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Deva era un donnone di una certa età.

I suoi capelli grigi, cortissimi, perennemente arruffati e restii al pettine facevano pensare che fosse ancora più anziana di quel che era ma il suo volto ti disorientava perché aveva l’espressione di una bambina capricciosa.

Senz’altro il suo cervello era rimasto bambino e si comportava di conseguenza.

Anche lei l’ho conosciuta nel 67.

Il reparto Verga, ora sede del C.U.P., gabinetti analisi e ambulatori vari, era allora uno dei reparti femminili più pesanti. Vi erano ricoverate 120 donne con patologie svariate ed anche alcune ragazzine provenienti da orfanotrofi. Vi venivano veicolate le malate più pericolose perché il reparto era munito di “Celle” ed erano quasi sempre tutte occupate. La cella era una stanzetta con una finestra. Aveva nel centro una rete con le gambe murate nel pavimento.

Anche il reparto Biffi era fornito di celle ed anche quello era ritenuto un repartaccio.

Correva voce che vi venissero veicolate anche le peggiori infermiere, le più ribelli e quelle dichiaratamente di sinistra ma forse era soltanto un voce altrimenti io sarei stata mandata li prima di peccare perché speditavi fin dal primo giorno di tirocinio e rispeditavi appena assunta.

Lì, in una di quelle celle, ho conosciuto Deva e non so da quanto vi era ospite e lì, purtroppo l’ho lasciata, 13 anni dopo quando sono passata all’ospedale civile.

Deva non era pericolosa: lo era solo per la biancheria, materassi compresi che riusciva a ridurre in coriandoli.

Veniva tenuta in cella, legata al letto per evitare che lacerasse tutto; non riusciva a trattenersi e nonostante tenessimo sempre la porta della cella aperta e fosse contenuta a volte riusciva a sfilarsi una fascia da un polso e la frittata era fatta.

Di carattere era una allegrona. Parlava in continuazione e ripeteva le stesse domande fino allo sfinimento. Era una bimbona sempliciotta, a volte un po scurrile, ma simpatica da morire.

La mattina quando arrivavamo la sentivamo subito. Sapeva i turni che rientravano e da chi erano composti e non sbagliava mai. Sembrava riconoscesse i passi ed anche se le rispondevi subito, più volte ti chiedeva

“Bagnoli,quante se ne abbiamo oggi?”

“Deva, se ne abbiamo 12!”

“Che giorno è?”

“Giovedì!”

“Cosa hai mangiato per colazione?”

“Caffè e latte!”

Tutto questo a distanza mentre sbrigavo i primi lavori e quindi diventava un bel vociare che finiva di svegliare tutte le pazienti di quell’ala.

Si lasciava lavare e cambiare mentre continuava con le sue domande, sempre le stesse e il meglio veniva quando la aiutavo a fare colazione.

Ogni mattina, anzi ogni volta che la imboccavo esclamava

“Bagnoli mi canti la Peppina fa il caffè!”

(canzoncina dello Zecchino d’oro all’ora in voga) e li davamo il meglio di noi stesse perché, fra un boccone e l’altro cantava anche lei.

La cantavamo ripetutamente anche dopo mentre facevo altre cose e capitava spesso che si aggregassero al coro altre pazienti fin che non si affacciava la suora a dirci di far più piano.

Quando avevo un po di tempo scioglievo la Deva e a braccetto facevamo le vasche nel camerone.

Quell’ozio forzato le aveva indebolito la muscolatura e a fatica camminava ma la voglia di chiacchierare era sempre molto forte.

Ora era il momento della mutanda!

“Bagnoli, che mutande hai stamani?”

Dopo la mia descrizione su colore, forma e pizzi cominciava

“Me le fai vedere!”

“No!”

“Perché no?”

“Perché poi me le strappi!”

“No!”

“Invece si!”

Una volta era accaduto che una mia collega l’aveva contentata forse per chetarla perché ti prendeva per sfinimento.

La Deva in un attimo le afferrò e le strappo, la poveretta tornò a casa senza mutande.

Le mutande al manicomio, erano solo un ricordo, non esistevano e solo le donne che stavano bene, quelle che aiutavano, forse le possedevano per il resto erano una cosa che non c’era, infatti, quando le donne avevano il ciclo, erano costrette a stare a letto per tutta la sua durata.

Un’altra domanda fissa, con risposta obbligata, della Deva era;

“Bagnoli cosa hai visto alla trevisione?”

“Una notte sul vaso con Doloris de Corpus!”

e li scoppiava la sua irrefrenabile risata che a volte finiva col contagiare anche me e ridavamo come due sceme.

Pensare che la risposta era stata suggerita da Deva stessa; chissà dove e quando l’aveva udita e perché ogni volta le provocava quella gran risata.

Povera Deva, quando la sentivi un po’ zitta dovevi andare a vedere perché, senz’altro stava cercando di afferrare un lembo di stoffa per poterla strappare.

Quando la sgridavamo, perché c’era riuscita, piangeva e si raccomandava che non lo scrivessimo sulle consegne perché poi le avrebbero fatto la Scopolamina che le faceva vedere tanti animali feroci che stavano per aggredirla e allora…

Qualche volta i brandelli sparivano e cantavamo insieme

“La Peppina fa il caffè”

Ottorina Bagnoli – ex-infermiera O.P.V.

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