filando la lana, davanti le porte, sono le massaie, le buone e solerti massaie paesane ! Se non che, ad un tratto, una voce irosa risuona nella gran pace meridiana:

– Direttore, quando mi mandi a casa?… Sarebbe ormai tempo, farabutto, ladro!…

Alcide d'Arelate
Alcide d’Arelate. Giornalista, megalomane, a passeggio pei boschi di San Gerolamo.

Ci volgiamo a guardare da quella parte. L’uomo che ha parlato così ci viene incontro.

E alto, una maestosa barba bianca gli scende, dalla faccia congestionata, a mezzo il petto.

Nel suo frenetico desiderio di libertà, egli trema in ogni membro.

– Voglio andare a casa – ripete. – Io ho girato tutto il mondo: e voglio esser libero!

È un pazzo e, con la sua presenza, ci ammonisce che, qua dentro, non sono consentite le illusioni troppo lunghe.

I pazzi scultori

Ci avviamo dunque in silenzio verso un grande palazzo: vi entriamo: è la direzione del Frenocomio.

Il sogno dilegua, e, se la convulsa invocazione di Alcide di Arelate – il giornalista megalomane visto poc’anzi – non ci avesse richiamati alla realtà, questa ci si paleserebbe in tutta la sua crudele evidenza, qui, davanti la molteplice espressione del pensiero dei folli, che il dott. Luigi Scabia assistito dai quattro egregi medici del manicomio, i dottori Pochini, Benini, Sacchini, Michelotti, e dal solerte ispettore signor Nicodemo Dei – vuole offrire alla nostra commossa curiosità. Come nei luoghi di pena, così nei manicomi, il pane è spesso la creta nella quale il demente traduce le visioni della sua fantasia.

Nelle ore d’ozio e di noia, il pazzo lavora con le dita la midolla della sua pagnotta, avendo cura di non intingerla nell’acqua, fino a che non la senta compatta, duttile, malleabile, docile: poi, come ha preparata la materia prima, comincia a plasmarla e la muta in santi, in madonne, in frati, in monache, in piante, in animali…. di cui fa quasi sempre dono al direttore…. nella speranza d’esser mandato a casa. Ma, poiché a Volterra abbonda l’alabastro, altri preferisce l’alabastro al pane, come altri all’alabastro preferisce una materia che costa ancor meno: il mattone.

C’è, ad esempio, una pazza – una isterica – che ha arricchito le vetrine degli uffici del direttore d’una collezione d’animali bianchi e rossi – una vera menagerie ‘ – lavorando appunto ora il mattone ed ora l’alabastro; e durante questo lavoro – ci dice il dott. Scabia – nasconde le mani sotto il grembiule, per impedire che i curiosi vedano l’opera sua prima che sia perfetta.

Per altro, le donne si valgono generalmente della stoffa, come materia prima: e di stoffa si vedono infatti, nella vetrina del dott. Scabia, non pochi asini ed altri animali mostruosi e non pochi bambocci, grotteschi oltre ogni dire.

Un saggio d’ideografia

– Anche gli scritti e i disegni degli alienati – ci dice il dott. Scabia, ed ormai noi lo ascoltiamo rassegnati – hanno un grandissimo valore.

Molti sono gli ammalati, i quali si servono sol tanto dello scritto per tradurre il loro delirio. Vedano ad esempio questo saggio d’ideografia.

Saggio di ideografia
Saggio di ideografia

È d’un pazzo chiamato Aiazzi, che poi vedremo, un paranoico con delirio di grandezza e di persecuzione. Egli è convinto d’esser stato assassinato, e, nella barca di cui è cenno nella diceria illustrativa del disegno, sarebbero i suoi assassini, gli onorevoli Callaini e Pieraccini e il prof. Bruni. Il delitto, al quale non fu estraneo il Vaticano, fu voluto dalle suore del Frenocomio di Volterra e da quelle delle Stanze di Osservazione di Pisa, rappresentate, le prime, da Santa Caterina, le seconde, da Santa Chiara.

La pazza barbuta (Caso classico di demenza terminale).
La pazza barbuta (Caso classico di demenza terminale).

