Skip to main content

All’ospedale psichiatrico di Volterra la musica è una terapia di rottura

All’ospedale psichiatrico di Volterra la musica è una terapia di rottura
  • Data di pubblicazione:
    2 Aprile 1975
  • Titolo:
    All’ospedale psichiatrico di Volterra la musica è una terapia di rottura
  • Autore:
    Michele Barbieri e Rossana Mattiussi
  • Testata giornalistica:
    Quotidiano dei lavoratori

All’ospedale psichiatrico di Volterra la musica è una terapia di rottura

Un interessante esperienza di musico-terapia in corso a Volterra: una linea d’intervento nel campo sonoro-gestuale per rompere isolamento e la passività dei pazienti – Le reazioni dei pazienti e il rapporto con la terapia – Il collegamento con Psichiatria Democratica.

Quella che segue è l’intervista rilasciata al Quotidiano dei lavoratori da un gruppo di compagni musicisti del conservatorio di Firenze.

Ci sembra che la loro esperienza sia estremamente interessante perché è l’unica nel suo genere, a quanto ci risulta, ad essere svolta attualmente in Italia; e anche perché può essere un esempio della varietà dei modi e dei luoghi in cui si può sviluppare l’intervento culturale dei compagni.

D.: Come è iniziato il vostro intervento?

R.: Siamo un gruppo di quattro musicisti: Guido Bresaola, Gianfranco Gentile, Fausto Gliozzi, Albert Mayr, e svolgiamo ogni settimana un intervento di circa 2 ore nel reparto « Biffi » dell’o.p. di Volterra.

Questi interventi, iniziati a fine novembre 1974, erano stati preceduti da colloqui con il direttore, dr. Carmelo Pellicanò, e lo staff sanitario dell’o.p., per la maggior parte esponenti di Psichiatria Democratica, i quali erano interessati a continuare e ad estendere le finora saltuarie apparizioni di musicisti provenienti dall’esterno, nel quadro dell’intensificazione e riqualificazione dei rapporti tra o.p. e il mondo dei «normali».

D.: C’erano già state altre esperienze del genere, e in che cosa Il vostro intervento si è caratterizzato?

R.: Fermo restando il riferimento alla musico-terapia abbiamo comunque dall’inizio messo in chiaro che non intendevamo (né potevamo del resto) porre i nostri interventi sul piano « specialistico », cioè di un
fare musica speciale da o.p., per così dire, ma che li svolgiamo come operatori musicali che hanno scelto questo contesto non come area di operazioni unidirezionali (tradizionale rapporto musicista-pubblico, o anche tecnico sanitario-paziente) ma come possibile area di espletamento della loro attività abituale, adeguata alla specificità del contesto.

Va focalizzato anche un altro punto: la situazione italiana per quanto riguarda le attività musicali è caratterizzata da: un altissimo livello di analfabetismo musicale (e ciò non va inteso solo nel senso di una preparazione teorico-strumentale tradizionale); una quasi totale accettazione della delega agli operatori specifici di occuparsi dell’ambiente sonoro e riluttanza a rendersene, anche solo in parte, artefici; mancanza di capacità e preparazione per poter concepire l’uso del mezzo sonoro come possibile strumento emancipatorio.

Questo comporta varie differenze di un intervento come il nostro rispetto, a simili operazioni in altri paesi industrializzati.

D.: Quali finalità vi siete proposti?

R.: Le finalità che ci siamo poste e che ci poniamo non sono tanto definibili nel senso di risultati «concreti» (o «terapeutici») da raggiungere, quanto come obiettivi generali, in direzione dei quali indirizziamo la nostra attività, i quali, se raggiunti — o almeno individuati correttamente nel campo dell’attività sonora-gestuale, possono essere ribaltate anche nelle altre sfere della realtà dell’o.p.: si tratta, in primo luogo, di rompere, o almeno intaccare, i seguenti aspetti:

— la passività dei pazienti, fornendo loro degli strumenti per agire in prima persona su un aspetto dell’ambiente di solito gestito in modo impersonale (ricorrendo a radio, Tv, dischi, ecc.) o peraltro atrofizzato, sia sotto l’urto massivo dei raramente arginati rumori dell’industria, sia perché il «silenzio» è ancora visto come la situazione sonora desiderabile in istituzioni come scuole, ospedali, uffici ecc.;

— l’isolamento dei malati tra loro, inserendoli in una prima forma di cooperazione;

— le pur persistenti stratificazioni tra medici, infermieri e ricoverati, riunendoli in un’attività comune.

D.: Potete descriverci come svolgete la vostra attività?

R.: Svolgiamo gli interventi una volta per settimana, nel venerdì pomeriggio, nel reparto femminile «Biffi», che ora occupa il pianterreno dell’edificio «Cerletti».

Dopo sei interventi, in occasione di una prima «tavola rotonda» tra medici, infermieri e noi, fu deciso di far partecipare anche i pazienti maschili ricoverati nel piano superiore.

Il reparto consiste in un ampio atrio d’ingresso, e sui due lati di questo, di due soggiorni (uno per le pazienti meno «gravi», che in generale hanno facoltà motorie più o meno normali, e una certa capacità di
espressione verbale, e un altro, per le più «gravi», spesso affette anche da menomazioni fisiche (paralisi parziale, ecc.) e non in grado di comunicare verbalmente), delle camere per le pazienti, e i servizi.

Dopo alcuni interventi effettuati, alternando, in uno dei soggiorni, abbiamo scelto come centro principale della nostra attività l’atrio d’ingresso sia per ragioni pratiche (presenza di prese di corrente. ecc.) sia per la sua «equidistanza» dagli altri locali, disposti sui due lati, che permette alle ammalate, almeno a quelle in grado di camminare, di parteciparvi a loro piacimento; le altre vengono portate nelle loro sedie, o che diano a intendere, che vogliono partecipare, o a discrezione delle infermiere.

