Fisico per forza
Fisico per forza
Un certo signor Stevens Roger Peter
Nell’immediato dopoguerra fu ricoverato nel nostro manicomio uno dei tanti profughi che si trovavano in Italia durante l’ultimo conflitto.
Serio, distinto, distaccato, quasi altezzoso parlava correttamente l’italiano e l’inglese e sembrava che badasse più allo studio che a guarire.
Ma il mistero del suo comportamento era racchiuso in una valigetta insieme a documenti “top secret”…
Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, si venne a trovare nel manicomio di Volterra, uno strano individuo che era stato mandato nella nostra città da uno dei tanti campi profughi stranieri che si erano andati costituendo in Italia, durante l’ultimo conflitto.
Si trattava di un uomo, in età media, magro di costituzione e non troppo alto, con i capelli color ruggine, ondulati ma ben pettinati; vestiva con particolare ricercatezza se non proprio con eleganza e portava un paio di occhiali cerchiati d’oro che gli conferivano un aspetto serio ed un portamento distinto, distaccato, quasi altezzoso.
Non aveva rapporti con gli altri degenti ma preferiva starsene per conto suo, indifferente, almeno in apparenza, a tutto quello che avveniva intorno a lui.
Quando si muoveva, camminava a testa eretta e a rapidi passi, con una andatura fine ed elegante simile a quella di un impiegato di prim’ordine o di un illustre professore in vacanza.
Nessuno conosceva il suo vero nome e la sua reale identità perché quando era arrivato a Volterra non aveva documenti di riconoscimento né carte che potessero fornire informazioni sulla sua vita passata.
All’ingresso in ospedale aveva dichiarato di chiamarsi Steven Roger Peter e di essere nato e cresciuto
negli Stati Uniti d’America ma, nel giro di poche settimane, aveva già cambiato opinione qualificandosi ora con un nome ora con un altro e dando di sé notizie confuse, ambigue se non addirittura contraddittorie.
Del tutto sconosciuto era anche il motivo per il quale era stato ricoverato in manicomio.
Sul certificato medico di accompagnamento si poteva leggere, in mezzo ad alcune indecifrabili allocuzioni, la parola “alcoolismo” ma il termine appariva troppo vago ed impreciso perché si potesse trarre da esso una precisa diagnosi psichiatrica.
Completamente ignoti erano anche i suoi precedenti anamnesici anche se doveva avere vissuto per qualche tempo sul continente americano dato che, oltre a parlare correttamente in italiano ed in inglese, si esprimeva, in quest’ultima lingua, con inflessioni dialettali che lasciavano intendere una sua permanenza più o meno prolungata nello stato di New York.
Subito lupo il suo arrivo in ospedale, era rato assegnato, così come avveniva con i nuovi ricoverati, al reparto osservazione ove, fin dal primo giorno, aveva chiesto ed ottenuto di poter tenere presso di sé una piccola valigia piena di libri e di quaderni con la copertina nera, scritti tutti a lapis, da cima a fondo.
Sebbene fosse stato invitato a scegliersi un lavoro manuale, aveva preferito orientare la sua attività essenzialmente sullo studio.
Al mattino si alzava prima degli altri degenti e, senza dire nulla a nessuno, si metteva da una parte a scrivere appunti o a leggere i suoi misteriosi libri fino all’ora della colazione.
Durante il giorno, qualche volta si poteva incontrare a passeggio, lungo i viali dell’ospedale ma, prima di uscire dal reparto, si preoccupava sempre di chiudere a chiave la sua valigetta che custodiva gelosamente sotto il letto.
Di notte, quando tutti dormivano, anziché andare a letto come gli altri, rimaneva a studiare, fino alle ore piccole.
Un giorno che Stevens era uscito per fare degli acquisti, gli infermieri scoprirono, per caso, che la sua valigetta non era stata chiusa a chiave come le altre volte.
Spinti dalla curiosità l’aprirono e si accorsero che i quaderni in essa contenuti erano pieni di complicati ed indecifrabili segni algebrici.
Uno di questi quaderni fu consegnato al Prof. Gino Simonini, allora direttore dell’ospedale psichiatrico, il quale, su consiglio di un amico, professore di matematica e fisica in una delle scuole della città, decise di mandarlo in visione al preside della facoltà di fisica della Università di Pisa per un definitivo chiarimento.