Santa Caterina è, anzi, la più colpevole, perchè ha trasmesso direttamente la sua volontà criminosa al papa trapanandogli il cranio. Le arti di questa santa sono così sottili ch’essa è riuscita ad occupare nella sua rete, rappresentata dall’Ospizio Torlonia, il pesce di San Pietro (Pio X) quantunque una gazza, che ha l’abitudine di rubare gli oggetti lucenti, si adopri per portar via dal cervello del papa il pensiero del delitto. Fino a questo punto l’Aiazzi è posseduto dal delirio di persecuzione. Ma egli è anche un megalomane: ed eccolo infatti, come lo ispira la megalomania, alla destra di Vittorio Emanuele III, superiore a tutti, a piantare, sopra i suoi nemici debellati, la bandiera della vittoria.

Un pazzo poeta e filosofo

Intanto il dott. Guido Bianchi, dell’Università di Pisa, che insieme con noi visita il Frenocomio, sfoglia curiosamente alcuni volumi.

Sono i volumi l’opera letteraria di un altro ricoverato: in arte, Anima Ribelle, al mondo, Lionetto Lupi.

Lionetto Lupi è autore di due brochures di poesie: CarezzeGigli, di due volumi anche di poesie: Ragli e Sermoni Triade indefinita (polisensi satirici) e di un volume di prose filosofiche e scientifiche: Neurastenia e Riviste sociali. 

Non è il caso di fare una recensione delle sue opere.

Diremo soltanto che l’autore, quando non ha la preoccupazione di inventar parole nove, per i suoi versi, ha quella di spiegare a modo suo, in copiose note, l’etimologia delle parole più comuni. 

Fra le parole di nuovo conio, noto di volo: “fotosfere, per fo sforescenti e “ vilezza, per viltà. Secondo il Tanzi – ci ricorda il dottor Scabia – i neologismi rappresentano per il pazzo il fior fiore della sua intelligenza delirante, la nota più costante del suo pensiero, l’obiettivo caratteristico delle sue preoccupazioni.

I versi di Lionetto Lupi non han sempre il numero di piedi voluto dalla prosodia e spesso non hanno neanche, non dirò il senso comune, ma un senso qualunque. Pure, qualche volta, riescono ad esprimere assai efficacemente le sue immagini; e se ne leggon di peggiori nei giornaletti letterarii.

Ecco qui, ad esempio, la prima quartina d’un sonetto ad una Vecchia Libertina (lamento a doppio fondo di un seminarista):

Amor, che spesso la quadrella scocca in giovenile cuor non men che in tardo, or si compiace d'attizzar col dardo l'impura fiamma che di me ti ha tocca....

Del resto, “Anima Ribelle, non è superbo e, sebbene nella prefazione alla Triade indefinita, presuma co’ suoi versi “frutto d’osservazione profonda, di “formare uno stile nuovo, e di “raggruppare tutti i modi di versificazione da Omero in poi, , spesso e volentieri rivolge la satira, “ che è l’arte di dir le cose più atroci in modo che sembrino carezze, anche contro di sè, come ad esempio nella prefazione di Ragli e Sermoni, dove è scritto: “I sermoni nudi e continuati riescono soverchiamente noiosi, perciò li ho tramezzati di ragli, sperando che le tramezze non ti riescano più noiose di loro,. Veramente, a leggere queste parole, c’è da inchinarsi al giudizio di quel frenologo che, durante una rappresentazione di pazzi in un manicomio di Genova, ci diceva: “Vedono? In fondo i pazzi non sono se non savii che han deposto l’abito dell’ipocrisia,. La quale definizione ci ricorda, per analogia, quella che il nostro Lionetto dà dei savii nel suo libro: Neurastenia e Riviste sociali. Pochi sono gli equilibrati e meno equilibrati sono coloro che si vantano di esserlo, perché in essi l’idea dell’equilibrio è fissa; dunque sono monomani”.

In una infermiera

Ma dobbiam rinunciare ad una più ampia disamina delle opere di Lionetto Lupi, perché il direttore vuol condurci a visitare i locali del manicomio. Attraversiamo la cucina, ampia, ariosa, linda, dove una cuoca suda attorno ad una enorme pentola, e due pazzi, che mondano patate, ci salutano con un sorriso ebete; e attraversiamo anche la sala da bagno. Ed eccoci nella infermeria delle donne.

E qui una lunga schiera di letti bianchi. Di sotto le lenzuola, alcune pazze, vecchie ormai, ed esauste, volgono a noi gli occhi cui sembra rimpicciolire un desiderio d’eterni riposi. La pazzia contende ancora alla morte quei poveri e sbandati epaves umani, e non si sa quale delle due sia più crudele!

Ci soffermiamo un momento a considerare una donna baffuta e barbuta – una pazza terminale – e ci affrettiamo dietro il medico, verso l’uscita.