Alcune «gravi» comunque rimangono nel loro soggiorno e perciò vi facciamo delle «escursioni», sollecitando le malate più individualmente.

La strumentazione che usiamo consiste di: 1, 2 chitarre e basso elettrico, percussioni varie, organo elettrico, componenti di batteria, trombone.

In parte gli strumenti sono dell’o.p.

Inoltre usiamo, e incoraggiamo i malati (e chiunque partecipi, infermieri, medici, visitatori) a usare come fonte sonora qualsiasi oggetto che vi si presti (carrelli di metallo, vasi, sedie e tavoli ecc.).

A nostra richiesta sono stati costruiti due sets di «campane tubolari» (tubi di metallo di varia lunghezza pendenti da un’impalcatura) che sono continuamente a disposizione delle ammalate.

Durante gli interventi gli strumenti (ad eccezione di quelli a corde, per motivi comprensibili) vengono distribuiti ai presenti che si mostrano interessati a partecipare.

D.: Quale forma di linguaggio musicale avete scelto, e quali sono le reazioni dei pazienti?

R.: Per quanto concerne il materiale e il linguaggio musicale che usiamo, sarebbe difficile catalogarlo secondo le classificazioni correnti.

Se per la natura stessa dei nostri interventi tendiamo a un certo eclettismo, abbiamo comunque subito rifiutato di servirci delle più trite formule della musica da consumo.

Siccome l’elemento ritmico è senz’altro quello più direttamente afferrabile e quello su cui più facilmente può aver inizio un fare musica comune, diamo a questo elemento un particolare rilievo, sia proponendo delle formule ritmiche facilmente accessibili e imitabili, sia cercando di integrare e seguire le basi ritmiche (nella maggior parte battiti regolari) eseguiti dai pazienti.

Avviene naturalmente spesso che differenti articolazioni ritmiche si sovrappongano, dato che alcuni ricoverati o non sono in grado o non vogliono seguire il ritmo nostro o di altri suonatori.

E questo ci porta al discorso sulle reazioni, le risposte dei malati.

Sin dai primi interventi, nei quali la partecipazione delle pazienti era ancora abbastanza limitata, si sono
delineati tra loro alcuni atteggiamenti tipici: (alla luce di quanto detto prima a proposito del nostro delimitarci rispetto alla musicoterapia «ufficiale» abbiamo volutamente rinunciato a voler interpretare, o farci interpretare, tali atteggiamenti sulla base del quadro clinico dei singoli pazienti, né più né meno che rinunciamo a voler analizzare la risposta dei singoli individui in un pubblico di concerto in base alle loro caratteristiche psicologiche): da alcuni il mezzo sonoro è chiaramente usato come strumento di autoaffermazione nel senso più diretto come possibilità di dimostrare e ricordare agli altri la propria presenza, senza voler necessariamente partecipare all’attività del gruppo, di sfogare delle aggressioni.

Sono spesso coloro ai quali per patie psichiche e fisiche sono precluse altre forme di espressione.

In altri si manifesta una componente ludica la partecipazione all’intervento è vista come amusement, come piacevole interruzione.

Altri ancora, particolarmente delle pazienti femminili, suonano perché gli piace la compagnia, specie la nostra, e sono disposte a darsi da fare con triangoli e campanelli pur di starci vicine.

Alcuni mostrano delle riserve; vengono nell’atrio, ma partecipano raramente.

Sembra che da un lato — e qui viene alla luce lo spietato ordine gerarchico esistente in un reparto di o.p. — reputino sotto la loro dignità partecipare ad un’attività insieme a malati più gravi di loro, e dall’altro rifiutino di accettare come «musica» il fracasso dei nostri interventi, non decifrabile con i canoni della musica da consumo.

Sono gli unici che conoscono, ma li conoscono e non sono disposti a rinunciare a questo «bagaglio»,
che finora aveva anche contribuito a sottolineare la loro posizione più in alto sulla scala gerarchica.

Altri invece sono chiaramente interessati ad una comunicazione mediante il suono, sia a un dialogo con uno di noi, sia a partecipare alla musica di gruppo, anche quando avvertono i limiti della loro collaborazione, cercano di inserirsi organicamente nella situazione.

Altri ancora vengono quasi sempre, ma è difficile convincerli a suonare, paure e inibizioni gli impediscono di partecipare attivamente, ci tengono però a essere presenti.

In altri ancora, la nostra musica provoca delle reazioni sul piano motorio, gestuale, o rispondono con grida.

Dalle prime volte fino adesso (abbiamo, al momento della stesura, fatto 11 interventi) il numero di coloro che partecipano è notevolmente aumentato e cominciano a delinearsi qua e là forme di un fare musica più o meno cosciente.

D.: Qual è l’atteggiamento del personale nei vostri confronti?

R.: Un campo che si presenta più arduo, ma che comincia a sbloccarsi, è quello del dialogo con il personale infermieristico, e della loro collaborazione alla nostra attività; per varie ragioni (rotazione del personale, graduale formarsi della nostra strategia operativa) tale dialogo ha cominciato un po’ in ritardo.

Va detto comunque che molti seguono i nostri interventi con interesse, alcuni partecipano perché vedono l’attuabilità del nostro progetto, anche se ancora non accettano la veste sonora in cui si presenta, e nell’uno e nell’altro comincia ad affiorare la disponibilità a continuare delle esperienze sulla scia dell’attività iniziata.

Cosa essenziale per non circoscriverne la potenziale portata alla realtà parziale di data e luogo.

a cura di Michele Barbieri e Rossana Mattiussi

All’ospedale psichiatrico di Volterra la musica è una terapia di rottura