La risposta non si fece attendere.
Il quaderno conteneva una lunga serie di problemi di fisica nucleare che, oltre a presentare un elevato interesse scientifico, rendevano indispensabile la presenza a Pisa dell’autore delle formule per una adeguata interpretazione e per una corretta soluzione dei relativi problemi.
Quando il professor Simonini venne informato di ciò che era emerso a Pisa, riunì immediatamente i medici e fece loro pressappoco questo discorso:
“Io l’avevo sempre sospettato che Stevens non poteva essere un malato di mente… Qualcuno di voi non era del mio parere ma ora abbiamo la prova che i miei sospetti non erano infondati.
Siamo di fronte ad un illustre fisico…forse ad un professore che è finito qui per caso…
Potrebbe anche trattarsi di un fisico nucleare che ha dovuto rifugiarsi in un campo profughi per sfuggire alla guerra o per altri motivi a noi sconosciuti…
Resta il fatto che è nostro dovere assistere il signor Stevens Roger Peter in tutte le sue necessità…”
Da quel momento, la vita del paziente, all’interno dell’istituto, cambiò radicalmente, dalla sera alla mattina.
Gli fu assegnata una cameretta singola dotata di un grande tavolo, di una piccola biblioteca, di una
speciale lampada da studio e di ogni possibile conforto.
Gli infermieri del reparto ove Stevens si trovava furono pregati di non disturbarlo e l’autista della direzione sanitaria fu incaricato di accompagnarlo, tutte le mattine, a Pisa dove un gruppo di professori della facoltà di fisica lo attendevano alla prova con malcelata curiosità e viva impazienza.
Intanto la notizia era finita sui giornali ed, in breve tempo, le più diffuse riviste settimanali italiane ed estere gli dedicarono ampi servizi.
Di lui cominciò ad interessarsi anche il Consolato degli Stati Uniti d’America di Firenze che inviò Volterra un alto ufficiale del contro spionaggio americano per interrogare direttamente il soggetto.
Purtroppo, i risultati di questi interrogatori e degli incontri con i professori della Università di Pisa, risultarono piuttosto deludenti.
Alle domande che gli venivano rivolte, Peter rispondeva invariabilmente nello stesso modo:
“Non so’…non ricordo…
La cosa in questo momento mi sfugge…
Devo avere perduto la memoria”.
La notizia che a Pisa erano emerse vistose lacune nella memoria di Stevens arrivò a Volterra con la rapidità di un fulmine e quando giunse alle orecchie del professor Simonini, questi non mancò di raccomandare ai fisici pisani di avere un po’ di pazienza e di procedere per gradi con un individuo che aveva un assoluto bisogno di colmare i vuoti di memoria mediante il riposo e attraverso una intensa terapia a base di fosforo e di complessi vitaminici.
Il consiglio dato dal direttore dell’ospedale psichiatrico fu seguito alla lettera dai professori di Pisa che, per aiutare Peter a sviluppare la memoria, decisero di assegnargli elementari problemi di matematica e di fisica che avrebbe potuto risolvere a casa in assoluta tranquillità.
Così, Stevens riceveva i compiti, li portava a Volterra poi li faceva recapitare ai figli degli infermieri che
frequentavano l’istituto tecnico perché glieli risolvessero quindi li riportava a Pisa non senza avere prima
ricopiato personalmente le soluzioni, in bella calligrafia.
La cosa andò avanti per qualche giorno poi i fisici pisani scoprirono l’inganno e, resisi definitivamente
conto che l’individuo esaminato era completamente digiuno sia di matematica che di fisica, lo cacciarono dalla Università e non vollero più sentire parlare di lui.
Col tempo si venne anche a sapere come Peter si era procurato i quaderni che avevano suscitato grande interesse e tanta curiosità.
Sembra che Stevens, durante l’ultima guerra mondiale, sia stato internato in un campo di concentramento tedesco dove aveva conosciuto un ebreo, professore di fisica, che, prima di morire gli aveva consegnato una piccola valigia con tutti i suoi effetti personali.
La disavventura capitata al direttore dell’ospedale psichiatrico di Volterra non fu certamente l’ultima causata da Stevens Roger Peter, ma di questo ne parleremo un’altra volta.
Bino Bernardini