Nel corridoio una donna, magra, tutta chiusa in una lunga tonaca color del tabacco, ci viene incontro e il dottore, salutatala, ce la presenta:

La signora Costanza
La signora Costanza spiega a due visitatori il suo sitema delirante circa lo sdoppiamento della psiche.

– Buon giorno, signora Costanza! Ecco una donna di grande intelletto! –

E quella, raccogliendo nei canti delle grandi orbite, vicino al naso, gli occhi strabici:

– Eh via!… via! – protesta. – Non mi burli!… A me non piace nè il superfluo nè il diminutivo: a me piace il giusto!… Ma chi sono lor signori? Sanno di psicologia?… Desiderano forse ch’io spieghi la teoria dello sdoppiamento della psiche?… – 

Indi, in tono imperioso, al dottore che le ha messo una mano sulla spalla:

– Giù le mani!… Non voglio che ella m’imponga la sua volontà!…

Ciò detto, ci spiega la teoria dello sdoppiamento della psiche, con voce rauca e con gesti concitati:

– Bisogna distinguere fra l’anima e lo spirito onde è composta la psiche. L’anima è una facella che sta, immobile, nel cervello: lo spirito è il suo servo e circola per tutto il corpo ed è dappertutto, anche nella materia cornea delle unghie dei piedi….

Ci guarda un momento in silenzio, la delirante; poi, con un gesto secco ci congeda e se ne va solenne, tutta chiusa nel suo saio color del tabacco.

Quand’era sana, la signora Costanza era una povera vagabonda. Era una vagabonda, ma una vagabonda allegra, molto nota a Montecarlo, anche la sciagurata che visitiamo nella camera attigua, ed ora è una malinconica! E la sua vicina di letto, la quale non vuole spogliarsi mai ed è così convinta d’esser rósa dentro da un serpe che un giorno, per ucciderlo, ingoiò una saponetta, era una buona e proba maestra! Ma chi distingue, qui, la maestra dalla vagabonda, la donna perduta dalla madre di famiglia? La cocotte ci ha guardati in silenzio e la madre di famiglia, davanti la quale passiamo proprio in quest’istante, udendo il dottore che dice: – È una paranoica –, deposti i ferri della calza, scatta urlando inferocita: – Eh, via, imbecille! paranoio sarà lei!

Usciamo, finalmente, anche da questa camera, accompagnati dal saluto di una povera idiota che ci si è fatta incontro, sorretta da due infermiere e rivediamo il sole; ma per breve tempo, che subito il dottor Scabia ci guida in un altro padiglione, davanti al quale, un tempo, sorgeva un piccolo colle – ci racconta – e i pazzi lo hanno poi spianato, risparmiando così all’amministrazione una spesa di circa diecimila lire.

Gli epilettici e paralitici

Ora siamo in un’altra infermeria: nell’infermeria degli uomini. Alcuni malati giacciono sui letti o vagano qua e là per la vasta sala. I più sono epilettici.

Nonostante la più larga applicazione del norestraint – mormora il dott. Scabia – non abbiam potuto, come vedono, abolire del tutto le fascie ai polsi degli ammalati, quando questi, nel momento dell’accesso, potrebbero far male a sè o ad altri. Ma, per ripercorrere alle fascie, è necessario il permesso del medico.

E, accennando ad un infermo:

Quello, vedono, ad esempio, è assai pericoloso.

Ma l’infermo ha udito e, con un sogghigno beffardo, risponde:

Sono pericoloso eh, io?… Grazie tante della “gratificazione!”

Un paranoico geloso, piccolo, bruno, cortese, supplica il direttore di lasciarlo andare a casa.

Epilettico: il quale ogni volta è colto dall'accesso, cade battendo costantemente sul suolo la testa nella regione occipito-parietale sinistra, onde l'ematoma, evidentissimo.
EPILETTICO
il quale ogni volta è colto dall’accesso, cade battendo costantemente sul suolo la testa nella regione occipito-parietale sinistra, onde l’ematoma, evidentissimo.

Ed un altro, un epilettico, ci mostra, invitato, la sua testa deforme, senza far parola.

Amo la libertà come lei – dice.

Nel momento dell’accesso, egli, cadendo, picchia in terra sempre con lo stesso punto del capo, onde la protuberanza mostruosa che gli sconcia la testa.

– Ahi, miserando veglio. L’ombra tu sei d’un re!

Una voce baritonale, che lotta disperatamente con una invincibile raucedine, ci chiama nella prossima stanza.

Un uomo scamiciato, alto, impettito, con gli occhi sfavillanti, sta in mezzo alla camera, e canta e canta: tutt’attorno, seduti sulle panche, lungo le pareti, i suoi compagni di sventura lo ascoltano, muti, impassibili.

Ma, come ci vede, Lelio Casini – che fu, or è qualche anno, l’idolo del pubblico toscano – ci corre incontro e festosamente ci saluta.

Indi, preso a braccetto il dottore, gli accarezza la barba, lo tratta a biscottini sulla pancia, gli dà famigliarmente del tu, s’informa con aria paterna della sua salute e delle sue faccende; e, di tanto in tanto, sottovoce gli chiede: 

– Chi sono quei signori?… Eh di’: chi sono? – e, saputolo, si volge a noi, sempre sorridente, sempre affabile, sempre paterno:

– O bravi! o bravi! han fatto bene a venire…. –

Sembra un artista, nel suo camerino, prima della rappresentazione.

Mentre il Casini parla e noi frettolosamente annotiamo, un paranoico persecutorio, un mezzo delinquente, cupo, nero, barbuto, ci apostrofa in tono imperioso:

– Ehi! Quello che scrive là!… scriva un po’ anche per me: quattro sigari!… Son tre anni che non fumo! –

Vicino a lui, è un folle morale. Ha sempre campato di espedienti, passando da una all’altra casa di salute, sì che conosce ormai tutti i frenologhi d’Italia ed è in grado di pronunciar giudizi sull’uno e sull’altro, la qualcosa egli fa, anche ora, non senza qualche sussiego.

Dottore – domandiamo allo Scabia – è vero che i sintomi della paralisi progressiva non sono dolorosi, ma quasi piacevoli? – Quasi sempre. Il paralitico vive come in uno stato di beatitudine…. Vedano il Casini, ad esempio… Lelio!… Lelio!… Come ti senti?

Il baritono si avvicina frettolosamente, ma la nostra guida s’è rivolta ad un altro infermo, che inoltra sostenuto da due assistenti. È alto anche questo come il Casini, ma più spettrale. Ha una faccia immobile e, nella faccia immobile, due occhi tondi e fissi. I suoi vestiti sono trasandati: è uno dei tanti, qua dentro; ma, dal suo portamento indovini che, nella vita, non fu uno qualunque, lui; ed era infatti, fino a pochi giorni or sono, un avvocato, un valoroso avvocato pisano…

Egli non afferma, come tutti gli altri paralitici che lo circondano di star bene, ma il suo malessere non si può dir dolore, perché deriva, più che da altro, dalla confusa coscienza della sua insensibilità, ch’egli attribuisce alla assoluta mancanza degli organi vi tali. Infatti viene innanzi balbettando: 

– Non ho più stomaco, io…. né cervello…. né ventre…. né gola…. né collo…. né palato…. Più nulla…. – 

E incede, fra il silenzio di tutti, alto, grave, disfatto, come uno spettro.

Allora il dottore riprende rivolto a Lelio, che aspetta seduto su di una seggiola, distratte le gambe, le mani sui ginocchi:

Nel piazzale delle agitate
Nel piazzale delle agitate

– Come ti senti, Casini?

Ed il baritono, con un balzo e picchiandosi il vasto petto: 

– Io?… Io?… Ma bene, ma bene, ma bene! O senti! –

E, rivolto all’avvocato che gli sta di faccia, diritto, pallido, muto, canta:

Ahi, miserando veglio, 
L'ombra tu sei d'un re!...

E canta e canta e canta, ed il pubblico folle l’ascolta, muto: finchè il medico non gli corre incontro costringendolo al silenzio ed al riposo, su di una sedia, dov’egli s’abbatte, livido, convulso, la bava alla bocca e gridandogli:

– No, Casini, non cantare… Lo sforzo ti nuoce!…

mentre l’avvocato dilegua balbettando:

– Un re?… No…. non ho più nulla…. nè palato…. nè ventre…. nè cervello….

Allora, dall’uditorio, s’alza un mormorio lungo.

Gli ammalati si guardano e, agitando le mani scarne davanti gli occhi con il gesto di chi vuol scacciare una mosca importuna, l’un l’altro dice, sorridendo di compassione:

È pazzo, poveretto!…

Il triste errore

E via, da un dormitorio ad una cella, da una cella a un refettorio, fra grida, canti, risate, invettive.

– Ladro, furfante, canaglia! – grida uno al medico, dal suo letto di dolore.

Ed un altro a noi:

– Cyrano de Bergerac?… Scrivi?… O che sei una guardia di pubblica sicurezza?

Un terzo ci guarda con l’unico occhio, chè l’altro ha sconciamente chiuso.

Un catatonico
Un catatonico

Viaggia verso la morte e invano vorrebbe bere la vita con le pallide labbra dischiuse, sulle quali pendono i baffi scarsi e bianchi….

È un paralitico sfinito.

Questi dalla faccia dura e prepotente è Evans, il celebre fantino inglese, un paranoico. 

– Io domando andar via questa inquisizione! –  dice.

Intanto un vecchietto di settantacinque anni, al quale ne daresti appena cinquanta tant’è rubizzo e arzillo, si precipita verso il dottore e lo apostrofa tra il faceto e l’insolente:

– Brutta birba, quando mi darà da bere?

Psicosi alcoolica – spiega il medico.

– Ma che psicosi! – protesta l’altro. 

Poi ride, saltella, burla… Prima di venir qui, riportò quarantasette condanne per ubbriachezza, oltraggio, ribellione, e fu, nel 1898, la prima vittima dei Tribunali di guerra a Firenze, e se ne tiene: ora è al Manicomio con la nostalgia della taverna e della strada.

Pazzi e pazze nella lavanderia
Pazzi e pazze nella lavanderia

Un ammalato, ormai demenziale, grida che la ribellione non è un delitto e al dottore che lo domanda del nome, risponde:

– Lo disse Zanardelli!… Viva il Re Lelli!… – E crede di essere il Re!

C’è anche una Regina, nel Manicomio: nientemeno, la Regina d’Inghilterra.

Essa è piccola, magra, con una faccetta a lama di coltello.

Sbuca dal refettorio e si mette a ballare e a cantare, facendo un passo a destra e uno a sinistra e gestendo ora con l’una ed ora con l’altra mano.

Mira, Norma, a tuoi ginocchi….

Pare un folletto ed ha oltre novant’anni.

Partendo

Nella conigliera
Nella conigliera

La visita, che è durata parecchie ore, volge ormai al termine. Vediamo ancora, nell’infermeria, una sitofoba che si sta alimentando per le vie nasali; e, in un cortile, un catatonico che da un pezzo ci aspetta, immobile, le braccia levate in alto.

Rientriamo un momento nella sala da bagno di un padiglione (ogni padiglione ha la sua sala da bagno) ed il dottor Scabia ci spiega un congegno abbastanza ingegnoso, grazie al quale il gas riscaldante non si accende o si spegne se l’acqua non esce dallo spandente: per tal modo i pazzi sono al sicuro da ogni disgrazia.

Facciamo un’ultima scappata in un dormitorio per vedere e lodare un tipo di letto munito ai lati di reti che impediscono all’ammalato di cadere.

Poi ci avviamo verso l’uscita, riattraversando la colonia agricola. Ancora la palazzina ed il palazzo in costruzione, la lavanderia, le botteghe, la conigliera, le oche, le anatre, i contadini….

Dietro, il convento: davanti, la fortezza.

– La vostra sapienza è grande come la miseria degli uomini – diciamo al dottore e ai suoi collaboratori, prendendo commiato.

Ma l’un d’essi corregge:

– La nostra fede, volete dire!…

E sia!

Infatti l’illusione che ci accompagnava, entrando, non si rinnova mentre usciamo.

È anzi in noi, ora, un pensiero nuovo, assillante, terribile. 

– Siam noi savii davvero? – ci vien fatto di chiederci. – E che cosa è ad ogni modo la nostra saviezza se non sappiamo distinguerla nettamente dalla pazzia altrui, se ignoriamo il punto al di qua del quale è la ragione e al di là la follia?

“Pochi sono gli equilibrati e meno equilibrati coloro che si vantano di esserlo, perchè in essi l’idea dell’equilibrio è fisso; dunque sono monomani.”

Le parole di Lionetto Lupi si riaffacciano al nostro pensiero. 

Ammonimento o beffa?…

Fuggiamo via, sforzandoci di pensare ad altro, di distrarci, di dimenticare. Ma anche questo sforzo è vano. Noi siamo schiavi di una tristezza senza fine. Il sole è caduto dietro l’Abbadia di San Giusto, giù nelle Balze che fiammeggiano come un abisso di fuoco.

Annotta: in tutto il mondo è buio….

Luigi Campolonghi.


Fra la perduta gente – visita ad un manicomio moderno